Dopo i Venerdì, ritrovare le Pasque


di Marcello Veneziani


Pubblicato su La verità - 20 aprile 2025

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Processione del Venerdì Santo


Chiese traboccanti di gente, file lunghissime per entrarci e partecipare ai Sepolcri, folle accalcate per assistere alla processione del Venerdì Santo, l’Incontro tra Gesù e la Madonna, e poi la sera per assistere ai “Misteri”.

Se un turista cinese fosse venuto in questi giorni al mio paese avrebbe detto che la fede cristiana da noi è più viva che mai, un intero popolo partecipa ai suoi riti e alle sue celebrazioni. Altro che ateismo pratico, secolarizzazione, scristianizzazione. Altro che solitudini di massa, videodipendenza, phonoisolamento. Si, qualche telefonino di troppo per filmare o fotografare l’evento, qualche applauso fuori posto, in verità marginale, per sottolineare il carattere spettacolare dell’evento e la mutazione dei fedeli in pubblico.
E per chi ha termini di paragone con altre epoche, non c’è quella partecipazione dolorosa di un tempo, le donne vestite di nero che piangono e ricordano nella morte di Gesù Cristo la morte dei loro cari.
Però il fenomeno è imponente e tutto sommato dice ancora qualcosa.

A pochi chilometri dal mio paese, a Molfetta, Riccardo Muti torna apposta per partecipare a quei riti della Settimana Santa; a Taranto addirittura è sorto un conflitto tra le confraternite per portare in processione la Madonna.
Insomma, un fervore che stona con la vita quotidiana e profana.
Vai il resto dell’anno nelle chiese e hai tutt’altra esperienza della devozione e della partecipazione; pochi partecipanti, anziani. Allarghi lo sguardo al Paese e vedi chiese disabitate ormai, vuote, o addirittura chiuse; alcune riconvertite in luoghi per mostre, conferenze, mete turistiche e artistiche, o peggio per ristoranti e ostelli. Conventi spopolati, enormi strutture con tre quattro vecchi monaci o suore, salvo quelli appena rivitalizzati da qualche giovane rinforzo venuto da mondi lontani.
Eppure l’evento di cui parlavo è doloroso, e lo spirito della nostra epoca tende a rimuovere tutto ciò che evoca sofferenza, morte, lutto.
Ma il Venerdì Santo è forse l’evento non mondano che più mobilita; certo, c’è l’automatismo dei riflessi condizionati, quando un evento diventa la concentrazione del presente tutti convergono al richiamo. Qualcosa anche di più profondo del puro richiamo spettacolare, una specie virale di coazione a partecipare, una forma di precettazione volontaria o ereditaria per non mancare dove ci sono tutti. Ma la tendenza emulativa a conformarsi, ad accorrere dove tutti vanno, a imitare parenti, amici, vicini, non esaurisce i motivi dell’affluenza.

Torno a chiedere il perché di una molla profonda, e forse scavando fino in fondo si trova una matrice sommersa. Uso apposta la parola matrice perché evoca non solo una fonte originaria, quasi uno stampo, ma anche il ricordo di una mater, magari di una nonna, comunque di chi ci esortava alla devozione, qualcosa che atteneva all’infanzia, ai ricordi, al sentito dire di una fede vissuta. Ma anche quel riflesso evocativo, il bisogno di ritrovare la Madre e poi il Padre, non si può esaurire soltanto nella grammatica affettiva della nostalgia, dei ricordi d’infanzia, dei cari perduti o del tempo che fu.
C’è come il richiamo a qualcosa che ci riguarda strettamente, direttamente e universalmente, qualcosa che ci parla della vita e della morte, della nascita e del dolore, della salute e della malattia, dei legami primari di fronte alla sorte; ogni tanto sentiamo il bisogno di andare a trovare quel Cristo che è nascosto da qualche parte dentro di noi; e quella Madonna, quel Bambino, quel Santo. Solo in un attimo riaffiorano e ci sfiorano anche le ombre profonde che sono dentro di noi e che ruotano intorno a un sentimento primordiale, la paura: la paura di morire, di perdere i cari, d’invecchiare e di soffrire. Il nostro sentirci esposti, mortali, indifesi, bisognosi di aiuto e di luce.
Ci sentiamo partecipi in quel momento volatile, pur tra mille gesti banali e profani, di un soffio di vento che puntuale arriva in quel momento. Il cielo era sereno ma in quel momento si copre e si rabbuia, il vento soffia, e sento dire dalla gente che è sempre così il Venerdì Santo. Traccia superstite e forse superstiziosa di qualcosa però che vogliamo dire: quel vento, quel cielo che al momento cruciale si oscura, è in fondo la percezione atmosferica dello Spirito Santo che riprende a soffiare. Nessuno lo chiama così e se a volte lo pensa non lo dice per non coprirsi di ridicolo; ma poi sotto sotto ci pensa davvero, il mondo e il tempo sembrano inginocchiarsi a qualcosa che non appartiene ai fenomeni fisici. Così segretamente pensano in tanti, ma nessuno lo dice. Per un momento ci lasciamo sfiorare dalla carezza del sacro.

Nel nostro tempo è possibile fare coming out delle proprie inclinazioni sessuali, ma non delle nostre sensibilità religiose e spirituali. In quel preciso momento del passaggio, chi ti è accanto non lo percepisci come estraneo, o addirittura ostile, ma per un momento, solo per un momento, lo senti davvero prossimo, legato a te da qualcosa di essenziale: sperimentiamo senza saperlo il senso puro, elementare di religio, la religione è quel legame primario tra persone nel nome e nel segno di qualcosa, Qualcuno che le trascende.

Questo afflato religioso passeggero, lo perdiamo di solito nel giorno di Pasqua, dove l’aspetto ludico, gastronomico, conviviale si riprende il suo posto e ci riporta alla vita grassa.
Eppure, oltre il Venerdì Santo, abbiamo un grande, assoluto bisogno di Pasqua, di una nostra pasqua. Se Pasqua vuol dire passaggio, cioè cambiamento, abbiamo bisogno di ricominciare, di svoltare, di ripartire con fiducia; se Pasqua vuol dire Resurrezione, abbiamo bisogno di risorgere, cioè di non abbatterci, di non rassegnarci, di non cedere alla forza di gravità e di abbandonarci, lasciarci vivere: è sempre tempo di rinascere, anche da vecchi, c’è sempre qualcosa che può rigenerarsi, rifiorire e dar vita a una nuova nascita.

Assumo questa visione pasquale al di là del connotato religioso e confessionale, come una promessa di vita rinata, uno slancio vitale e spirituale per ritrovare se non la fede almeno la fiducia, se non la speranza almeno l’aspettativa. Abbiamo bisogno soprattutto di non pensarci sempre, come purtroppo ci pensiamo, al capolinea del mondo, del tempo, alla fine della vita nostra; ma aperti all’imprevisto, alla sorpresa (Pasqua è anche sorpresa, non solo nell’uovo pasquale), al Nuovo Inizio.
Si tratta di non sprecare quel retaggio profondo che ci portiamo dentro e di metterlo a frutto, di convertirlo in energia della mente e dell’anima; la matrice religiosa è ancora una fonte preziosa da cui attingere coraggio, fiducia, impulso.
Non conosciamo ancora abbastanza la ricchezza di quei giacimenti che abbiamo ereditato e depositato dentro di noi. Un tempo per indicare uno squilibrato si diceva: gli manca qualche venerdì. Oggi invece ci mancano le domeniche, come la Pasqua.
Un atteggiamento di vita, un’intima disponibilità, che non nega e non nasconde l’età, la nostra e quella in cui viviamo, non rimuove la morte e il dolore, ma riapre quell’attitudine alla gioia inattesa, allo stupore imprevisto e all’intrapresa di un’opera. Anche se hai un solo giorno davanti, pianta un seme, metti a frutto, lascia un segno. Questo vuol dire avere una Pasqua dentro di sé, come una fiaccola nel buio e una promessa di luce.
Abbiamo bisogno di nuove Pasque.





 
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