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Preghiamo per Leone XIV ![]() Non è facile esprimere
un parere riguardo all’elezione dell’uomo più importante al
mondo, dotato di un potere non puramente umano, ma divino, non limitato
a un popolo, ma universale. L’operato di ogni persona, inoltre, va
osservato attentamente prima che si possa emettere un giudizio su di
esso, a maggior ragione se si tratta del Vicario di Cristo.
Non siamo di quelli che apprezzano qualcuno nella misura in cui corrisponde ai loro gusti o condivide le stesse idee, né di quelli che si riferiscono al Papa come a un qualunque leader politico; ci sforziamo piuttosto di comprendere se un ministro di Dio parla e agisce in modo conforme a ciò che è soprannaturalmente diventato per intervento del Cielo. Non intendiamo neppure fare l’errore di valutare il Successore di Pietro in rapporto a chi l’ha preceduto, anziché a Gesù Cristo. Il nostro sguardo deve essere il più possibile oggettivo e tener conto dei fatti, piuttosto che di facili congetture o di fantasiosi collegamenti riguardo al nome e allo stemma. L’americano Robert Francis Prevost, eletto nel pomeriggio di giovedì 8 maggio, al quarto scrutinio, non era popolarmente noto prima che Bergoglio lo chiamasse a Roma a dirigere il Dicastero che si occupa della scelta dei vescovi; con appena due anni da cardinale è inopinatamente assurto al Soglio. Che abbia indossato le insegne pontificie e parlato di Cristo è qualcosa di assolutamente normale, salvo forse per chi, nei dodici anni di papato “francescano”, per un paradossale capovolgimento della realtà si è abituato al contrario della normalità oppure non ricorda che il modo in cui si presentò l’uomo venuto dalla fine del mondo fu un’eccezione, la quale non può esser diventata la regola. Religioso agostiniano di vasta cultura, missionario in Perù, per due mandati generale dell’Ordine, poi vescovo di Chiclayo dal 2014, nel gennaio del 2023 Prevost è chiamato a Roma a succedere al cardinal Ouellet, ricevendo la berretta rossa nel settembre successivo; il 6 febbraio 2025, pochi giorni prima del ricovero, Bergoglio lo eleva ulteriormente conferendogli la titolarità della diocesi suburbicaria di Albano, quasi a voler designare il successore. La circostanza scabrosa di questa fulminea carriera – ahimè – sono due scandali di abusi su minori, scoppiati poco tempo prima, a carico di sacerdoti della sua diocesi che, come al solito, sono rimasti impuniti. Il successore di Prevost a Chiclayo (suo amico e scelto da lui) ha insabbiato tutto, mentre il monsignore che ha patrocinato le vittime è stato perseguitato con estrema severità, fino alla riduzione allo stato laicale. Questi fatti non lasciano intravedere spiragli di risoluzione dei numerosi casi di abusi ad opera di membri del clero. La rete di complicità e connivenze sembra riuscita ad imporre un candidato che non turbi il sonno dei pedofili in clergyman, a cominciare da quelli incistatisi nella Curia Romana. Le battaglie legali continuano a scontrarsi con un impenetrabile muro di omertà; neppure la diretta interpellanza pubblica del predecessore riguardo ai casi più dolorosi (come quelli di Rupnik e del Preseminario San Pio X) ha potuto smuovere qualcosa, a parte la condanna in extremis, seguita a stretto giro, di un indifendibile pesce piccolo. La sensazione – che speriamo presto smentita dai fatti – è che si sia voluto il mantenimento dello statu quo di immoralità e corruzione: questo è il vero problema della gerarchia, che si trascina da decenni. Gli orientamenti ideologici dei prelati, su cui si appunta l’attenzione di tutti, non sono affatto la questione decisiva: come osservato negli ultimi pontificati, essi cambiano come gira il vento. Nel 2012 era obbligatorio dichiararsi contrari alla teoria del gender, così come lo è stato raccomandare l’atto d’amore nel 2021. Adesso, per addomesticare i tradizionalisti, ci vuol poco a farsi fotografare in paramenti antichi (peraltro con la croce pettorale nascosta), ma l’ignobile trattamento riservato a monsignor Strickland non va dimenticato. A livello psicologico è ben comprensibile, dopo questi anni di tensione, il bisogno di veder tutto rosa, sminuendo o togliendo dal campo visivo gli elementi dissonanti; questo non è però uno sguardo obiettivo, bensì un’espressione della maniera emotiva, tipicamente postmoderna, di porsi nei confronti del reale. La nostra società si lascia incantare dai discorsi, che sono certamente importanti, ma devono esser confermati dai fatti. Per questo bisogna attendere pazientemente e osservare diligentemente azioni e comportamenti. L’allocuzione preparata per la benedizione Urbi et orbi, ad ogni modo, denota una chiara continuità col pontificato precedente, di cui riprende molte parole-chiave, con una particolare enfasi sul tutti, sui ponti e sul camminare. L’iniziale augurio di pace, facendo pensare all’intenzione di riconciliare la Chiesa terrena così frammentata, dà conforto, purché non diventi un’arma con cui giustiziare come nemico della pace chi non accettasse eventuali innovazioni. Anche l’insistenza sulla carità e sulla missione potrebbe risolversi in uno strumento di condanna di quanti non fossero abbastanza inclusivi e accoglienti. Questa inquietudine, nonostante la sottolineatura della centralità e necessità di Cristo, ribadita nella prima omelia, è piuttosto acuita dal riferimento al paragrafo 22 della Gaudium et spes, uno dei più ambigui testi del Vaticano II, ampiamente sfruttato dai progressisti per supporre un’anonima presenza di Cristo in ogni cultura, in ogni religione e in ogni persona. L’idea che «in Lui Dio, per rendersi vicino e accessibile agli uomini, si è rivelato a noi negli occhi fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un uomo» abolisce di fatto la distinzione tra rivelazione naturale e soprannaturale e apre al panteismo. Qual è davvero, allora, «il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette»? Sono decenni che i termini della tradizione cattolica sono usati con un diverso significato. Noi siamo vaccinati – in questo caso, sì – rispetto a quelle apparenze rassicuranti che celano una realtà opposta. Dobbiamo renderci conto che buona parte dell’attuale gerarchia non ragiona più col principio di non-contraddizione, in quanto la sua formazione intellettuale l’ha ormai assuefatta alla conciliazione dell’inconciliabile. Il pensiero di Bergoglio era impregnato di gnosi e di cabala giudaica; Prevost ha studiato con un pioniere del dialogo ebraico-cristiano. Il nome da lui scelto fa pensare, come acutamente osservato da una lettrice, a frate Leone, il più intimo amico e stretto collaboratore di san Francesco, ma più colto e smaliziato di lui; tale accostamento induce a pensare a un progetto ben architettato da tempo per continuare le “riforme” incantando però gli avversari e rendendoli inoffensivi con uno stile da popolare serie televisiva. Abbiamo intensamente pregato perché il Signore donasse alla Chiesa un Papa degno. Ora che ci ha dato un Papa, continuiamo a pregare perché sia un buon Papa, a prescindere dalle premesse. Il cattolico sa bene che la grazia richiede la cooperazione degli uomini e che la Provvidenza include nei propri disegni anche le loro suppliche. L’ufficio di Sommo Pontefice comporta una grazia di stato unica, che può profondamente trasformare l’uomo che lo detiene; chiediamo al Signore di togliere dal cuore di Leone XIV gli eventuali impedimenti. Possiamo ancora avere il Papa di cui la Chiesa ha bisogno anziché quello che ci meritiamo, purché non smettiamo di implorare il Cielo con viva fede e con l’umiltà di chi riconosce di non poter fare nulla da sé, ma tutto con l’aiuto dell’Onnipotente, al quale ognuno di noi, a cominciare dal Suo Vicario, un giorno dovrà rendere conto. |