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Croce pettorale di Leone XIV: con la Reliquia di un vescovo spagnolo martirizzato nella Guerra Civile di Giovanni Formicola ![]() Carissimi, apprendo, grazie al caro amico Alessandro, che la croce pettorale indossata da Leone XIV l’8 maggio, giorno della sua elezione, quando si è presentato al mondo affacciandosi dalla Loggia Centrale della Basilica di San Pietro, custodiva cinque reliquie “agostiniane”. Tra esse – di sant’Agostino, di sua madre santa Monica, del vescovo san Tommaso da Villanova, del vescovo venerabile Bartolomeo Menochio. Ha attirato la mia attenzione quella del vescovo spagnolo beato Anselmo Polanco (1881-1939). Agostiniano, già rettore del seminario di Valladolid e provinciale del suo Ordine, nel 1935 viene nominato da Pio XI vescovo di Teruel e un paio di mesi dopo riceve l’ordine episcopale. Lo storico britannico Paul Preston – certo non sospetto – lo definisce “religioso pio, austero e conservatore, abituato a distribuire elemosine ai poveri”. Pio, sì, ma anche “bellicoso”, come lo definisce lo storico Hilari Raguer, cioè non incline ad un pacifismo – meglio, a un mitismo, contraffazione della mitezza – di maniera di fronte al dramma storico che viveva la Spagna di quegli anni, capitolo della più ampia e universale guerra tra il bene e il male e della sua manifestazione nel tempo degli uomini con le correlative inimicizie tra le due stirpi, come annunciate dal Genesi (3,15), e come compendiate magistralmente da Plinio Corrêa de Oliveira nel suo Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Il beato vescovo era “bellicoso”, quindi, perché consapevole del fatto che nella sua Spagna erano in gioco, in ultima analisi, il rispetto dei diritti di Dio e la radicale difesa della giustizia e del bene comune, nonché la salvezza spirituale e temporale del gregge che gli era stato affidato. Il che non ammetteva fughe dalla realtà travestite da rifiuto pseudo-evangelico dell’uso legittimo (e perciò doveroso) della forza, anche armata, come confermato da san Giovanni Paolo II a Vienna nel 1983, a proposito dell’omonima battaglia che salvò la città (e forse l’Europa cristiana tutta) dalle orde islamiche. E così, in occasione delle elezioni del febbraio 1936 – che per effetto di violenze e brogli avrebbero portato il Fronte Popolare anarco-socialcomunista al governo, – ammonisce con una missiva interna i suoi parroci del fatto che quella in corso non fosse una normale competizione politica, ma la lotta “tra i sostenitori della religione, della proprietà e della famiglia e i portavoce dell’empietà, del marxismo e dell’amore libero”, e cioè lo scontro “le due città nemiche di cui parla Sant’Agostino: i lati opposti del bene e del male”, impersonati in quello storico momento dal Fronte Nazionale Contro-rivoluzionario e dal Fronte Popolare. Neanche due settimane dopo l’Alzamiento Nacional, con una lettera pastorale, elogia la “rivolta del nostro glorioso Esercito Nazionale per la salvezza della Spagna”. Nel marzo del 1937, scrive un’altra lettera pastorale, in cui si legge che «orde marxiste sono impegnate in tutti i tipi di abusi e crimini, essendo persone e cose sacre l’obiettivo principale della loro ira. […] L’odio satanico di atei rivoluzionari in tutto il mondo ha seminato la desolazione accumulando macerie e rovine». E non si limita alle parole, ma sostiene fattivamente la guerriglia contro-rivoluzionaria nelle zone controllate dai rojos. Allorché Teruel è assediata da quelle orde, resiste a chi gli consiglia di rifugiarsi dove è solido il controllo da parte dei nacionales, affermando che “Finché resta anche solo un’anima della mia diocesi, io resto”. Poi, nel dicembre del 1938, l’ultima offensiva dell’esercito repubblicano sfonda, e gran parte di Teruel viene invasa da regolari e miliziani. Il vescovo non lascia la città, ma si rifugia nel monastero di Santa Clara perché l’episcopio è bombardato. Lì, dopo qualche settimana, viene arrestato, trasferito a Valencia, dove viene “processato” e invitato a ritrattare la lettera collettiva dell’episcopato di Spagna dell’1 luglio 1937, che definiva cruzada l’Alzamiento Nacional e da lui ovviamente sottoscritta. Risponde “Avremmo dovuto scriverla il giorno prima”. E naturalmente – secondo lo stile dei rojos -, dopo essere stato trasferito a Barcellona, nell’imminenza della liberazione della capitale catalana, il 7 febbraio 1939, viene prelevato da miliziani e soldati dell’esercito rosso con altre decine di prigionieri, tra i quali il suo vicario generale, che subiranno la stessa sorte, e condotto fuori città sul canale asciutto d’un fiume, dove viene ucciso con il classico colpo alla nuca comunista, e al suo cadavere, come a quelli degli altri assassinati, viene dato fuoco. Un crimine particolarmente barbaro e odioso, perché ormai la guerra era persa, e perciò non trova spiegazione, giammai giustificazione, nel calore e nelle passioni dell’inizio dell’insorgenza, ovvero nell’intenzione di impaurire il nemico e privarlo delle sue guide spirituali. Un’infame vendetta da parte degli sconfitti, frustrati dal fatto che quella volta la storia non era stata dalla loro parte. L’1 ottobre 1995, il vescovo Polanco – il dodicesimo martirizzato dai rivoluzionari rossi d’ogni risma in Spagna tra il 1936 il 1939 -, insieme con altri 46 testimoni della fede nella mattanza spagnola, è stato beatificato da san Giovanni Paolo II, in quanto ucciso in odium fidei. Ora, io ignoro ovviamente se le reliquie del beato Anselmo Polanco siano state volute da Leone XIV nella sua croce pettorale e se ne conoscesse la storia. Però la loro presenza che l’accompagnerà ogni giorno fa sperare che non gli mancherà, per intercessione di chi la Rivoluzione l’ha capita e l’ha combattuta fino a venirne fatto martire, la grazia per comprenderla, al di là del nome, nella sua essenza, e l’ispirazione a contrastarla nella Chiesa e nel mondo. Salute a voi in J. et M. Giovanni Formicola |