Leonemania? Non è proprio il caso.

Parola di tradizionalista cattivo



Lettera di Logarchico Sanfedista


Pubblicato sul sito di Aldo Maria Valli







Caro Valli,

sono un sacerdote e ho letto, visto e sentito (articoli, podcast, blog, twitter eccetera), espressioni di incontenibile e irrefrenabile tripudio per l’elezione del nuovo Papa, un qualsiasi altro Papa che non fosse Francesco II (meglio dire Sbracato II), che fosse almeno un po’ decente e che, per il fatto stesso d’essere un altro, sancisse l’uscita dall’incubo distopico durato oltre due lustri.

L’esultanza e la voglia di essere tornati (di tornare a poter dire «viva il Papa») ha debordato in entusiastiche, immaginifiche e talvolta, stando ad alcuni commenti, persino puerili e grottesche proiezioni delle proprie aspettative sull’Eletto.

Ogni suo gesto diventa epocale, ogni mossa deve forzosamente indicare un cambio di passo, ogni parola una pietra miliare dopo la quale la Storia non sarà più la stessa. E quando non c’è nulla di eclatante, lo si inventa.

Ora mi permetto di notare che questo modo di trattare i gesti e le parole del Santo Padre è parte fondante di un problema, strutturale e grave, di un certo cattolicesimo alterato che fa della Chiesa il Corpo Mistico non di Cristo, ma del Papa e che, inter alia, ha contribuito a quella sindrome ipodottrinale di immunodeficienza all’eterodossia che ha permesso a Papa Francesco di dire e fare le più eclatanti enormità tra gli applausi imbarazzati di un Collegio episcopale ridotto a claque da parterre nordcoreano.

L’emozione collettiva, tanto intensa da diventare leonemania, impedisce una valutazione più obiettiva su chi sia Papa Prevost, da dove arriva e come continuerà.

Negli ultimi anni tutta una serie di persone si sono viste attribuire il qualificativo infamante di “tradizionalisti” e ci hanno creduto davvero! Hanno creduto sul serio che quell’aggettivo loro affibbiato dai settori più nichilisti, liberali e progressisti della Chiesa li identificasse davvero quali tradizionalisti, semplicemente perché un residuo buon senso li faceva soffrire a fronte delle innumerevoli sbracature del Pontificato franceschiano.

In altre parole, si sono creduti tradizionalisti perché hanno dato credito a chi li accusava, stupidamente e senza ragione, d’essere tali in quanto non in linea con Papa Francesco. In realtà erano semplicemente cattolici a cui il Concilio Vaticano II, Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II andavano benissimo. Da qui numerosi equivoci, come quelli contenuti nella lettera inviata a «Duc in altum » dal signor Amerigo Garaffa, una sorta di manifesto emblematico di questa tipologia di reazioni.

Morto Papa Francesco e arrivato un altro Papa (un qualsiasi altro Papa) che porta una mozzetta, si lascia baciare la mano e “parla di Gesù e di Maria”, ecco il grande sollievo, la grande gioia: è finito l’incubo, ora basta. E dàje ai tradizionalisti cattivi, vermilingue ipercritiche, disfattiste e sempre negative, qualsiasi cosa accada.

A questo punto, a tutti i lettori che negli anni passati si sono creduti tradizionalisti perché così apostrofati da altri, mi permetto di ricordare due o tre cosette.

Quello che viene chiamato tradizionalismo, o la Tradizione (non come fonte della Rivelazione, ma come complesso movimento di resistenza all’abuso di autorità nella Chiesa da parte della Gerarchia contro il Deposito della Fede), è fenomeno nato negli anni Sessanta e si è sviluppato negli anni Settanta e Ottanta sotto le mozzette, i rocchetti, i fanoni e i rosari in latino di Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Mi riferisco a personaggi straordinari, a tratti epici, come il reverendo don Louis Coache, parroco di Montjavoult, che scrisse una «Lettera di un parroco di campagna ai suoi confratelli» già nel Natale del 1964, a Concilio ancora aperto, in cui denunciava con meticolosa preveggenza tutto quello che sarebbe successo in futuro.
Per cui, quando sento certa gente che si attribuisce il primato storico della denuncia, francamente, mi vien da ridere.
Don Coache continuò a scrivere, pubblicare, agire, formare fedeli.
Nel giugno del 1966 scrisse «La nuova religione» poi nel 1969 «Vescovi, restate cattolici» e «Verso l’apostasia generale», titoli che parlano da soli.

Don Louis Coache si trovò rocambolescamente sanzionato già nel 1969, ancor prima dell’arrivo sulle tavole parrocchiali del Novus Ordo Missae. Quello sì un vero primato.

Sua Eccellenza Monsignor Lefebvre non aveva ancora fondato la Fraternità San Pio X e non era ancora salito agli onori della cronaca, e già don Coache aveva cinque anni di medaglie al petto.

E poi, appunto, ecco Monsignor Lefebvre, con la fondazione di Ecône nel 1970 e l’assurda (copione visto mille e mille volte, Francesco non ha inventato nulla) visita canonica del 1974 dei monsignori Onclin e Deschamps.
Del 21 novembre 1974 è la celebre dichiarazione: «Noi aderiamo con tutto il cuore e con tutta l’anima alla Roma cattolica custode della fede cattolica e delle tradizioni necessarie al mantenimento della stessa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità. Noi rifiutiamo, invece, e abbiamo sempre rifiutato di seguire la Roma di tendenza neo-modernista e neo-protestante che si è manifestata chiaramente nel Concilio Vaticano II e dopo il Concilio, in tutte le riforme che ne sono scaturite».

Ricordo le ordinazioni del 1976 e la celebre Messa di Lille nell’agosto dello stesso anno, nonché testi capitali quali «Il Magistero perenne e la condanna degli errori moderni» (libro tratto dai corsi ai seminaristi all’inizio degli anni Ottanta), «Lo hanno detronizzato» del 1987, fino alle consacrazioni episcopali del giugno 1988.

Monsignor Lefebvre scriveva ai futuri vescovi: «Essendo la Cattedra di Pietro e le posizioni di autorità occupate a Roma dagli anticristi, la distruzione del Regno di Nostro Signore continua rapidamente dentro il suo stesso Corpo mistico qui sulla terra […] Data questa Roma modernista e liberale, che continua la sua opera distruttiva del Regno di Nostro Signore, come testimoniato da Assisi e dalla conferma delle tesi liberali del Vaticano II sulla libertà religiosa, mi vedo costretto dalla divina Provvidenza a trasmettere la grazia dell’Episcopato cattolico che ho ricevuto, affinché la Chiesa e il Sacerdozio cattolico possano continuare a sussistere per la gloria di Dio e la salvezza delle anime».

Era, ripeto, il 1988, e a Roma c’era Giovanni Paolo II, con il cardinale Ratzinger alla Dottrina della Fede.

Per non parlare di tutto il resto. Mi riferisco a padre R.-T. Calmel, con le sue opere «Teologia della Storia» e «Apologia della Chiesa di sempre», in cui negli anni Settanta già vedeva come la collegialità diluisce in sinarchìe anonime la responsabilità personale del sacerdote e del vescovo, facendo sì che nessuno sia mai responsabile delle direzioni prese dalla Chiesa e che nessuno possa realmente imporsi e cambiarne il corso con un atto personale senza farsi fagocitare dall’inerzia del sistema (un esempio tra tutti la Genova di Siri, divenuta la Genova di Tasca), che cambia la Comunione nella Chiesa col fare come fanno gli altri al di là del canone del Codice o del paragrafo del Catechismo.
Mi riferisco anche a padre Ralph Wiltgen e al suo libro «Il Reno si getta nel Tevere», a Romano Amerio con «Iota Unum», don Julio Meinvielle con «Dalla Cabala al Progressismo», «Da Lamennais a Maritain», «Teilhard de Chardin o la Religione dell’Evoluzione»
(solo per citarne alcuni).

Penso persino a un insospettabile come padre Louis Bouyer, uno degli esperti al Vaticano II, che nel 1968 scrisse il libro «La decomposizione del Cattolicesimo», altro titoletto che non lascia molto spazio all’immaginazione, o a Monsignor Rudolph Graber, vescovo di Ratisbona, con il suo «Atanasio e la Chiesa del suo tempo», o a Monsignor Klaus Gamber, che nel suo «La riforma liturgica in questione» (libro in calce al quale il cardinale Ratzinger scriveva cose durissime sulla riforma liturgica, definita una devastazione) osservava che «la nuova organizzazione della liturgia, e in particolare le profonde modifiche del rito della Messa introdotte sotto il pontificato di Paolo VI e divenute poi obbligatorie, furono molto più radicali della riforma liturgica di Lutero, almeno per quanto riguarda il rito esterno».
Altro che «non ci abbandonare alla tentazione» nella traduzione italiana del «Padre Nostro».

Con la bibliografia potrei continuare, ma preferisco ricordare alcuni tra i sacerdoti che in quegli anni (sottolineo: già in quegli anni) resistettero alla rivoluzione: Monsignor Attilio Vaudagnotti, don Giuseppe Pace, don Luigi Siccardi, don Siro Cisilino (sanzionato a Venezia dal vescovo Luciani, poi Papa del sorriso), padre Antonio Coccia, don Francesco Putti, Monsignor Renato Pozzi, Monsignor Domenico Celada, padre Pietro Locati del Pime di Milano, don Engelbert Pedevilla e tanti altri, purtroppo pochi in Italia.

Questi sono i tradizionalisti, i veri tradizionbalisti. Che cominciarono a parlare ben prima del 2013 e anche prima del 2007 (anno del «Summorum Pontificum»). Molto prima.

Essi proposero, e lo fanno ancora adesso a chi li legge, tanti e fondati argomenti, che esulano dal sentimentalismo di chi adesso va in brodo di giuggiole per la foto di Prevost alla processione della Madonna del Carmelo, per la mozzetta sulla cotta, per la voglia di “tornare a essere cattolici normali che amano, difendono e pregano per il Papa” (cito sempre il signor Amerigo Garaffa).

I veri tradizionalisti non sono né disfattisti, né “negativi su tutto” (morto Francesco, ora gli insulti se li beccano dagli ex tradizionalisti redenti dalla mozzetta rossa). Sono semplicemente cattolici fedeli che, a mente fredda, sanno che Papa Prevost sottoscrive a pieno tutto quello che già non andava sessant’anni fa.
Del resto, Papa Leone l’ha detto chiaro e tondo nel discorso ai cardinali del 10 maggio scorso: «Vorrei che insieme, oggi, rinnovassimo la nostra piena adesione alla via che ormai da decenni la Chiesa universale sta percorrendo sulla scia del Concilio Vaticano II. Papa Francesco ne ha richiamato e attualizzato magistralmente i contenuti nell’Esortazione apostolica “Evangelii gaudium”».
Più chiaro di così!

Sorpresa? No. Normalità.

A quelli a cui andavano benissimo il Vaticano II, Paolo VI e Giovanni Paolo II andrà benissimo anche Leone XIV che, al meglio, correggerà il tiro di certe misure disciplinari tipo «Fiducia Supplicans» e, al peggio, le lascerà depositare e sedimentare nel bagaglio “pastorale” della Chiesa.

Ogni mio augurio, di cuore, al Santo Padre.

Si eviti però di dare lezioni di come ci si debba comportare ora a chi, almeno moralmente, è già là dal fin dal 1964.

Oggi come ieri e come trent’anni anni fa i «cattivi tradizionalisti», ben coscienti che Sua Santità Leone XIV è sulla linea del Vaticano II e del postconcilio, assumono in pieno le loro responsabilità di cattolici. Studiano, si formano, si organizzano con chiese, cappelle, scuole, famiglie, conferenze, gruppi editoriali, e lasciano il resto al Buon Dio.

Questo non significa né disprezzare Sua Santità Leone XIV né augurargli di fallire. Anzi, i «cattivi tradizionalisti» sono cattolici che davvero amano e difendono il Papa e la Chiesa, senza però necessariamente seguire l’entusiastico ottimismo manifestato ora dagli ex compagni di viaggio dell’epoca bergogliana e senza «tornare a essere cattolici normali», visto che sono normalmente cattolici in una Chiesa in cui la normalità cattolica è cosa sconosciuta alle nostre generazioni.

Morto Francesco, abbiamo oggi l’occasione unica di andare fino in fondo e capire le ragioni della crisi alla radice. Certuni quest’occasione l’hanno già persa, abbagliati dal pur doveroso decoro cerimoniale (minimalista).
Spero che molti altri la possano invece cogliere.




 
maggio 2025
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