I primi tempi di Leone XIV

e

la sindrome del cane randagio





Articolo di The Wanderer



  Pubblicato sul sito di Aldo Maria Valli









E’ sempre saggio giudicare in base a ciò viene fatto piuttosto che a ciò che viene detto, ma il nuovo Papa, finora, ha fatto ben poco. Inoltre, buona parte delle sue decisioni in realtà, come la sostituzione di Paglia alla guida dell’Istituto teologico per la famiglia, sono state la finalizzazione di processi già avviati dal suo predecessore o avvenuti ex officio. La nomina del cardinale Baldassere Reina al posto di Paglia non è altro che un ritorno a quello che è sempre stato: il vicario del Papa per Roma è gran cancelliere dell’Università Lateranense e dell’Istituto.

Molti si sono lamentati per questa nomina, ma sappiamo che Reina è il prototipo del vescovo di nomina bergogliana: obbedienza e ossequiosità come principali meriti del candidato. Se un tempo era bergogliano, ora Reina sarà leoniano e se, per un miracolo della Provvidenza, l’arcivescovo Lefebvre dovesse risorgere ed essere eletto Papa, Reina, come molti dei suoi colleghi, diventerebbe rapidamente un lefebvriano rigido.

Un altro dei fatti più notevoli è che Leone ha nominato una suora come segretaria del Dicastero per i religiosi, il che significa che in quel dicastero sia il «prefetto» sia la segretaria sono donne. La nomina non mi è piaciuta, ma non per misoginia, bensì perché dietro c’è un problema teologico: la necessità del sacramento dell’Ordine per ricoprire certe posizioni.

La questione tuttavia è complessa. La storia della Chiesa mostra che nel Medioevo le donne assumevano ruoli che oggi sembrerebbero un’assurdità tipica dei modernisti.
Ad esempio, c’è il caso dell’Ordine di Fontevrault, Ordine monastico doppio, composto da comunità maschili e femminili, fondato nel 1101 dal predicatore e riformatore Roberto d’Arbrissel, che ebbe un’enorme influenza in tutta Europa e i cui monasteri erano governati da una badessa e non da un abate.
Sempre nel Medioevo, le badesse e le monache di certi monasteri benedettini e certosini in certe occasioni usavano ornamenti clericali ed episcopali per le cerimonie liturgiche: rocchetto, mitra, pastorale, anello, stola (talvolta diaconale, talvolta episcopale) e manipolo. Non solo. Leggevano l’epistola durante la Messa. Come afferma Regine Pernoud, l’emarginazione delle donne in molti aspetti della vita sociale, compresa quella ecclesiastica, fu una conseguenza del Rinascimento che, riprendendo gli ideali greci, le confinò nel gineceo. La pratica della Chiesa per millecinquecento anni fu diversa.

Qualcuno potrebbe giustamente osservare: «Il problema nel caso della suora segretaria non è che sia una donna, ma che non sia ortodossa, dato che ha tenuto corsi sull’enneagramma». La cosa, ovviamente, non mi piace, ma rispondo: santa Ildegarda di Bingen, dottore della Chiesa, praticò e scrisse libri sulla gemmoterapia (De lapidibus), quindi non vedo molta differenza.

Se prendiamo in considerazione ciò che Leone XIV ha detto in questi giorni, molti miei amici e lettori del blog hanno trovato triste, ad esempio, il suo messaggio in occasione del primo mese dalla morte di Francesco, simile a quanto detto nel «Regina Coeli» di Domenica scorsa.
Ora, a parte il fatto che sono sicuro che non sia lui a gestire i suoi social (ma questa non è una scusa), penso che ci siano dei tributi da rendere, e che tali omaggi continueranno ancora per parecchio tempo. Dunque non presterei troppa attenzione a quelle parole. Diamogli il beneficio del dubbio, almeno per i primi cento giorni.

Qualcuno potrebbe obiettare: perché concedere il beneficio del dubbio a Papa Leone se non lo abbiamo concesso a Francesco, che abbiamo iniziato a criticare su questo blog due o tre settimane dopo la sua elezione?
Per un motivo semplice: conoscevamo Bergoglio da molto tempo e gli avevamo già dedicato un buon numero di articoli quando era arcivescovo di Buenos Aires. Il carisma petrino può essere molto potente, ma non abbastanza da cambiare la natura della persona eletta.
Nel caso di Prevost, invece, non lo conosciamo a sufficienza, e pochissimi sono coloro che, conoscendolo, possono fornire una testimonianza attendibile e disinteressata.

Possiamo commentare alcuni paragrafi dell’omelia papale nella Messa di inaugurazione del ministero e quanto detto ai rappresentanti delle diverse religioni. In varia misura, questi discorsi hanno causato una certa delusione a molti dei miei amici e a me stesso, soprattutto perché ci aspettavamo di più, ma non possiamo chiedere pere a un melo.

Credo sia invece opportuno sottolineare gli aspetti positivi di entrambi i testi, che esistono e sono preziosi.
Il problema che vedo è che molti di noi hanno la sindrome del «cane randagio»: per dodici anni siamo stati così maltrattati che ora non ci fidiamo di nessuno e ringhiamo a chiunque si avvicini per darci una pacca sulla spalla. E così potremmo non essere più in grado di riconoscere ciò che è buono e prezioso.

Cominciamo con l’omelia. Ho trovato molto impressionante che l’agenzia di stampa Reuters, che non è propriamente cattolica, abbia intitolato la notizia come segue: «Papa Leone XIV ha iniziato il suo regno rivolgendosi ai conservatori che si sentivano orfani sotto il suo predecessore, invocando l’unità, promettendo di preservare l’eredità della Chiesa cattolica e giurando che non governerà come un autocrate».
Questa è stata esattamente l’impressione che ho avuto quando ho letto l’omelia: per la maggior parte, si tratta di un messaggio ai conservatori e, a mio parere, propone una visione del papato romano più vicina a quella di Benedetto XVI e del primo millennio che a quella dell’ultramontanismo tanto caro ai tradizionalisti irriducibili e ai bergogliani.

Leggiamo questo paragrafo «A Pietro, dunque, è affidato il compito di “amare ancora di più” e di dare la vita per il gregge. Il ministero di Pietro è segnato proprio da questo amore oblativo, perché la Chiesa di Roma presiede nella carità, e la sua vera autorità è la carità di Cristo. Non si tratta mai di intrappolare gli altri con la sottomissione, con la propaganda religiosa, o con i mezzi di potere, ma si tratta sempre e solo di amare come ha fatto Gesù. Egli – afferma lo stesso apostolo Pietro – “è la pietra che voi, costruttori, avete scartato, ed è diventata la pietra d’angolo” (At 4,11). E se la pietra è Cristo, Pietro deve pascere il gregge senza mai cedere alla tentazione di essere un capo solitario o un capo che si erge al di sopra degli altri, facendosi padrone del popolo che gli è stato affidato (cfr 1 Pt 5,3); al contrario, gli è chiesto di servire la fede dei suoi fratelli, camminando fianco a fianco con loro».

Se prestiamo attenzione, vediamo che il Papa sta dicendo: «Non sarò un altro Francesco», perché la caratteristica del pontificato precedente fu quella di un capo posto al di sopra di tutti, che non ascoltava nessuno né si consultava con nessuno – sebbene nominasse una commissione ogni settimana – e si riteneva proprietario della Chiesa. Basti ricordare ciò che è accaduto a tanti cardinali, vescovi e sacerdoti spogliati dei loro seggi e ammucchiati in soffitta tra cianfrusaglie inutili semplicemente perché a Bergoglio non piacevano.

A mio parere, comunque, Leone qui va molto oltre, perché afferma che il Papa di Roma presiede le Chiese «nella carità», quindi non è un despota. Vale a dire che egli è il garante dell’unità, ma non è il proprietario della Chiesa o delle chiese locali.

Da anni su questo blog ci dedichiamo a discutere della necessità di una riformulazione del papato perché, a mio avviso, ha conosciuto un processo di ipertrofia a partire dal pontificato di Pio IX fino a raggiungere il culmine con Bergoglio.
Dopo il Concilio Vaticano I, i papi crearono il laboratorio del dottor Frankenstein. Mancava solo che il mostro venisse alla luce, e ciò accadde puntualmente il 13 marzo 2013.

Questa riformulazione del papato romano, che ha più a che fare con la dottrina e la prassi del primo millennio che con le deformazioni avvenute nel secondo, quando il contrappeso fornito dalla Chiesa d’Oriente era già andato perduto, è anche in relazione con quanto detto lunedì da Leone XIV ai rappresentanti delle varie religioni accorsi per il suo insediamento. Ha affermato: «Mentre camminiamo verso il ripristino della piena comunione tra tutti i cristiani, riconosciamo che questa unità deve essere unità nella fede. Come Vescovo di Roma, considero uno dei miei doveri primari quello di ricercare il ripristino della piena e visibile comunione tra tutti coloro che professano la stessa fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo».

Ecco un punto che potrebbe passare inosservato e che Francesco non avrebbe mai sottolineato: l’unità deve essere trovata nella fede. Affinché le chiese cristiane possano unirsi, devono professare la stessa fede.
Teniamolo ben presente: ciò che sembra ovvio alla maggior parte di noi non lo è altrettanto per gli ecumenisti degli ultimi decenni, per i quali l’unità si fonda su una sorta di fratellanza diffusa e indefinita. Ciò non implica, naturalmente, che non si possa parlare di fraternità universale (in italiano c’è differenza tra fraternità e fratellanza), anche se non mi piace, ma Papa Leone non suggerisce da nessuna parte che questa fraternità implichi un’unità religiosa, cosa che invece è accaduta con Francesco.

D’altro canto, trovo incoraggiante che il Papa sia pienamente consapevole del suo dovere di Vescovo di Roma: garantire che Roma sia il luogo della comunione per tutti coloro che professano la fede trinitaria. Chi sono? Per essere onesti, solo gli ortodossi e le altre chiese orientali. I protestanti possono ancora affermare verbalmente di credere nel Dio uno e trino, ma tutti sanno che nella pratica hanno smesso di farlo molto tempo fa.
Che il Papa si preoccupi e si adoperi affinché le due Chiese con successione apostolica, quella occidentale e quella orientale, raggiungano l’unità perduta quasi mille anni fa mi sembra una notizia grande e piena di speranza, soprattutto sapendo che, come lui stesso dice, questa unità nella fede avverrà attraverso il riconoscimento del Vescovo di Roma come colui che presiede nella carità – non colui che ne è padrone – tutte le Chiese.

Insomma, non abbiamo fretta, non chiediamo la luna. Siamo pazienti.




maggio 2025
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