Papa Leone e l’umiltà. Un motivo di speranza


Articolo di Dan Hitchens









Il filosofo Michael Oakeshott, il principale pensatore conservatore della sua generazione, guardava alla politica con disprezzo. Votava i conservatori, diceva, “perché fanno meno danni”. I cardinali della Chiesa cattolica sembrano aver appena agito in modo simile nell’ultimo conclave.

Esaminare la cronologia Twitter del Santo Padre suggerisce l’idea di un uomo di Chiesa che è arrivato all’età di sessantanove anni senza sentire il bisogno di schierarsi nelle guerre culturali cattoliche. Sì, è schietto sui diritti dei migranti, ma è anche seriamente allarmato dalla questione trans. Sì, ritwitta le pubblicazioni cattoliche più progressiste, ma condivide anche scritti del cardinale George e dell’arcivescovo Chaput, entrambi saldamente ortodossi.
Sì, ammira Papa Francesco e apprezza l’idea della “sinodalità”, ma (a differenza di alcuni) non sembra considerare né l’uno né l’altra come una sorta di aggiornamento ispirato del Vangelo che metta in discussione ciò che la Chiesa ha insegnato negli ultimi duemila anni.

Per essere chiari, questo non è un invito alla consolazione. La Chiesa si trova in un momento incredibilmente pericoloso, nel tentativo di riprendersi da un pontificato che ha attivamente fomentato gravi errori dottrinali. Se Leone XIV continuerà su questa linea, per quanto cautamente e diplomaticamente, significherà l’aggravarsi di una delle crisi più gravi nella storia della Chiesa. Ma tutto questo lo sapete già. Quindi ecco un motivo per essere ottimisti.

Nelle interviste, l’allora Robert Prevost sembra gravitare naturalmente verso un tema: che non si parli di lui.
Intervistato in qualità di Priore generale degli Agostiniani, afferma che i membri dell’Ordine sono “chiamati a vivere una vita semplice al servizio degli altri”.
Quanto alla sua spiritualità, Prevost  afferma che si ispira alle Confessioni  di Sant’Agostino, e ancora una volta la definisce in termini di abnegazione. In un’epoca “altamente individualista”, osserva Prevost, le persone cercano la felicità nei posti sbagliati. “La felicità autentica deve includere gli altri. E la preoccupazione per gli altri”.

Come prefetto del Dicastero per i vescovi, Prevost riassume il ruolo del vescovo come “chiamato a essere umile e a soffrire con il suo popolo”.
Da cardinale, rivolgendosi ai parrocchiani di una chiesa di Chicago, divaga brevemente prima di dire loro: “Sono profondamente convinto che se apriamo la nostra vita e il nostro cuore al servizio degli altri, riceviamo davvero – come dice il Vangelo – il centuplo in questa vita. È stato certamente così anche per me”.

Non si tratta di un contenuto particolarmente originale, lo so, ma il tema ripetuto è significativo; e non sembra che lo stia dicendo così, per puro caso.

Per dodici anni, i cattolici hanno sopportato un pontificato in cui una singola persona si era posta al centro degli eventi, tanto che persino la legge di Cristo sembrava meno rilevante di quella che i commentatori febbrili definivano “l’agenda di Papa Francesco”.
Era un’epoca in cui un importante alleato episcopale del Papa arrivava a sostenere che “chiunque desideri scoprire qual è la vera volontà di Cristo, il vero cuore di Gesù… deve chiedere al Papa. A questo Papa, non a quello che lo ha preceduto, o a quello che lo ha preceduto ancora”.

Un collaboratore vaticano, nel frattempo, affermava che Papa Francesco “rompe le tradizioni cattoliche ogni volta che vuole perché è libero da attaccamenti disordinati. La nostra Chiesa è effettivamente entrata in una nuova fase: con l’avvento di questo primo Papa gesuita, è apertamente governata da un individuo piuttosto che dai dettami della tradizione e della Scrittura”.
Certo, sono esempi estremi, ma la tendenza era quella. E il modo in cui Francesco si è comportato ha certamente incoraggiato tali affermazioni, arrivando al limite di negare l’insegnamento della Chiesa e poi trattando preoccupazioni ragionevoli come insulti imperdonabili.

Come ha brillantemente osservato Amy Welborn, la parola “umiltà” è stata abusata ultimamente. Nel contesto della leadership della Chiesa, l’umiltà riguarda soprattutto ciò che non si fa. “Non imporre sé stessi, la propria identità e le proprie cause personali come superiori, ma permettere a sé stessi, ai propri talenti, ai doni e alle proprie preoccupazioni di essere assorbiti in questo Corpo di Cristo e di essere usati da Dio in qualsiasi modo Egli ritenga opportuno. Significa permettere di essere plasmati e rimodellati”.

Forse anche Prevost lo sa. Il nuovo Papa ha detto che “prima di tutto” la missione papale è “farsi da parte affinché Cristo rimanga, farsi piccoli affinché Egli sia conosciuto e glorificato, spendersi al massimo affinché tutti abbiano l’opportunità di conoscerlo e amarlo”.

Se lo farà davvero –  sto parlando dello scenario migliore – sarà un grande Papa.

Prego che Papa Leone ci insegni il significato dell’umiltà; che ci faccia comprendere il significato delle parole di san Paolo: “Per questo mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: perché quando sono debole, allora sono forte”.





 
giugno 2025
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