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Le conferenze episcopali: eclissi dell’autorità apostolica nella Chiesa postmoderna di Daniele Trabucco L'Autore è
professore strutturato in Diritto costituzionale e Diritto pubblico
comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario San Domenico
di Roma.
Dottore di ricerca in Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli Studi di Padova Articolo pubblicato sul sito di Aldo Maria Valli ![]() Seduta della Conferenza Episcopale Italiana Nel disegno divino rivelato in Cristo, la Chiesa è società soprannaturale fondata su principi non negoziabili di ordine e di gerarchia, derivanti immediatamente dalla volontà del suo Fondatore. La sua struttura essenziale si fonda su un triplice ordine: Cristo Capo, il Romano Pontefice come suo Vicario visibile e i Vescovi, successori degli Apostoli, costituiti Pastori delle Chiese particolari “in solidum cum Petro et sub Petro”. Ogni introduzione di strutture intermedie che si pongano tra l’ufficio episcopale e la suprema autorità del Pontefice Romano, o che si sostituiscano all’esercizio personale e diretto del “munus” episcopale, appare, ad un’attenta riflessione canonica e filosofica, come un’alterazione dell’ordine voluto da Dio e trasmesso apostolicamente. Le Conferenze Episcopali, così come si sono sviluppate soprattutto nel secondo dopoguerra e ancor più nel post-Concilio, rappresentano precisamente questo: un’articolazione organizzativa e amministrativa che, pur priva di fondamento teologico-dogmatico e priva di giurisdizione propria (cfr. Canone 455 “Codex iuris canonici” del 1983), è andata acquisendo progressivamente un rilievo indebito, fino a giungere a ridimensionare la responsabilità personale del Vescovo nella propria Diocesi. Il principio, in sé ammissibile, di una cooperazione tra vescovi per determinati fini pastorali, ha ceduto il passo a una concezione para-sinodale e quasi “parlamentare” dell’episcopato, in cui la deliberazione comune viene recepita come se fosse dotata di magistero, quando invece ne è priva, salvo l’unanimità o l’approvazione “ex audientia pontificia” (cfr. La Lettera apostolica in forma di Motu Proprio “Apostolos suos” del 1998 di san Giovanni Paolo II). La filosofia giuridica della Chiesa insegna che l’autorità deriva dalla natura e dal fine: “actus sequitur esse”. Ora, l’essere del Vescovo è quello di successore degli Apostoli, investito di un “munus” derivante non dal corpo episcopale nel suo insieme, né da una conferenza nazionale, bensì dal conferimento sacramentale unito al mandato canonico. Qualsiasi realtà che tenda a livellare tale identità singolare e immediata, in favore di una “collettività decisionale”, contraddice l’ontologia del potere sacro e introduce un criterio di operatività che risponde più alla logica delle strutture democratico-funzionali che a quella della “potestas sacra”. Ciò che nella Chiesa ha valore è ciò che scaturisce dalla grazia e dall’Ordine: non il consenso orizzontale, ma l’obbedienza verticale alla Tradizione, alla Sede Apostolica, alla Verità rivelata. La Conferenza Episcopale, nella sua configurazione attuale, introduce una frattura fra la natura dell’episcopato e la sua espressione concreta. Il Vescovo, da principio di unità della Chiesa particolare, si vede ridotto a rappresentante di una linea pastorale comune, spesso decisa da commissioni, uffici e portavoce che non hanno alcuna giurisdizione, eppure esercitano de facto un’influenza normativa. In tal modo, il principio personalistico e gerarchico, che costituisce il cuore della visione ecclesiologica cattolica, viene sussunto da un principio collegiale assembleare, ispirato più al contrattualismo moderno che alla concezione sacramentale del potere nella Chiesa. Ne deriva un oscuramento della responsabilità personale del Vescovo e una confusione tra funzione e natura, tra azione collettiva e autorità legittima. In particolare, la Conferenza Episcopale Italiana (CEI), per la sua posizione storica, mediatica e politica, rappresenta emblematicamente questa degenerazione. Essa si presenta come soggetto istituzionale che, intervenendo su questioni morali, sociali e culturali, spesso adotta un linguaggio ambiguo, più preoccupato della ricezione sociale che della Verità dottrinale. La teologia morale cattolica, fondata su princìpi assoluti di legge naturale e divina, è frequentemente declinata in termini sociologici e pragmatici, con una progressiva eclissi dell’oggettività del bene e del male in favore di criteri di “discernimento” che relativizzano la norma per adattarla alle contingenze. La CEI non parla “ex auctoritate”, ma in nome di un consenso interno, spesso mediato da spinte ideologiche estranee al sentire cattolico. La sua azione rischia, così, di configurarsi non solo come inutile, ma come dannosa, poiché contribuisce a dissolvere il principio di autorità, a confondere i fedeli, e a indebolire la voce profetica della Chiesa in mezzo al mondo. Sul piano filosofico, l’esistenza e l’attività delle Conferenze Episcopali tradisce una visione della Chiesa influenzata da categorie storiciste e funzionaliste. In luogo dell’essere, si privilegia il fare; in luogo della verità, il processo; in luogo della legge naturale, la prassi pastorale. Questa deriva è figlia diretta del pensiero moderno, che ha sostituito il concetto di Verità con quello di consenso e l’ordine oggettivo con la volontà del corpo sociale. La Chiesa, assimilata così a una democrazia partecipativa, viene privata del suo statuto ontologico di società perfetta e di istituzione sacramentale voluta da Dio. Le Conferenze Episcopali, in quanto strumenti di questo approccio, appaiono strutturalmente disfunzionali rispetto alla natura della Chiesa. È dunque necessario, da un punto di vista canonico e metafisico, riscoprire la differenza radicale tra “unitas” e “uniformitas”. La Chiesa è una, perché è un solo Corpo con un solo Capo, ma non è uniforme. Ogni Vescovo è principio di cattolicità nella propria Chiesa particolare; egli non agisce in forza di una conferenza, quanto in forza della sua ordinazione e della sua unione con Pietro. Qualunque meccanismo che produca uniformità decisionale, scavalcando la responsabilità episcopale personale, mina alle fondamenta l’equilibrio costituzionale della Chiesa voluta da Cristo. Per queste ragioni, ed è ora di dirlo con chiarezza, le Conferenze Episcopali non solo si rivelano superflue, ma si pongono in tensione con la struttura voluta da Cristo. Non rafforzano l’unità, semmai la compromettono. Non facilitano la missione, la ostacolano. Non esprimono l’ordine divino, ma introducono criteri estranei e profani. L’autentica riforma ecclesiale non può che passare per una riscoperta della forma ecclesiae fondata sull’ordine sacramentale, sul primato petrino e sull’autorità del Vescovo. Solo così la Chiesa potrà tornare a essere ciò che è: l’arca della Verità, il sacramento universale di salvezza, la gerarchia ordinata del Regno di Dio. |