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Ma siamo proprio sicuri che Israele sia una democrazia? di Daniele Trabucco Pubblicato sul sito di Aldo Maria Valli Daniele Trabucco professore stabile in Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario San Domenico di Roma. Dottore di ricerca in Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli Studi di Padova ![]() La Knesset, il Parlamento dello Stato di Israele La narrazione che ne esalta la dimensione liberale, pluralista e costituzionale si frantuma di fronte a una struttura statuale fondata non sull’universalità della persona umana, ma su una concezione esclusiva e gerarchica della cittadinanza, in cui l’appartenenza etnico-religiosa prevale sulla comune dignità razionale dell’essere umano. Nel cuore del problema sta l’assenza di una Costituzione formale che disciplini in modo ordinato e superiore i rapporti tra governanti e governati. Israele si regge su Leggi fondamentali disorganiche, modificabili dalla maggioranza parlamentare con relativa semplicità, senza alcuna procedura aggravata o garanzia metapolitica. In tal modo, non esiste alcun baluardo effettivo contro l’arbitrio legislativo (e ammesso che la Costituzione sia limite al potere, aspetto che, sul piano filosofico, è ampiamente contestabile): i diritti fondamentali sono, nella sostanza, concessi e non riconosciuti, disponibili alla revisione secondo la mutevole volontà della maggioranza politica. Questa architettura normativa è l’opposto della “lex naturalis“, la quale, per definizione, non è soggetta a deliberazione politica, ma vincola positivamente ogni legislatore in quanto espressione razionale dell’ordine morale inscritto nella natura umana. Una società che fonda la sua legalità sulla contingenza e sulla prevalenza numerica, senza alcun richiamo a principi inviolabili e pre-politici, abdica alla funzione propriamente giuridica della legge come misura della giustizia. La contraddizione emerge con forza nella Legge Fondamentale del 2018 sullo Stato-Nazione del popolo ebraico. Con essa, Israele si autodefinisce non come Stato di tutti i cittadini, bensì come Stato nazionale esclusivo del popolo ebraico. In tal modo, l’eguaglianza tra gli uomini viene radicalmente negata nel cuore stesso dell’ordinamento giuridico: l’eguaglianza formale viene annullata dall’esclusivismo etnico e quella sostanziale è sacrificata sull’altare di una identità particolare elevata a criterio normativo. La persona umana non vale “quia homo est“, ma in funzione della sua appartenenza al “demos” ebraico: una violazione strutturale del principio di giustizia secondo natura, per il quale nessun regime può dichiararsi legittimo se nega l’universalità della dignità umana e dei diritti ad essa inerenti. Questo principio trova ulteriore negazione nel regime dei diritti politici e civili. I cittadini arabi israeliani, pur formalmente titolari di diritti di voto, subiscono una sistematica emarginazione politica, linguistica, culturale ed economica. La lingua araba è stata declassata, le istituzioni educative e religiose arabe sono soggette a controlli e discriminazioni e interi villaggi palestinesi in territorio israeliano non sono ufficialmente riconosciuti, privi di accesso ai servizi pubblici di base (per non parlare della tragica situazione a Gaza). L’ordinamento giuridico, lungi dal proteggere i più deboli, istituzionalizza una condizione di inferiorità strutturale: ciò che in una democrazia sarebbe inaccettabile come esito patologico, in Israele è principio ordinatore. È evidente, a questo punto, che la legittimità dell’ordinamento non può derivare dalla sola conformità procedurale, ma necessita di un fondamento sostanziale: ciò che manca è precisamente l’adesione alla giustizia naturale, che sola rende possibile il diritto in senso proprio, come “ars boni et aequi“. Il caso dei territori palestinesi occupati rende ancora più chiaro il cortocircuito tra diritto positivo israeliano e diritto naturale. L’estensione sistematica di colonie ebraiche nei territori della Cisgiordania, in violazione del diritto internazionale consuetudinario e delle risoluzioni Onu, costituisce non solo un atto di forza politica, ma anche una negazione del principio di proprietà, libertà e autodeterminazione dei popoli. Milioni di palestinesi vivono sotto un regime di occupazione che nega loro ogni diritto politico, li sottopone a giurisdizione militare, limita i movimenti, li priva di accesso regolare alle risorse idriche, educative, sanitarie. Il diritto, in tale contesto, cessa di essere garanzia del giusto e si trasforma in strumento di dominio. Una situazione di questo tipo non può essere considerata “democratica” in alcun senso, poiché rompe il nesso inscindibile tra giuridicità e giustizia. Come insegna san Tommaso d’Aquino (1225-1274), una legge che contrasta con la ragione e la natura è una “corruptio legis”, ossia una legge solo apparentemente tale, priva di vincolo morale e razionale. Anche l’istituto del “diritto al ritorno”, concesso agli Ebrei di ogni parte del mondo ma negato ai palestinesi esiliati nel 1948 e nel 1967, manifesta un doppio standard inaccettabile alla luce del principio di eguaglianza naturale. Mentre a un ebreo statunitense che non ha mai messo piede in Palestina è riconosciuto il diritto a vivere e ottenere la cittadinanza, a un palestinese nato a Gerusalemme ma costretto alla fuga è negato ogni ritorno, ogni diritto patrimoniale, ogni possibilità di rivendicazione legale. Si tratta di un uso del diritto come strumento di esclusione, che non conosce giustificazione etica né appello al bene comune. La selettività etnica dei diritti produce una frattura insanabile tra l’ordine legale e l’ordine morale, riducendo il diritto a pura tecnica di ingegneria sociale. La pretesa, allora, di essere “l’unica democrazia del Medio Oriente” è, pertanto, una formula propagandistica che serve più a legittimare l’eccezione permanente che a rappresentare una realtà effettiva. Israele si configura piuttosto come un regime a sovranità selettiva, che riconosce i diritti solo a una parte della popolazione, mentre nega sistematicamente i fondamenti della giustizia all’altra. Il carattere parlamentare del sistema, l’alternanza politica e la stampa libera non sono sufficienti a determinare una vera democrazia se le premesse fondamentali dell’ordine giuridico sono viziate da un’identità esclusiva e da una concezione volontaristica della legge. Come insegnava Aristotele, il governo non si qualifica come giusto perché opera secondo le leggi, ma perché governa secondo leggi giuste e non vi è giustizia dove non vi è uguaglianza secondo natura. La difesa acritica dello Stato israeliano, da parte di alcune componenti della destra occidentale, rivela una grave smemoratezza della propria tradizione politica. Il conservatorismo autentico non può rinunciare al diritto naturale, alla centralità della persona, al primato del giusto sull’utile. Appoggiare un modello di Stato etnocratico, che costruisce l’identità politica sulla negazione dell’alterità e sulla subordinazione della minoranza, significa smarrire la distinzione tra ordine e dominio, tra legittimità e forza. Significa, in definitiva, abdicare a quella concezione classica della politica come servizio al bene comune, che trova nella giustizia e nella legge naturale il suo criterio ultimo di verità. Israele, in quanto costruzione giuridico-politica che contraddice strutturalmente i fondamenti razionali del diritto, non può essere considerato un modello di democrazia, ma piuttosto un caso paradigmatico della crisi moderna del diritto separato dalla giustizia. |