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Denatalità, la morte in differita ![]() La nave di Teseo “L’Occidente non uccide e stermina per odio, né per convinzione, né per dare l’esempio, neppure per schietto senso di superiorità. No, l’Occidente uccide perché fatica sempre di più a percepire come rilevante la distinzione di valore tra la vita e la morte. Perché è, in profondità, una cultura di morte nel senso fondamentale in cui non riconosce una divergenza di valore essenziale tra la vivacità di un conto in banca e quella di un bambino, tra quella di un algoritmo e quella di un cucciolo”. Deserto significa aridità, assenza di riparo. Rappresenta l’impossibilità di mettere radici, organizzare una società, non diciamo una comunità, che non sia solo una carovana in transito. Riflettevamo su questo percorrendo il bellissimo entroterra ligure, una vasta area di boschi, monti e colline, campanili e paesi, ognuno con una peculiarità, una variante dialettale, una storia da raccontare. A chi? La boscaglia avanza e gli esseri umani sono sempre più rari. Rari nantes in gurgite vasto, rari nuotatori nel vasto mare, rappresentato dalla natura inselvatichita che scaccia l’ abitatore umano. Anziché lavorare per rianimare, restituire vita, assicurare futuro alle aree interne, il governo, con una legge specifica, sostanzialmente le condanna all’irrilevanza e alla morte. Prima lenta, ormai accelerata. Non si può vivere in paesi privati di servizi, di commerci, abbandonati dagli uomini. Restano, in attesa della fine biologica, gli anziani, per testardaggine e perché non saprebbero dove andare. Sono la generazione che ha iniziato a fare pochi figli. Chi li ha, spesso sconta l’abbandono o la lontananza. La chiusura dell’ultimo negozio, della posta, presidi di prossimità, la chiesa sbarrata, decretano la morte di mille paesi, da nord a sud. La denatalità si vede dappertutto, nell’età dei superstiti, nella trascuratezza di abitazioni e strade, nelle scuole chiuse, nella mancanza delle voci gioiose dei bambini e della confusione chiassosa degli adolescenti. E’ la morte in differita che si è impadronita di ampie zone d’Italia e tracima nelle città, in cui si vedono soprattutto stranieri, persone con cani al guinzaglio e pochissimi bambini. I giardini sono il parco giochi dei beniamini a quattro zampe, mentre i cuccioli di uomo sono pochi e spesso mal sopportati. E’ questo il deserto morale – una terra desolata, disabitata come il nostro cuore indurito – di cui parla Zhok. La risposta? Avanza l’assurdo “diritto alla morte”, sostenuto da un apparato mediatico e culturale fortissimo, in una società spappolata insieme suicida e assassina. Tra aborto, sessualità compulsiva ma sterile, eutanasia, soggettivismo estremo, disinteressato a tutto ciò che eccede l’Io ipertrofico e minimo, ci avviamo a rapidi passi verso l’estinzione biologica. Siamo una civiltà di morte che non ama più la vita, non si stringe più al prossimo, e che, a differenza dei contadini di ieri, non pianta alberi per un’altra generazione. Denatalità per egoismo, calcolo miope, sfiducia nel futuro, assenza di amore. Il risultato è, inevitabilmente, la fine dell’Italia, o meglio degli Italiani. Ma non ce ne importa nulla. Avere dei posteri, chi se ne frega, Io voglio tutto e subito, qui e adesso, e non ho nessun desiderio di condividerlo o tramandarlo. Anche le culture e gli orientamenti politici che dovrebbero avere a cuore la continuità della nostra gente, lingua, cultura, modo di vivere, remano contro. Spicca l’assenza di dibattito sul tema dei temi, poiché se mancano le nascite muore un popolo, la sua civiltà, e, concretamente, la sua economia. Nessuna vera politica natalista – economica ma innanzitutto valoriale – condanna a morte delle aree interne, nessuna obiezione alle leggi anti vita, intoccabili per timore di non essere al passo con lo spirito dei tempi (che è semplicemente la volontà delle classi dominanti!) decreti per favorire l’immigrazione. Del resto, è inevitabile. Stati e governi non contano nulla dinanzi a poteri non eletti. Pensiamo alla sentenza europea che conferisce ai giudici il potere di stabilire, in tema di contrasto all’immigrazione clandestina, quali sono i porti sicuri: un grumo di onnipotenti non eletti, nominati, neppure vincitori di concorso, impedisce ai governi eletti dal popolo di decidere su una questione capitale. La denatalità non può (non deve!) essere contrastata poiché il progetto è la sostituzione etnica. L’opinione dei popoli vittime non conta, e intanto la maggioranza – anche di chi è contrario – si avvita nell’incultura della morte, applaudendo aborto, LGBT, suicidio di Stato. Realisticamente, non si può fare a meno di riempire i vuoti se si vuole mantenere consumo, sviluppo, economia, servizi. Il collasso della popolazione interessa solo i demografi e pochi nostalgici dell’Italia di ieri, con tutti i suoi difetti fatta di Italiani. Per tutti gli altri è indifferente. Invece è un tema molto concreto in termini civili ed economici, l’unico argomento che smuove la civilizzazione esausta dei morti che camminano. Un paese di vecchi non è solo un luogo triste, malaticcio e decadente, è innanzitutto un paese poco produttivo. Meno giovani significa meno forza lavoro, meno attività, minori consumi, minore innovazione (le mitizzate start up non le aprono i pensionati), scarse entrate statali, pochi investimenti. Il declino demografico non è un fenomeno locale o temporaneo. Affligge tutte le società sedicenti avanzate, l’Europa, gli Stati Uniti, il Giappone, la Corea del Sud, persino la Cina. Solo l’Africa, l’India e pochi altri paesi sfuggono alla tendenza. L’Italia batte a ogni rilevazione il primato negativo dell’anno precedente. 1,2 figli per donna, un tasso di fertilità che è poco più della metà del livello di sostituzione della popolazione (2,1 per ogni donna in età fertile). Se continuiamo così, perderemo quindici milioni di abitanti entro la fine del secolo. Che ce ne importa, diranno i più, saremo morti. Ma è un evento epocale, senza guerre, carestie e pestilenze. Corriamo volontariamente verso l’estinzione. Senza figli, senza successori, senza futuro. Le società che non si riproducono, scompaiono. Ma non ce ne frega un bel nulla. Se l’estinzione ci sembra astratta o lontana, osserviamo le conseguenze economiche del declino demografico in atto. Cominciamo dalla struttura economica, che vedrà il crollo dei consumi e delle attività. Non è solo carenza di forza lavoro. È anche una questione di neuroni: meno cervelli pensanti, meno idee, meno innovazione e crescita a lungo termine. Una società con pochi giovani non solo invecchia, diventa più statica, meno creativa, senza ambizioni. Saremo più poveri in ogni senso. Poi crolla lo Stato sociale, basato su un presupposto elementare sino a ieri: una maggioranza in età lavorativa paga tasse e previdenza per sostenere anziani e inabili. Se la base si restringe e la piramide delle età si rovescia, va tutto all’aria. Le pensioni diventano insostenibili, l’assistenza sanitaria più costosa perché ci sono più malati; i servizi sociali devono coprire una popolazione sempre più dipendente. E così via. Ci pensi la maggioranza favorevole alla cultura di morte. L’eutanasia colpirà soprattutto poveri, malati, solitari. Meno contribuenti, più spese, il modello scivola verso l’abisso. Il calo delle nascite implica profondi cambiamenti nella struttura familiare e nei rapporti intergenerazionali. Meno fratelli, meno cugini; meno bambini nei parchi, più solitudine nelle case. Una società che invecchia è vulnerabile, rassegnata. Senza figli, il futuro non è più presente nella nostra vita, scompare l’energia vitale che rinnova. I legami naturali stanno sparendo. Le famiglie si riducono a unità sempre più piccole e fragili, isolate, senza una rete di sicurezza. Quando scompare la famiglia formata da più generazioni, muore una parte essenziale dell’apprendimento emotivo, del sostegno reciproco, della trasmissione di valori comuni. C’è poi un altro effetto: la concentrazione della popolazione nelle città. Una popolazione in calo non può permettersi di vivere dispersa. Fornire servizi pubblici nei piccoli centri diventa insostenibile. Questo significa svuotare le aree interne e le regioni meno vivaci economicamente. Il destino del Sud e del Nord montano sarà la desertificazione umana. La mappa del paese cambierà, ed anche la mappa elettorale, poiché la rappresentanza politica sarà monopolizzata da poche grandi aree urbane. Su tutto incombe il dilemma essenziale: se mancano milioni di connazionali, non restano che due strade: accettare il declino e le drammatiche conseguenze economiche del tracollo demografico (di quelle storiche, civili, esistenziali non parliamo per sordità degli ascoltatori) o accettiamo, anzi intensifichiamo la sostituzione con l’immigrazione. E’ ciò che accade con moto accelerato. Ma l’immigrazione non è una soluzione magica al collasso demografico. Innanzitutto perché sono pochi gli immigrati qualificati. Non basta che arrivino: devono integrarsi, imparare la lingua, condividere regole basiche di convivenza, adottare idee, comportamenti, valori nuovi. Tutto ciò non avviene spontaneamente. E se a breve quasi un terzo della popolazione sarà composto da nuovi arrivati, si tratterà dello stesso paese? E’ il paradosso della nave di Teseo, l’eroe mitologico la cui imbarcazione, nei viaggi alla ricerca del Vello d’Oro, era stata interamente riparata e tutti i pezzi sostituiti: era ancora la nave di Teseo? È una questione di identità: la cultura, la storia, il modo di vivere e di comprendersi reciprocamente sono il collante che tiene unita una società. Rompere questo delicato equilibrio ha conseguenze. Forse c’è ancora spazio per agire. Serve una politica demografica forte di lungo periodo; soprattutto, deve cambiare la narrazione: recuperare il valore della famiglia, dell’impegno, del futuro. Gli assegni per le nascite e le agevolazioni fiscali non bastano. Vanno create condizioni concrete affinché le famiglie possano e vogliano avere figli: alloggi a prezzi accessibili, equilibrio tra lavoro e vita privata, una cultura favorevole alla maternità e alla paternità, un’economia dinamica che renda tutto ciò sostenibile. Un libro dei sogni, probabilmente. Chi vuole suicidarsi, prima o poi ci riesce. Ma non è tutto finito finché non è tutto finito. |