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Quando il dolore accusa Dio: la risposta che salva l’uomo dal nulla ![]() Giobbe Giobbe è l’uomo che ha osato. Non l’uomo che ha bestemmiato, ma quello che ha parlato con cuore sincero e mente lucida, che ha attraversato l’oscurità senza perdere del tutto la coscienza di sé e che, proprio in quella radicale solitudine, ha posto la domanda più tremenda: dov’è Dio quando l’innocente soffre? Nel libro biblico dell’Antico Testamento che porta il suo nome, l’uomo giusto, privato di ogni bene, afflitto nel corpo, deriso dagli amici, accusato ingiustamente, non tace. Non si rifugia nel silenzio dell’agnello sacrificale, ma si leva a giudicare Dio, a chiedere ragione del dolore. E in un vertice quasi inaudito nella Sacra Scrittura, Giobbe grida di voler deporre un atto d’accusa contro l’Onnipotente stesso, di volerlo portare in giudizio e, addirittura, di portarne il documento “come una corona sul capo”, come se fosse lui, Giobbe, il vero re della giustizia, il difensore dell’ordine morale, il testimone dell’innocenza violata. Qui si apre il dramma. Non solo quello del dolore, ma quello dell’intelligenza. Se Dio è giusto e onnipotente, come può accadere l’ingiustizia ai danni del giusto? Se Dio non punisce il malvagio e non protegge il fedele, chi governa il mondo? Una risposta solo religiosa non basta. È qui che la filosofia è chiamata a rispondere con tutta la forza della ragione, e la teologia a non rifugiarsi in un fideismo cieco o in una giustificazione moralistica del male. La sofferenza di Giobbe è uno scandalo, ma è anche la chiave della più alta rivelazione. Non è l’iniquità che scandalizza Giobbe, ma il silenzio di Dio, l’apparente assenza del Logos nel caos dell’esperienza umana. E, tuttavia, proprio quando l’uomo si prepara a inchiodare Dio al banco degli imputati, è Dio stesso a rispondere, non scusandosi, non giustificandosi, ma mostrando all’uomo il mistero dell’essere. Non è un Dio che spiega, ma un Dio che rivela. Con voce potente, da un turbine, Egli interroga Giobbe: «Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?». È una domanda che non è una fuga, ma un invito. Dio non abbassa la Sua maestà per rispondere ai criteri umani, ma eleva l’uomo al mistero della realtà. Giobbe ha chiesto giustizia, Dio gli mostra la sapienza della creazione. Ha chiesto un tribunale, riceve un cosmo. Questa risposta può apparire deludente a chi cerca la logica del dolore, ma diventa illuminante per chi cerca il senso dell’essere. Dio non dice: “soffri perché hai peccato”, né dice “soffri per un disegno imperscrutabile”. Dice piuttosto: “Non sei solo nel tuo dolore, sei parte di un ordine infinitamente più grande di quanto tu possa comprendere”. Non c’è disprezzo per l’uomo in queste parole, ma un rispetto altissimo per la sua intelligenza: Dio non gli dà il sollievo della menzogna, ma il peso della verità. Filosoficamente, la risposta di Dio è un appello all’umiltà metafisica. L’uomo non è il principio del reale, né il metro del bene e del male. Il dolore innocente non è un errore da correggere, bensì una partecipazione drammatica alla fragilità dell’essere creato, alla finitezza come condizione della libertà. Dio mostra a Giobbe non la causa del male, ma la gratuità dell’essere: tutto ciò che è, esiste in virtù di una sapienza che lo precede, lo sorregge, lo ordina. Non c’è nichilismo nella risposta di Dio: c’è un invito alla fede razionale, alla fiducia che la totalità dell’essere non è caotica ma ordinata, non è cieca ma sapiente, anche quando resta, per l’uomo, misteriosa. La vera grandezza di Giobbe è nel suo accogliere questa rivelazione senza rinnegare il suo dolore. Non è vinto dalla potenza divina, ma trasformato dalla sapienza che gli è stata rivelata. Egli tace non perché sconfitto, ma perché illuminato. La sua protesta era giusta, ma incompleta. Il suo dolore era vero, ma parziale. Giobbe non riceve indietro tutto ciò che ha perso come compensazione, bensì come segno di una rinnovata alleanza tra la creatura e il Creatore. La sofferenza, allora, non è l’ultima parola e nemmeno viene cancellata. Essa rimane come ferita nella carne del mondo, ma anche come via di purificazione dell’intelligenza. La risposta di Dio non consola con superficialità: essa, semmai, risana con verità. Essa non dissolve il male, ma lo supera in altezza. In fondo, la domanda di Giobbe è una prefigurazione della croce: il giusto che soffre, l’innocente che grida, Dio che tace… fino a quando non si fa Egli stesso carne del dolore, nel Cristo, rivelando che il mistero della sofferenza è il mistero dell’amore che si lascia ferire. Così la filosofia si inginocchia non per rinunciare a capire, ma per iniziare a vedere. E la teologia si eleva non per evadere dalla storia, quanto per abitarla con occhi nuovi. La risposta di Dio a Giobbe è il principio di ogni autentica teodicea: non una giustificazione del male, ma una rivelazione del senso dell’essere, che trasfigura anche il male nella trama di un disegno che sorpassa l’uomo, senza umiliarlo. Giobbe non ottiene tutto ciò che voleva. Ottiene molto di più: una visione. E quella visione salva l’uomo dalla disperazione, lo strappa al nichilismo, gli restituisce la dignità della speranza. |