Quando le vacanze

si chiamavano villeggiatura




di Roberto Pecchioli


Pubblicato sul sito Ereticamente





Villeggiatura di altri tempi -  Dipinto di Carpentier



A Ferragosto chi può è in vacanza. Lasciare la residenza abituale è diventato un dovere sociale, quasi un lavoro da documentare sui social media.
La televisione parla di bollino nero sulle strade per le lunghe code sotto la canicola. Capita lo stesso nella mia città, terminale dei traghetti per le vacanze; le spiagge tanto agognate sono precedute da file all’imbarco, sudore, disagi.
In questo periodo dell’anno i lettori – eroici di per sé, nel tempo dell’immagine e dell’audiovisivo – non gradiscono temi pesanti. C’è bisogno di leggerezza, ad esempio ricordare con un sorriso indulgente l’epoca in cui le vacanze si chiamavano villeggiatura.
Vacanza, cioè assenza, tempo sospeso, versus villeggiatura, ricaricare corpo e anima in luoghi ameni, possibilmente poco affollati, meglio se risparmiati dalla calura.

Lo scrivano è abbastanza vecchio per ricordare il ferragosto d’antan, preparazione alle ferie di papà, che preferiva riposare a settembre dal duro lavoro notturno di impaginatore in un giornale.
A Ferragosto facevamo una gita nell’entroterra, alla ricerca di qualche vecchia trattoria, di prodotti tipici e di un po’ di frescura. All’epoca era normale l’idea che facesse caldo d’estate: non esisteva il sistema dei bollini (giallo, arancione, rosso) per le ondate di afa e l’allerta multicolore per i temporali.
Si accettava, ecco tutto, senza dedicare tempo alla meteorologia, di cui non ci fidavamo granché.

Il bambino che ero si entusiasmava per il viaggio, seduto sullo scomodo sedile posteriore della Fiat Seicento di seconda mano targata Alessandria – esotismo extraregionale – e nulla gli importava della temperatura e del traffico. Era il fascino di sentirsi un esploratore.
Ci sono i romanzi di formazione e i viaggi di formazione: il mio grand tour aveva una meta, Maresca, montagna pistoiese, la casa di un commilitone di papà nell’avventura della Repubblica Sociale.
Non c’erano autostrade i primi anni, e la mamma preparava provviste, bevande e persino asciugamani come per un pericoloso bivacco.

L’eccitazione mia era massima : oltrepassavamo i paesi della costa ligure costeggiando l’Aurelia tra panorami bellissimi, la Ruta, il monte di Portofino a destra, poi la discesa su Chiavari con i suoi portici, troppo stretti per il transito in automobile. L’immaginazione correva in quella bella città quasi invisibile.
Il destino – la mia fortuna – avrebbe voluto che, diventato adulto, trovassi moglie proprio a Chiavari.

Poi bisognava superare l’interminabile Bracco, il lungo passo che divide la provincia genovese da quella spezzina. Papà era preoccupato: strada stretta, in mezzo ai boschi tra minuscoli paesi disseminati di officine e trattorie per gente di passaggio, con la certezza di code dietro ai camion. Nessuna possibilità di sorpasso, ma ero ancora più contento, potevo osservare meglio i luoghi, imprimere nella memoria il verde acceso dei boschi, i campanili lontani, le case dipinte nei vivaci colori della tradizione ligure.
Il Bracco finiva con una vista mozzafiato sul golfo della Spezia, i tetti rossi della città, le grandi navi grigie della Marina Militare. Se il mattino era limpido il panorama sul golfo pareva una cartolina.
Lontane, le Alpi Apuane bianche non di neve ma di marmo.
Nessuna sosta alla Spezia: una strada interna permetteva di evitare la ripida discesa e il traffico cittadino. Meglio così: era una città ostile secondo la nonna, convinta, chissà perché, che gli spezzini fossero “o ladri o assassini”.

Per alcuni anni la mamma ed io chiedemmo invano una sosta a Lucca. Papà aveva fretta e vedevamo soltanto le potenti mura della città, gli enormi bastioni e il vasto prato verde circostante.
Misteriosa Lucca che si rivelò poi – le insistenze della mamma ! – bellissima, con le sue chiese: San Michele dalle colonne di marmo bianco, la torre dei Guinigi con gli alberi sul tetto, il mercato in una piazza rotonda.
Si avvicinava la meta. La scura vallata si inerpicava verso la montagna. A destra, ogni anno guardavo rapito un paesino tutto in verticale, Lucchio, in cui non arrivava la strada, tanto scosceso che la voce locale affermava che le galline portavano le mutande per non perdere le uova.

Ricordi ingenui che allora significavano tanto per il bambino che lassù imparava la vita e anche la lingua, quel vernacolo così diverso dal dialetto un po’ greve di vocali chiuse e parole tronche parlato a casa.

A Mammiano, paesino con le vecchie “hase operaie” in fila giù in basso, nella “buha” che ospitò la prima ferriera, il consueto oh di meraviglia dinanzi al ponte sospeso, una lunga precaria costruzione pedonale di corde di ferro e traversine di legno gettata sulla vallata. Per noi bambini era una prova di ardimento attraversarlo correndo in modo che oscillasse. E’ ancora lì, e non è mai successo niente al ponte e a chi lo ha attraversato.
Fu il mio primo pensiero, il raffronto con il gigantesco ponte Morandi crollato proprio a Ferragosto del 2018.

Maresca è ancora oggi il mio luogo del cuore, la vecchia casa rosa in località Tafoni, le grandi querce e la foresta del Teso, la Casa del Popolo con il juke box (che goduria, costava meno che a Genova!) il calcio balilla e i tavoli da ping pong. La colonna sonora erano le canzoni di Un disco per l’estate, Rita Pavone, Little Tony e il primo successo di Al Bano: Nel Sole.
Forse era il 1967.
Fu anche il luogo dove conobbi la natura, i “conìglioli” per cui andavo nel bosco a tagliare l’acacia, la raccolta delle ortiche il sabato per fare i tortelli (non si buttava niente, allora) l’asinello che – altra scoperta – non era affatto stupido, ma anche l’esperienza della povertà, vera e diffusa.
La stragrande maggioranza degli uomini lavorava in fabbrica, la mitica Metallurgica che in estate lasciava molti in cassa integrazione.
Vita agra: poca agricoltura, solo qualche coniglio, patate e castagne, cibo quotidiano delle generazioni precedenti. Le donne erano sfruttate dai magliari che distribuivano la lana e pagavano pochissimo.
Scoprivo i libriccini neri con il bordo rosso in cui si segnavano gli acquisti nei negozi, da pagare “a sospiro”, dicevano le donne, in ritardo poiché i mariti erano pagati spesso con acconti.

Molte famiglie – erano gli inizi della villeggiatura – lasciavano la casa intera a chi arrivava dalle città, ritirandosi per un paio di mesi in solaio perché l’affitto – spesso il subaffitto, molti non erano proprietari – era un reddito essenziale.

Avevo la bicicletta da corsa con i cambi, che sfigurerebbe con i mezzi accessoriati dei cicloturisti odierni. Era il mio orgoglio; facevo il tifo per un corridore toscano, Guido Carlesi detto Coppino, ed ero fiero di conoscere Silvano Ciampi, un buon professionista locale che comprò a fine carriera – altri tempi ! – l’“appalto”, la tabaccheria del paese.
Non avevo le qualità ma pedalavo tutto il giorno, scalando con fatica inenarrabile le salite della Montagna Pistoiese fino a Le Piastre, il paese i cui abitanti sono “più bugiardi delle epigrafi”, e ancora organizzano un festival internazionale delle bugie.
Ne inventavo anch’io, arrivato in paese.

Il mio amore più grande era il trenino a scartamento ridotto che percorreva la montagna. Paesaggi stupendi: ogni volta aspettavo il momento in cui, all’inizio della discesa verso San Marcello, la piccola capitale montanina, si stagliava la mole altissima e bizzarra del Libro Aperto, una montagna chiamata così per la caratteristica forma simile a pagine spalancate.

Credo che piansi quando – avevo forse quattordici anni – chiusero la ferrovia, per tutti la Fappe (Fap, Ferrovia Alto Pistoiese, ma i toscani aggiungono la e alle parole tronche).
Iniziavano a cambiare i tempi, il piccolo mondo antico finiva e oggi la Metallurgica è quasi deserta.

Dopo l’adolescenza sono tornato un’unica volta, toccando con mano l’abbandono progressivo, lo spopolamento, la chiusura dei luoghi che avevano tanto contribuito alla mia formazione, come il cinema Reno in cui il sabato e la domenica proiettavano le pellicole adesso chiamate “film peplum”, le storia di Ercole, Spartacus, Ursus e altri forzuti. Noi ragazzi gridavamo, facevamo il tifo per gli eroi preferiti.
Centocinquanta lire per due spettacoli e una pallina di “cingomma” colorata (il chewing gum si chiamava così), presa dal distributore in plastica trasparente. Vintage.

La giornata più bella era l’8 settembre a San Marcello, il giorno del pallone di Santa Celestina, il lancio della grande mongolfiera di carta dipinta alimentata da aria calda, culmine dei festeggiamenti patronali. Ogni anno veniva ritrovata in posti lontanissimi, persino all’estero. Miracoli di un paese il cui nome non corrisponde alla santa Patrona, non l’unica stranezza di un comune di cui fu sindaco per molti anni un distinto signore – unico socialista in un consiglio dominato dal PCI – di nome Savonarola (!!) , un mangiapreti che, dicono, riuscì a convincere un acceso militante a non chiamare Ateo il figlio e a farlo battezzare.

Il vostro scrivano villeggiante aveva anche il suo odore speciale, come le madeleines di Proust. Era il profumo intenso dei fegatini spalmati sui crostini di pane sciapo, che rammento ogni volta che torno in Toscana. Sempre più raramente, perché i ricordi abitano nel cuore e non reggono alla prova del presente. Risiedono nell’anima, invisibili agli occhi. Parlano del tempo perduto, dell’educazione alla vita, di mille scoperte.

La vacanza, erede spuria della villeggiatura, non ha lo stesso significato. La mia generazione, l’ultima ad aver visto il mondo di ieri come fu per tantissimo tempo, è stata fortunata e non se ne è resa conto, disperdendo un patrimonio di sentimenti, conoscenze, esperienze.

Buone ferie a tutti.








 
agosto  2025
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