LA SANTA MESSA PERSEGUITATA


di Pietro  Pasciguei


Pubblicato sul quindicinale SI SI NO NO

Anno LI, n° 14 - agosto 2025

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Nel 2007, Benedetto XVI promulgò il Motu Proprio Summorum Pontificum (2007), accompagnandolo con una lettera, nella quale dichiarò che il rito antico non era mai stato abrogato (Cfr. Summorum Pontificum, Art. 1).
Non poteva esserlo.
Il Concilio di Trento, infatti, stabilì con un canone dogmatico: «Se qualcuno afferma che i riti tramandati e approvati dalla Chiesa cattolica, soliti ad essere usati nell’amministrazione solenne dei sacramenti, possano essere disprezzati o tralasciati a discrezione, senza peccato, da chi amministra il sacramento, o cambiati da qualsivoglia pastore di chiese con altri nuovi riti: sia anatema» (DS 1613). 

Questo canone XIII sul sacramento dell’Eucaristia condanna come eretica l’idea che un qualsiasi pastore della Chiesa — compreso il Papa — possa sostituire i riti tradizionali con quelli nuovi.
Questo canone ha valore dogmatico, non solo disciplinare. La sua formulazione universale (“quemcumque”) esclude eccezioni.
Quindi, la sostituzione del rito romano con il Novus Ordo appare non solo illegittima, ma contraria alla fede cattolica, secondo il magistero infallibile del Concilio di Trento.

San Pio V, inoltre, nella Quo primum tempore, solennemente dichiarò:
«Nessuno, dunque, e in nessun modo, si permetta con temerario ardimento di violare e trasgredire questo Nostro documento [= Missale Romanum]: facoltà, statuto, ordinamento, mandato, precetto, concessione, indulto, dichiarazione, volontà, decreto e inibizione. Che se qualcuno avrà l’audacia di attentarvi, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio onnipotente e dei suoi beati Apostoli Pietro e Paolo».

L’espressione “possano essere disprezzati o tralasciati a discrezione senza peccato” implica che i riti liturgici hanno una natura inviolabile.
Se anche un Papa tentasse di abrogarli o cambiarli arbitrariamente, sarebbe un atto gravemente peccaminoso.
Il Concilio, dunque, stabilisce che non solo i vescovi o i sacerdoti, ma neppure il Papa può stravolgere o abrogare i riti liturgici riconosciuti dalla Chiesa, perché sono parte della Tradizione e appartengono alla fede apostolica che non è soggetta a cambiamenti arbitrari.

Nel documento Quo primum tempore, san Pio V esplicita che il decreto del Missale Romanum non è negoziabile e non può essere modificato da nessuno, nemmeno dal Papa stesso.
L’uso della parola “temerario ardimento” implica che qualsiasi tentativo di alterare il decreto sarebbe una grave violazione del diritto liturgico.

Dalle due citazioni emerge con chiarezza che, secondo la dottrina del Concilio di Trento e il decreto di san Pio V, nessuno, nemmeno un Papa, ha il potere di abrogare o sostituire il Missale Romanum o qualsiasi altro rito liturgico riconosciuto e approvato dalla Chiesa. Entrambi i documenti stabiliscono che i riti liturgici sono un deposito di fede che appartiene alla Chiesa e che non può essere modificato arbitrariamente. In questo modo, la liturgia della Chiesa, come manifestazione della fede apostolica, è intangibile, e il Papa non ha il potere di modificarla a sua discrezione.

Benedetto XVI afferma che la Messa tridentina non è mai stata formalmente abolita, smentendo ciò che per decenni è stato insegnato e praticato.
Le dichiarazioni ufficiali del tempo di Paolo VI — seppur ambigue — sono state lette (e applicate) come una sostituzione obbligatoria del rito tradizionale con quello nuovo. La prassi ecclesiale degli anni ’70 e ’80 conferma questa lettura: la celebrazione pubblica del Vetus Ordo era vietata quasi ovunque, salvo rare eccezioni per preti anziani.
Benedetto XVI, conscio del vincolo tridentino, ha evitato di dichiarare che Paolo VI abbia “abolito” il rito antico. Così facendo, cercò di sottrarre Paolo VI all’accusa di eresia materiale. Invece di affermare che il Novus Ordo ha sostituito il rito tradizionale, lo presenta come la “forma ordinaria” di un rito romano che conserva anche una “forma straordinaria”, mai abrogata.
Ma questa è una costruzione giuridico-retorica, che non regge alla luce della teologia liturgica tradizionale e della realtà dei fatti.
L’idea delle due “forme” (ordinaria e straordinaria) dello stesso rito romano è una distinzione giuridica, non teologica. Le differenze tra la Messa tradizionale e quella di Paolo VI sono così profonde — nella teologia, nella struttura, nella spiritualità e nell’ espressione del sacro — che non si può seriamente parlare di “due forme dello stesso rito”.
La nuova Messa ha abbandonato elementi centrali del rito romano: unicità dell’anafora, continuità rituale, centralità sacrificale. In effetti, la nuova Messa somiglia più a un culto protestante che alla liturgia cattolica tradizionale.
Affermare che si tratti di un unico rito serve solo a giustificare la coesistenza canonica delle due Messe, ma non corrisponde alla realtà liturgica o dottrinale.

Nel 2021 papa Francesco, con il Motu Proprio Traditionis custodes ha introdotto delle restrizioni sull’uso di questo Messale. Dopo un’attenta e serena lettura del documento, desideriamo proporre alcune riflessioni di natura liturgica e teologica.
Il tono del documento appare, in effetti, pervaso da una certa rigidità giuridica e da un indirizzo fortemente restrittivo. Tuttavia, ciò che si presenta come un atto di forza potrebbe essere interpretato piuttosto come un segnale di debolezza: un tentativo di affermare l’autorità attraverso la norma, in un momento di evidente difficoltà pastorale e liturgica.

Nella Lettera ai vescovi, il Pontefice manifestò preoccupazione per un uso da lui ritenuto strumentale del Missale Romanum del 1962, affermando che esso alimenterebbe un rifiuto del Concilio Vaticano II, e rivelò di aver fatto inviare nel 2020 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede un Questionario a tutti i vescovi riguardante l’applicazione delle disposizioni di papa Ratzinger e affermò che «le risposte pervenute hanno rivelato una situazione che mi addolora e mi preoccupa, confermandomi nella necessità di intervenire».
Fino a oggi i dettagli sulla consultazione non erano mai stati rivelati.

Nel libro di mons. Nicola Bux e Saverio Gaeta, La liturgia non è uno spettacolo (2025), si svela finalmente la verità: i risultati erano completamente opposti a quanto affermato da Francesco.

1) Il rapporto, mai pubblicato integralmente, mostra che la maggioranza dei Vescovi si dichiarava soddisfatta della precedente normativa (Summorum Pontificum, 2007) e riteneva che eventuali restrizioni avrebbero causato più danni che benefici, come divisioni liturgiche e rischi di scisma.

2) Al contrario di quanto sostenuto da papa Francesco (che parlava di divisioni e abusi liturgici), il rapporto evidenzia che i problemi derivano più da una minoranza di Vescovi ostili o ignoranti nei confronti della Messa antica, non dai fedeli legati a essa.

3) Il documento sottolinea che dove Summorum Pontificum è stato applicato bene, con collaborazione tra clero e Vescovi, si è creata una situazione pacificata e fruttuosa.

4) Si nota una forte attrazione dei giovani per la Messa tradizionale, vissuta come esperienza autentica e sacra, spesso accompagnata da ritorni alla fede, vocazioni e rinnovamento spirituale.

5) Il rapporto raccomandava una maggiore formazione liturgica nei seminari su entrambe le forme del rito romano, e auspicava libertà di scelta per i fedeli, in linea con lo spirito di unità promosso da Benedetto XVI.

6) Alcuni Vescovi, specie in ambiti ispanofoni e italiani, tendevano a minimizzare o osteggiare la liturgia tradizionale, vedendola come un fastidio o un pericolo da contenere.

7) Il giudizio complessivo del Vaticano riconosceva che Summorum Pontificum aveva avuto un impatto positivo e non costituiva una minaccia all’unità della Chiesa.

Traditionis custodes si rivela oggi per quello che molti avevano intuito fin dall’inizio: non un documento pastorale, ma un atto ideologico, mosso da pregiudizio dottrinale e ostilità verso la Tradizione cattolica.
Papa Francesco ha giustificato la soppressione della Messa di sempre come risposta a una consultazione episcopale che, come ora sappiamo, non solo non chiedeva un intervento repressivo, ma metteva in guardia contro le sue conseguenze.

Il rifiuto del Summorum Pontificum — che aveva iniziato a sanare ferite profonde nella vita della Chiesa — non è dunque frutto del discernimento, ma della volontà di cancellare tutto ciò che richiama, anche lontanamente, una fede integrale, un culto sacro, un sacerdozio gerarchico, una liturgia obbediente e orientata a Dio. In una parola: tutto ciò che la Chiesa ha sempre custodito e che oggi viene trattato come un residuo “pericoloso” da estinguere.

La linea tracciata da Traditionis custodes è chiara: si vuole marginalizzare — o eliminare — ogni espressione visibile della Tradizione viva. Si teme la Messa antica non perché divida, ma perché convince, attira e converte. Si combatte il Vetus Ordo non perché sia sterile, ma perché porta frutti.

È lecito osservare che la stessa sollecitudine non sia stata esercitata nei confronti delle gravi deviazioni dottrinali presenti in alcune conferenze episcopali, in particolare quella tedesca; per non parlare dei ripetuti, aberranti e quotidiani abusi liturgici nelle parrocchie di tutto il mondo!
Il rigore riservato ai gruppi legati alla tradizione liturgica appare quindi sproporzionato e sintomatico di un giudizio ideologico, piuttosto che pastorale.

Il punto nevralgico del documento, da cui discendono le disposizioni successive, è l’articolo 1, in cui si legge: «I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano».
Tuttavia, sul piano del diritto, ciò si configura come un’interpretazione arbitraria.

Il Summorum Pontificum aveva riconosciuto non un privilegio, bensì un diritto soggettivo, fondato sull’immutabilità giuridica della bolla Quo primum di San Pio V, come sostenuto anche dal canonista abbé Raymond Dulac e dal liturgista mons. Klaus Gamber. Lo stesso card. Joseph Ratzinger parlava esplicitamente di una “liturgia fatta a tavolino”:
«La promulgazione del divieto del Messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentari della Chiesa antica, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Com’era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del concilio che si arrivasse ad una revisione del Messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualche cosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. Non c'è alcun dubbio che questo nuovo Messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest'ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi» (1).

Queste affermazioni testimoniano come il nuovo Messale non rappresenti, né nella forma né nella sostanza, una semplice evoluzione del Rito Romano, ma una trasformazione profonda, che ha rotto la continuità organica con la tradizione liturgica precedente. Una questione teologica e giuridica essenziale è la sorte giuridica del Messale di san Pio V.
L’art. 1 del Motu Proprio sembra escluderne la validità come espressione della lex orandi della Chiesa latina. Tuttavia, ciò contrasta con la realtà storica e canonica. Il Messale tradizionale ha avuto vita ufficiale e ininterrotta per vari secoli, è stato venerato e usato da innumerevoli santi, ed è stato esplicitamente “bloccato” e protetto in perpetuo dalla Costituzione Apostolica Quo primum, come poc’anzi affermato.
Mons. Gamber si chiede legittimamente se un Papa abbia l’autorità per abrogare un Rito ricevuto e trasmesso per secoli. La risposta, secondo lui e molti altri teologi come Cajetano e Suarez, è negativa.
Il Pontefice è custode della liturgia, non suo creatore o distruttore. Nessun documento ecclesiale, neppure il Codice di Diritto Canonico, attribuisce al Papa il potere di abolire un Rito di Tradizione apostolica.

S.E.R. mons. Athanasius Schneider, nel suo Credo. Compendio della fede cattolica (2024), scrive:

III, 771. Un Papa può abrogare un rito liturgico di uso immemoriale nella Chiesa? No. Proprio come un Papa non può proibire o abrogare il Credo degli Apostoli o il Credo di Nicea-Costantinopoli o sostituirli con un’altra formula così egli non può abrogare i riti tradizionali millenari della Messa e dei sacramenti o vietarne l’uso. Questo si applica sia ai riti orientali sia a quelli occidentali.

III, 772. Il Rito romano tradizionale può mai essere legittimamente proibito per tutta la Chiesa? No. Esso Si basa su un’antica tradizione pontificale di carattere apostolico e divino e porta con sé la forza canonica della consuetudine immemoriale; non potrà mai essere abrogato né proibito».

Ne consegue, canonicamente e teologicamente, che il Rito Romano tradizionale non è stato abrogato, né può essere abrogato o proibito. Esso continua a vivere come espressione autentica della lex orandi e i sacerdoti conservano il diritto di celebrarlo, come i fedeli quello di parteciparvi

Nella Lettera ai Vescovi, si legge che il Papa si sarebbe ispirato a san Pio V, il quale, dopo il Concilio di Trento, stabilì un unico Missale Romanum per tutta la Chiesa latina.
Tuttavia, il paragone è fuorviante: san Pio V non introdusse un nuovo rito, ma restaurò il Rito Romano esistente, proteggendo riti più antichi di almeno 200 anni. Il Messale di Paolo VI, invece, rappresenta una creazione nuova e discontinua, che sotto l’autorità di san Pio V sarebbe stata scartata, non avendo la necessaria antiquitas. Inoltre, san Pio V, con la bolla Quo primum, garantì la possibilità di usare per sempre quel Messale, senza bisogno di alcuna autorizzazione, né da parte di vescovi né di superiori religiosi.

Il Motu Proprio Traditionis Custodes, pur rivestito di un tono legislativo severo, non risolve le questioni dottrinali e liturgiche aperte dalla riforma postconciliare. Esso tenta di affermare per via normativa ciò che non si è riusciti a consolidare per via pastorale e teologica. 

La legge obbliga in quanto ordinatio rationis e non semplicemente in forza dell’obbedienza ad un’autorità pur legittima. La volontà del legislatore sciolta dall’ordinamento razionale porta direttamente alla pericolosa violazione del diritto e alla negazione della realtà.

Nella sana concezione del diritto, lontana da machiavellismi, è questa razionalità a normare la norma; se la norma non ricevesse la sua misura dall’ordinatio rationis, finiremmo nel totale arbitrio dell’autorità.
Cosa fece Benedetto XVI con Summorum Pontificum?
Partì dalla constatazione dell’esistenza di due forme rituali nella Chiesa latina (da cui l’affermazione della non abrogazione dei libri liturgici antichi), di cui una plurisecolare, e cercò di inquadrarle giuridicamente, in modo da perseguire il bene comune. Si potrà discutere se ciò sia stato fatto nel modo migliore (di certo, l’espressione “due forme dello stesso rito” è, in sé, erronea: come si può pensare, per fare solo un esempio elementare, che un rito in cui il sacerdote non disgiunge pollice e indice per non perdere alcun frammento dell’ostia consacrata abbia lo stesso significato di un rito che prevede la comunione in mano e i ministri straordinari?).
Cosa ha fatto papa Francesco? Ha deciso di usare il diritto contro la realtà, inventando che l’unica forma del Rito romano sarebbe quella uscita dalla riforma voluta da Paolo VI, relegando così il plurisecolare Rito romano nel mondo dei sogni.
Padre Rivoire mostra con concisione che il rito uscito dalla riforma non è il Rito romano. Sebbene contenga elementi di esso, è stato così profondamente mutato da non poter rivendicare una continuità di forma. La riforma, in questo caso, non è stata un recupero della forma, ma il conferimento di una nuova forma. Questa nuova forma indica appunto qualcosa di nuovo.
L’autore cita i fautori stessi della riforma liturgica, come padre Joseph Gélinau e mons. Annibale Bugnini, che parlavano del rito romano «distrutto», di un vero e proprio «rifacimento», non di uno sviluppo.
Nel Consilium erano presenti sei teologi protestanti come consulenti. Ciò è rilevante dal momento che su L'Osservatore Romano del 19 marzo 1965, Bugnini proferì un’affermazione scandalosa: «“Dobbiamo togliere dalle nostre preghiere cattoliche e dalla liturgia cattolica ogni cosa che possa essere l'ombra di una pietra d'inciampo per i nostri fratelli separati, ossia i protestanti”; la riforma doveva farsi affinché “la preghiera della Chiesa non fosse motivo di malessere spirituale per nessuno”».

E Jean Guitton, che certo non era un “tradizionalista”, amico fidato di Paolo VI, affermò:
«In altre parole, c’è in Paolo VI l’intenzione ecumenica di cancellare – o almeno di correggere, di attenuare – ciò che c’è di troppo “cattolico”, in senso tradizionale, nella Messa, e di avvicinare la Messa cattolica – lo ripeto – alla messa calvinista» (2).

Ecco perché Mons. Klaus Gamber affermò: «Una cosa è certa, che il nuovo Ordo Missae che ora viene presentato non è stato approvato dalla maggioranza dei Padri conciliari» (3).
Guardando alla realtà, infatti, non possiamo che affermare che il Messale promulgato da Paolo VI non sia conforme alle richieste che emergono da Sacrosanctum Concilium. In nessun punto la costituzione liturgica del Vaticano II contempla «la soppressione dell’offertorio tradizionale, né che siano composte nuove preghiere eucaristiche, né che siano soppresse o modificate quasi tutte le orazioni, né che la celebrazione si tenga rivolti al popolo, né che il canone sia recitato ad alta voce, né ancor meno che la Comunione possa esser data in mano» (4).
Non sono neppure state rispettate le indicazioni positive sul mantenimento della lingua latina e del canto gregoriano. Infine, il volontarismo giuridico che anima Traditionis Custodes ha portato in più punti a calpestare il diritto canonico e a commettere errori giuridici, come padre Rivoire dimostra ampiamente.
La questione liturgica, infatti, non è solo una questione rituale, ma anche un tema fondamentale che tocca il rapporto tra il Papa e la Rivelazione di Dio, espressa nelle Scritture e nella Tradizione.

«A essere sconcertante non è tanto che Francesco contraddica il suo predecessore, ma che egli gestisca un rito liturgico multisecolare come se si trattasse di una materia puramente disciplinare» (5).

La liturgia tradizionale è oggi viva non per nostalgia, ma perché esprime in modo sublime il senso del Sacrificio, la centralità del culto divino, il silenzio adorante, e l’intima unione tra fede e rito. Il suo rigetto, al contrario, appare come una scelta ideologica, più che pastorale, e rischia di alimentare divisioni piuttosto che sanarle.
La carità e la verità obbligano ad affermare che il Rito Romano Tradizionale – definito dal card. Schuster come “la cosa più bella di questa terra” – continua a essere un tesoro della Chiesa, da custodire, celebrare e trasmettere, anche a costo di sacrifici. 

Il card. Darìo Castrillòn Hoyos affermò che non può essere proibita e giudicata dannosa «una Messa che ha nutrito per secoli il popolo cristiano e la sensibilità di molti santi, come san Filippo Neri, san Giovanni Bosco, santa Teresa di Lisieux, […] e padre Pio da Pietrelcina; è possibile ritenere che il rito antico esprimesse meglio il senso del Sacrificio di Cristo, che è rappresentato in ogni Santa Messa» (6).

La Tradizione non si abolisce con un Motu Proprio. E non saranno le minacce, le soppressioni o i rescritti a estirpare la sete di sacro, di verità e di continuità che Dio stesso ha iscritto nei cuori di tanti fedeli, giovani e meno giovani.
Se la gerarchia rinnega le sue radici, allora il dovere dei cattolici è rimanere fedeli a ciò che la Chiesa ha sempre creduto, sempre celebrato e sempre insegnato.


NOTE

1 La mia vita, San Paolo 1997, pp. 113-115.
2Lumiere 101, Radio domenicale di Radio-Courtois, 19 dicembre 1993.
3The Reform of the Roman Liturgy, Harrison, New York 1993, p. 61.
4Il motu proprio Traditionis Custodes alla prova della razionalità giuridica, Amicizia Liturgica, p. 21.
5 - Il motu proprio Traditionis Custodes alla prova della razionalità giuridica, Amicizia Liturgica, p. 20.
6 -  E. CUNEO – D. DI SORCO – R. MAMELI, Introibo ad altare Dei, p. 7.




 
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