“Dilexi te”

Tutte le differenze con la “Rerum novarum”


di Vincenzo Rizza



Pubblicato sul sito di Aldo Maria Valli









Con la prima esortazione apostolica, “Dilexi te”, Papa Leone XIV fa proprio il progetto di Francesco seppure “aggiungendo alcune riflessioni” che provano a correggere il tiro rispetto a un documento, di chiara matrice social-populista, che trae spunto dalla fallimentare esperienza sudamericana.

Il testo è di fatto l’ultimo scritto di Papa Francesco (rectius di monsignor Paglia), ma anche se nasce nel solco del pontificato precedente è stato firmato dal nuovo Papa e va giudicato per quello che dice, non per chi l’ha cominciato.

Sulla base delle prime impressioni, provo a fare un breve confronto tra “Dilexi te” e la “Rerum novarum” di Leone XIII; il risultato mi sembra impietoso.
 

Leone XIII, nel 1891, ha gettato le basi della dottrina sociale della Chiesa prendendo a fondamento il principio di giustizia. Quella giustizia che nasce dal diritto naturale, che riconosce al lavoratore il diritto a ricevere un salario equo e al proprietario la legittimità della proprietà dei suoi beni.

Dilexi te”, invece, parte da un’altra premessa: la povertà come categoria teologica assoluta.

La “Rerum novarum” difendeva con forza la proprietà privata come diritto naturale dell’uomo e argine contro lo Stato onnipotente: abolire la proprietà equivale a distruggere la famiglia e la libertà personale.

In “Dilexi te” la proprietà sembra appena tollerata e subito relativizzata: ciò che possediamo “non è nostro, ma loro [dei poveri]”. Frase suggestiva, certo — e San Giovanni Crisostomo la scrisse davvero — ma estrapolata dal contesto diventa un manifesto di redistribuzione più che di carità.
Il risultato è un cristianesimo che non corregge il socialismo e lo statalismo ma li esalta.

Per Leone XIII, lo Stato doveva proteggere i deboli, ma senza ingerirsi oltre misura: la sussidiarietà è la regola.

In “Dilexi te”, invece, emerge la visione tipica della teologia latinoamericana: la partecipazione dei “movimenti popolari”, l’ascolto dei poveri come soggetti politici.
Si tratta delle solite ricette sudamericane che, ovunque siano state applicate, hanno prodotto un solo risultato: il disastro.
Ricette che non liberano i poveri ma li mantengono poveri. Un modello che si proclama profetico ma finisce per essere paternalista, perpetuando l’assistenzialismo e soffocando ogni forma di responsabilità personale e libertà economica.
Il potere, che la “Rerum novarum” voleva limitare, qui torna a essere evocato come strumento di redenzione collettiva. Peccato che lo Stato redentore ha per lo più prodotto nuovi poveri e nuovi oppressi. Ma forse questo è l’obiettivo, visto che la povertà non sembra quasi più una condizione da redimere ma una forma privilegiata di salvezza e la povertà materiale sembra prevalere su quella spirituale.

La Chiesa, ancora, con Leone XIII si rivolgeva al mondo come maestra; Leone XIV, o meglio il testo che firma, sembra parlare di una Chiesa che non guida ma “cammina povera con i poveri”; una Chiesa che si limita ad accompagnare e di fatto smette di insegnare.

Trovo, invece, una nota positiva nel breve messaggio che Papa Leone XIV ha inviato ai vescovi: “Caro fratello in Cristo, è con grande gioia che ti scrivo, seguendo una pratica iniziata da Papa Francesco più di dieci anni fa, che coinvolge l’intero Collegio Episcopale nei momenti importanti del Magistero Papale. Possa ‘Dilexi te’ aiutare la Chiesa a servire i poveri e ad avvicinare i poveri a Cristo

Un giusto richiamo non solo alla Chiesa affinché serva i poveri ma anche ai poveri affinché si avvicinino a Cristo. Quest’ultimo riferimento mi sembra un segno di contraddizione rispetto al contenuto dell’esortazione che rovescia la prospettiva (non la Chiesa che porta Cristo ai poveri ma i poveri che dettano alla Chiesa la sua missione) e che confonde la carità con l’assistenzialismo e la povertà con la santità.





 
ottobre 2025
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