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La battaglia del tradizionalismo di Dardo Juan Calderón Pubblicato su Adelante
la Fe
Testo pubblicato nel 2022, Papa Francesco era ancora vivo ![]() Un mito moderno è quello dell’autostima e del volontariato: è il detto secondo cui, “avendo fede” e convincendomi di “meritarlo”, ciò che cerco diventerà realtà. “Cerca i tuoi sogni”, “segui la tua vocazione”, “ascolta il tuo cuore” e tutti quegli altri luoghi comuni che hanno portato molti giovani a sbattere contro un muro, convinti di potercela fare. Il cristianesimo, fin da Sant’Agostino, ha insegnato il disprezzo di sé, e se c’è un nucleo sospettoso dentro di noi, è il nostro cuore. Ma sappiamo che una parte di verità nasconde la farsa dell’auto-aiuto, perché il disprezzo di sé e la mancanza di fiducia in noi stessi ci rendono pusillanimi. Jean-Paul Sartre cercò di salvare l’aporia attraverso il “disprezzo straordinario”; insegnò a un’intera generazione a compiacersi di essere una merde, una traditrice e una pervertita. Con un residuo di senso cattolico, capì che non potevamo essere buoni perché avrebbe significato accettare la subordinazione all’idea di una natura; e, quindi, un’affermazione dell’esistenza di Dio; che potevamo essere noi stessi solo nel male, un male in cui dovevamo sprofondare consapevolmente e con stile. Diciamo che invertì il paradosso francescano dell’umiltà grandiosa nell’arroganza indignata. Il punto è che una disposizione, un desiderio di grandezza, è una componente indispensabile per la salvezza (quando preghiamo, chiediamo “il desiderio del cielo”), ma richiede anche un destino terreno dignitoso. Questo destino non è solitamente ciò che desideriamo nella nostra ambizione un po’ infantile, ma è solitamente ricompensato da un risultato più difficile e tardivo di quanto desiderassimo, ma più grande e profondo di quanto ci aspettassimo o immaginassimo. Una visione realistica di chi siamo e di ciò che ci circonda, con tutti i nostri difetti intrinseci, non dovrebbe necessariamente essere priva del desiderio di essere magnanimi al suo interno. Il grande infantilismo dei nostri desideri è ricevere il riconoscimento degli uomini, sentire il “grido della folla" (un piacere che fu dato a Barabba; a Cristo, il “tolle, tolle!”). Sappiamo che la rassegnazione al poco che siamo è una componente necessaria per restare saldi su un terreno solido e impedire che la testa ci voli via, ma anche la grandezza di ciò che siamo chiamati a essere fa parte di questo terreno solido su cui dobbiamo stare, finché manteniamo l’entità del debito contratto per esso. È vero che spesso sentiamo che la nostra vita ordinaria, che ha saputo concepire sogni più grandi, muore di noia in questa capanna di polvere e immobilità in cui siamo rimasti intrappolati. Siamo solo uno dei tanti formicai che si agitano nella monotonia meccanica della ripetizione, che in fondo è agitazione per non arrivare da nessuna parte. Una pentola che bolle ma non cuoce nulla. Non abbiamo scritto una sola pagina di gloria, onore, eroismo o amore drammatico con le nostre vite. Rinunciamo ai nostri sogni e ci adattiamo a questo modo di essere per evitare il dolore del fallimento e del rifiuto. Non solo il mondo e la sua storia hanno cessato di essere un’avventura che ci attende per dargli la nota speciale che crediamo di potergli dare, ma abbiamo finito per essere adoratori della situazione reale che ci comprime, del “fatto compiuto”, in cui cerchiamo di mantenere l’apprezzamento per noi stessi come quell’ape anonima nell’alveare; ma non inganniamoci: sappiamo che il nobile insetto può essere o non essere senza che ci sia alcuna differenza. Rinunciare alla grandezza porta con sé la maledizione della piattezza auto-accettata. Nonostante tutte le promesse di piacere e divertimento che ci vengono propinate dai mass media, dopo un attimo l’uomo moderno muore di noia e insensatezza in una vita resa moderatamente confortevole più dall’anestesia che dall’abbondanza, e dalla quale può essere salvato solo dalla grazia della sfortuna; una situazione che, come spesso accade insieme, può essere evitata se riusciamo a eludere l’esperienza di amore profondo che, in entrambi i casi, ne è l’origine. Il vero amore è la trappola cordiale che questo mondo sta imparando a evitare. La grande industria pubblicitaria, dopo averci ingozzato nei suoi film dei suoi sforzi per imporre un ordine politico e sociale (tema che ha mosso gli uomini nel corso della storia e per il quale hanno dato la vita), finisce in un orribile “olocausto”; da Roma ai grandi movimenti del XX secolo, passando, naturalmente, per l'oscurantismo della religione medievale, che, con la sua aspirazione “cattolica” ereditata dalla romanità (nel peggiore dei casi, ora messa alla prova dall’ecumenismo ed elevata a religione “unica”), ispirava tutti i desideri di imporre tirannicamente un “pensiero unico”; decanta imprese banali e assurde dopo aver soddisfatto le migliori intenzioni di coloro che non sono riusciti a “convertirsi” completamente all’egoismo del consumismo (american way of life), come quelle riguardanti l’ambiente, il cambiamento climatico, la non discriminazione, la gestione dell’inquinamento e persino la difesa “cristiana” della vita; attraverso cui intrappola quelle povere anime che sono riuscite a concepire l’altruismo e la filantropia come i valori ultimi che giustificano il pericolo dell’essere. Le persone sono state rese imbecilli e hanno smesso di pensare a un ordine sociale – a causa dei gravi pericoli che ciò comporta, al punto che il solo fatto di pensarci è punibile penalmente. Non molto tempo fa, avevano semplicemente smesso di esprimere opinioni, su consiglio del “bon goût” liberale, inglese e massone – lo stesso che ci consiglia di non disturbare gli altri a tavola con termini controversi e di indossare l’abito elegante ai matrimoni. Ma l’intelligenza e la fede sopravvivono solo se espresse ad alta voce e, ancora meglio, se ci arrischiamo a farlo. L’uomo posto al servizio di se stesso, o di una filantropia senza trascendenza, non è altro che un sopravvissuto o un servitore della sopravvivenza, e non c’è degradazione più grande della condizione umana che avere la “vita” come valore supremo. È del tutto assurdo e denaturalizzante avere questo valore quando si è, appunto e per definizione, “mortali”. È la più grande frode del secolo porre come valore supremo ciò che sappiamo con assoluta certezza di perdere; ciò che è allarmantemente fragile non solo come vita biologica, ma come vita degna di essere vissuta con una certa felicità o onore – una fragilità dell’ideale che, insolubile, ci metterà in guardia contro tutto e tutti, uccidendo la coesistenza. E oserei dire che questa denaturalizzazione della morte, o della vita che implica la morte, è la ragione delle inspiegabili espressioni innaturali nel comportamento di questi esseri sopravvissuti; perché se esiste una cospirazione contro la morte, un patto faustiano contro di essa, questa è una conseguenza della negazione della natura. Se posso trasformare una donna in un uomo, allora c’è speranza di essere immortale (questo non è stato detto in questo modo da Harari, ma è la conclusione della sua posizione esistenziale-intellettuale mercenaria). Non c’è animale più crudele e ignobile di quello che risponde all’istinto di autoconservazione (il “nobile bruto” si arrende alla morte); ma, d’altra parte, non c’è essere più prevedibile e manipolabile di lui. Senza addentrarsi in teorie del complotto, non è difficile vedere che l’esperimento sociale della pandemia di COVID-19 è stato un’accelerazione schiacciante della mentalità del “sopravvissuto”, assolutamente necessaria per svuotare le menti di ogni valore diverso dalla vita corporea stessa, come nei campi di concentramento: “La quarantena è una forma virale del campo di concentramento, dove prevale la pura sopravvivenza [...] sacrifichiamo volentieri alla sopravvivenza tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta [...] ma qui il regime dispotico è l’“ideologia della salute” [...] Persino i sacerdoti mantengono il distanziamento sociale e indossano mascherine protettive. Sacrificano completamente la fede alla sopravvivenza [...] La virologia svilisce la teologia [...] A causa del virus, la fede degenera in farsa.” (Società Palliativa, Byung-Chul Han) L’eroe moderno deve sopravvivere prima di tutto (chi muore è perduto, e i malvagi muoiono), e in ogni caso, il sacrificio deve essere breve e la salute deve essere ripristinata rapidamente. Hollywood ci vende soldati eroici per una settimana che poi tornano a casa. Nessuna delle difficoltà di Álvar Núñez Cabeza de Vaca che attraversa l’America da solo per dieci anni. Non ci sono più amori eterni, né vocazioni religiose perpetue. Nulla merita uno sforzo così lungo, e ogni sforzo deve portare a una ricompensa. (Tornando alla curiosità del frac, è un capo d'abbigliamento pensato per portare delle medaglie appese a un nastro, riproducendo la V [corta] del nastro con la V rovesciata del codino. Mi fa ridere vedere la borghesia comune dare ai bambini vestiti come se dovessero ricevere il premio Nobel. Ho sempre proposto il chiripá con stivali da puledro, fascia da pampa con machete incrociato con fodero di Picasso, torera batán e cappello a pancia d’asino, ma lo trovavano ridicolo (non capisco... perché altrimenti?!)). Tutte le battaglie, tutti gli odi e tutti gli amori non sono che un istante, quel breve lasso di tempo che dura la nostra esaurita forza. Nulla che posponga la gioia a troppo tardi, né prolunghi il sacrificio fino a renderlo insopportabile. Persino i migliori non possono resistere, né credere che la resistenza possa richiedere uno sforzo a lungo termine. Tanto meno uno sforzo che abbraccia generazioni o, peggio ancora, uno sforzo storico, cioè l’intera storia. Ed è per questo che la lotta essenziale delle nostre vite, la lotta del bene contro il male, non può essere compresa o accettata. Sono necessarie “porzioni”, porzioni frammentate di lotta e momenti di festa, momenti di tregua e momenti di accordi. Se il male non finisce mai ed è così esteso, siamo perduti. Dobbiamo creare l’idea che gran parte di esso non sia poi così malvagio, al punto da poterci prendere una vacanza. Persino il Diavolo deve riposare a un certo punto. Se il mondo in cui viviamo è così permeato di malizia, malizia frettolosa e senza tregua, non vale la pena di essere vissuto! Bisognerebbe essere pazzi per dire, come Simone Weil, “non può esserci momento migliore di questo per nascere, quando tutto è perduto”, quando ogni impresa politica si è ridotta alla misera soluzione di banalità le cui cause non saranno mai eliminate, che rinasceranno e ci terranno immersi in un circolo vizioso di stupidità; impedendo all’uomo, non dico di affrontare, ma semplicemente di “ripensare” un sistema malvagio che si impone come l’unica via per “porre fine ai conflitti”. “Finire grazie alla coincidenza e alla complicità nel male; in un po’ di male, o in molto male. Dove la religione stessa si è schierata dietro questo ideale massonico e filantropico, totalmente falso, che non ha fatto sparire né problemi, né scontri, né peccati; ma piuttosto ha reso alcuni più banali e insolubili, altri più assurdi e irrilevanti, e i peccati più bassi e osceni. Il destino che tutto l’accessorio vada perduto è il destino di essere condannati all’essenziale. “Le incudini e i crogioli della tua anima – lavorano forse per polvere e vento?” (Alfredo Bufano) Rimane solo il tradizionalismo cattolico. È l’unica impresa che richiede questo tipo di spirito di grandezza, perché implica schierarsi in una battaglia che dura dalle profondità della storia, che supera di gran lunga i nostri tempi e la cui fine molto probabilmente non vedremo mai. Il destino ultimo della grandezza non lo comprenderemo appieno, ma che ha molto a che fare con uomini che credono di essere nati per il cielo. Questo può essere affrontato solo sfidando la mediocrità e l’infantilismo di essere pagati con il boato della folla, sopportando disprezzo e oblio. La storia non è una corsa di ostacoli che devono essere risolti e che, una volta risolti, ci permettono di riposare. È una lotta costante contro un singolo ostacolo che non dà tregua né vacilla, che non fa accordi e non ammette celebrazioni. La sconfitta è più probabile nelle tregue, nelle vacanze, negli accordi e nelle celebrazioni. Un ostacolo che si maschera da situazioni nuove ma è sempre lo stesso. Che si nasconde o si rivela a seconda delle forze che affronta. Che si rende pubblico o privato. Succubo o incubo. Questo male rimane sempre lo stesso, ma non per la sua virtù, né per la sua consistenza e tenacia, bensì perché il suo Nemico è Eterno e non gli è stata data la possibilità di morire o di essere gettato nell’oblio dell’inferno. E questa idea, difficile da afferrare, è ben compresa dai nostri nemici, che non sbagliano nell’indicarci come la causa di ogni dissenso. Il grande ostacolo è Cristo, e la ragione di tutti i conflitti è Dio. Senza di Lui, il mondo riposerebbe libero nel suo movimento verso la perdizione: le liti – liberate da una causa profonda, sia quella di incoronare Cristo sia quella di ucciderLo – con la “dimenticanza di Dio” sarebbero mere banalità maligne e disgustose (non l’avete notato?). Non ci sarebbero milioni di assassinati per un’idea di ordine sociale che, per quanto sbagliata, porterebbe con sé un certo elemento di sacrificio che, male per male, redime in qualche modo; ma ora milioni di persone sarebbero vittime per il solo piacere di fornicare contro natura e risparmiare soldi per un viaggio di fine anno, o per cambiare auto. Il male si libererebbe persino da Sartre e dalla sua proposta di peccare grandemente; scenderebbe dolcemente all’inferno attraverso le vie del tubo digerente del Diavolo, nel tiepido conforto di una massa fecale che impiega molto tempo per essere espulsa nella grande latrina. La nostra volontà di lottare per il bene non solo protegge il destino soprannaturale degli eletti, ma conferisce anche al nemico più crudele un aspetto umano, e quindi riscattabile. Oggi c’è un tradizionalismo che, negando se stesso, cerca una soluzione, una tregua, un accordo. Crede di non poter resistere oltre, che questa questione non possa essere trascinata così a lungo, che sia necessario chiudere un ciclo e iniziarne un altro, che sia necessario accettare una situazione di fatto diventata immobile e lottare per il resto (chiamatela democrazia in ambito politico, o “parte” della riforma conciliare in ambito religioso). Vuole una vacanza. Crede che ci siano già troppi caduti. Crede che non si possa perpetuare la stessa posizione. Crede che questo ci isoli e ci lasci soli. Ma nulla può cambiare la persistenza di Dio o l’ostinazione del Diavolo, l’una dovuta alla Sua Perfezione e l’altra alla sua condanna. Ciò che può cambiare nel Diavolo è la sua strategia. Ciò che può farci credere è che ci dà tregua. Ciò che può fare è farci credere che chiediamo troppo. Ciò che può fare è renderci stolti o codardi. Stolti, non lasciandoci vedere il male che ha preso piede; codardi, pensando che tutto sia perduto, quando tutto è vinto. Cristo ha già vinto, e ci basta partecipare alla Sua vittoria, ma anche, e prima di tutto, al Suo Calvario. Ma non è una battaglia contro il male, bensì per il bene. Il tradizionalismo è una battaglia spietata, dai primi apostoli all’ultimo degli eletti, per la sopravvivenza della Verità nelle anime dei fedeli, di Tutta la Verità, intatta. Il suo sogno e il suo desiderio è combattere questa battaglia. La sua autostima è sapere di essere capace di combattere perché la Grazia gli basta. La sua fede è sapere che la gloria è sicura. Il suo onore è continuare la lotta dei secoli. Essere un compagno in tutte le campagne eroiche, vero e integro, e incurante delle difese fiacche. L’attuale Papa [Francesco] ha prodotto, con le sue azioni, un duplice effetto. Da un lato, la sua contraddizione è così evidente e la sua negazione così profonda che ci spinge a rimanere più o meno in pace con le precedenti posizioni conciliari, portandoci ad accettare molto del male. Le sue forme sono così ripugnanti che ci rendono amici dei nemici di ieri. Ci fanno credere che non procedere verso un male maggiore significhi tornare al bene; capricci della relatività del male che producono il miraggio dei movimenti. D’altra parte, la loro coprolalia ci distrae. Il problema non è la forma che assume il male, né la soluzione che possiamo escogitare contro di esso, ma l’immobile eternità del bene. Nel suo punto fisso. Il bene è la misura della nostra azione, non il male, che ispira solo reazione. La reazione, per quanto buona e accurata, è solo un aspetto storico. Il suo calcolo è effimero. Abbiamo “grandi apologeti” della nostra religione, critici di Francesco, che rinunciano al dogma (e persino lo negano) (penso a un certo “caminante”). Francesco non è la misura dell’orrore, né la causa dell’apice dell’aberrazione. Né il prossimo Sinodo è la battaglia, ma una manovra diversiva. È un nuovo attacco, altrettanto cattivo, altrettanto insensato, altrettanto inefficace di fronte a Cristo. Un altro colpo al Cristo della Passione. Cos’è stato peggiore, o più doloroso? Non sappiamo se la frusta o l’apatia. L’accusa criminale o la timida difesa. Non si tratta di sfuggire a Francesco come alla peste, cercando un male minore. Questa è la consolazione della mediocrità, la proposta della mancanza di coraggio. Chiunque neghi anche solo un accenno di Dio, lo nega completamente. Non dovremmo lasciarci spaventare dal prossimo Sinodo, né stringere amicizia con coloro che hanno seppellito la liturgia romana, coloro che hanno reso ambigua la nostra chiarezza di linguaggio, coloro che hanno nascosto e negato le nostre glorie, coloro che hanno disprezzato i nostri tesori e degradato il vino. Voglio che tu capisca che le battaglie per i mali minori sono false, e che anche la battaglia contro il male è secondaria. Principalmente perché nelle cose di Dio non abbiamo la misura del male, ma arriviamo a concepire la misura del bene. Chi, a questo livello, definisce i mali minori non sa di cosa sta parlando. La norma cattolica è la perfezione, e se questo ci sembra esagerazione o presunzione, una certa arrogante “discriminazione” nei confronti dei nostri coetanei mediocri, è perché abbiamo scelto la piattezza. |