Elogio della casa.

Per “un popolo di proprietari”


di Antonio de Felip


Pubblicato sul sito Ricognizioni

 







Tra maggio e giugno di quest’anno [2025] l’Italia, per l’ennesima volta, ha dovuto subire i “consigli” di due entità ben rappresentative del super-capitalismo liberal e mondialista: il FMI, Fondo Monetario Internazionale e l’OSCE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa.
Questi potentissimi “manovratori occulti” del mondo hanno “raccomandato” all’Italia, con un’enfasi tale da far supporre piuttosto un’imposizione più o meno mascherata, di colpire fiscalmente il cospicuo patrimonio immobiliare degli Italiani.

Il FMI in particolare, che non dimentichiamo era parte della sciagurata “troika” con l’Unione Europea e la Banca Centrale Europea che attaccò l’economia della Grecia, spolpandola, riducendo alla fame pensionati e lavoratori ellenici, svendendo tutte le più grandi industrie e i porti solo per proteggere i crediti delle banche tedesche, francesi e britanniche, ha ammonito l’Italia e il suo governo sulla necessità di correggere la “stortura” di un patrimonio immobiliare fiscalmente “poco produttivo” (ammirevole peraltro l’ipocrisia di questa definizione).
Pertanto, avvertono questi banchieri affamatori dei popoli nel cui mandato non c’è peraltro alcun diritto di intervenire sulle politiche fiscali dei singoli paesi, occorre “aggiornare i valori catastali” e “razionalizzare le agevolazioni fiscali sugli immobili”.

Curiosamente, quest’odio atavico per la casa da parte del grande capitale, degli autocrati di Bruxelles e dei politicanti di sinistra, ha avuto un momento di interruzione durante il periodo del Covid.
Vi ricordate quel terribile periodo della Covid-dittatura, della caccia ai no-vax, di tranquilli passeggiatori inseguiti dalla polizia, di assurdi arresti domiciliari, di antiscientifica esaltazione di presunti vaccini che hanno prodotto migliaia e migliaia di vittime per effetti avversi, invano negati?
Vi ricordate qual era lo slogan degli autocrati del regime vaccinaro, delle virostar che hanno sulla coscienza le vittime di cui si diceva?
Tutti i giorni, dai media del regime, cioè quasi tutti, si levava l’ordine ultimativo: “Stiamo a casa. State a casa. Io resto a casa”.

In questo periodo di detenzione domiciliare, credo che il sostantivo “casa” sia stato quello più usato e abusato nelle trasmissioni televisive di ogni tipo: istituzionali (cioè di propaganda) e di intrattenimento.
Molto significativi, perché precise rappresentazioni di ciò che “i signori delle parole” suppongono essere gradito ai consumatori, gli spot televisivi di ogni genere: un profluvio di retorica casalinga, di belle famigliole con padre, madre e persino molti figli dedite alle gioie dello stare insieme, di divani accoglienti, di allegre tavolate familiari (niente nonne e vecchie zie però, il regime lo proibiva), di colate di sughi di pomodoro e di melassa buonista.

Certo, non sappiamo quanti Italiani abbiano apprezzato veramente lo stare chiusi in appartamentini dalle cui finestre la vista è altrettanto angosciante, claustrofobica e triste di quella del film di Hitchcock La finestra sul cortile. Come non concordare con Massimo Cacciari che disse: “Odio la retorica del “che bello stare a casa”. Penso a quelli che vivono in 5 in 50 metri quadri”?

Allora, può essere di interesse qualche riflessione sulla casa e sui suoi nemici.

Prendiamola da lontano. Una delle frasi più citate e, ammettiamolo, anche più abusate dell’amato J.R.R. Tolkien negli ambienti “identitari” è: “Le radici profonde non gelano” (“Deep roots are not reached by the frost”).
Non viene mai citata la fonte precisa, ma è tratta dal Signore degli Anelli, in particolare dal primo libro della trilogia: La Compagnia dell’Anello.

Certo è che questa frase rappresenta icasticamente la visione del mondo del pensiero identitario ed è questo il motivo del suo successo.
Il tema, l’immagine e il valore simbolico delle “radici” e del “radicamento”, è connaturato alla cultura di destra.
Alle “radici” si affiancano altri valori/immagini che “informano”, nel senso più profondo, questo mondo: l’identità, naturalmente, ma anche la Patria (la terra dei padri), la “piccola patria” (la Heimat dei nostri paesaggi e dei nostri campanili), la famiglia (ovviamente quella naturale) e quindi, eccoci al tema, la casa: la casa propria, talvolta la casa di famiglia, quella dove sono nati i nostri avi e i nostri genitori (oh, ne esistono ancora, e non poche).

La casa come dimora stabile, protetta da quei solidi muri tanto odiati da qualcuno, la casa cantata da Ezra Pound nel XLV Canto: “Con usura nessuno ha una solida casa / di pietra squadrata e liscia / per istoriarne la facciata”.
Non è un caso che l’epopea di J.R.R. Tolkien inizi, ne Lo Hobbit, con la descrizione della casa di Bilbo: “…comodissima […] con le pareti foderate in legno e pavimento di piastrelle, lussuosa”. Costruita da suo padre, Bungo, poi da Bilbo passata a Frodo e da questi a Sam Gangee. E la storia si conclude con il ritorno di Sam in quella casa, dalla moglie e dalla figlia, con un significativo e struggente “Sono tornato” dell’ultima riga de Il Signore degli Anelli.
Non è un caso che, quando Saruman-Sharkey nell’ultima parte del libro occupa la Contea, cacci gli hobbit dalle loro case: “La graziosa fila di antiche caverne hobbit sull’argine nord del lago era in uno stato di miserevole abbandono e i loro giardinetti che prima scendevano allegri e vivaci sino al bordo dell’acqua erano pieni di erbacce”.
Gli abitanti della Contea vengono deportati in orribili falansteri collettivi: “Peggio ancora, vi era un’intera fila di case nuove lungo la riva del lago.
Ecco la Modernità.

La casa, quindi, come simbolo di stabilità, di protezione dei valori familiari, di radici, come antitesi e antidoto all’isterica, frenetica, patologica mobilità delle persone vista come valore contemporaneo, allo sradicamento culturale prima ancora che geografico, a una movida esistenziale di cui non si percepisce il lato patologico di malattia sociale e individuale.
Anche l’avventura e il viaggio necessitano di, e ricevono il senso da, un ritorno a casa. La casa che chiediamo al nostro parroco di benedire, spesso invano, perché costui ha ben altro da fare che prestarsi a queste superstizioni preconciliari, meglio benedire le coppie di invertiti, ad esempio.
Quella casa per cui Beethoven ha scritto uno dei suoi brani più belli, l’ouverture “La Consacrazione della Casa”.

È il cosmopolitismo la vera antitesi della casa. Quel cosmopolitismo ottusamente orgoglioso di sé della tristissima Generazione Erasmus, che è anche il titolo di un libro di Paolo Borgognone: “La Generazione Erasmus è sostanzialmente un soggetto e un oggetto della narrazione anarco-individualista del capitalismo contemporaneo”.
Quell’Erasmus godereccio e pecoreccio (qualcuno lo ha definito Ergasmus), deresponsabilizzante, una sorta di “giochi senza frontiere esistenziale”.

Quel cosmopolitismo tanto adorato dai ragazzotti, emigrati o Londoner, che, raccontava affranto Beppe Severgnini, così frignavano dopo la vittoria britannica nel referendum sulla Brexit: “La mia generazione, soprattutto a Londra, dava per scontato di vivere in un paese cosmopolita.”

Scriveva Tolkien in una delle sue lettere: “trovo questo cosmopolitanesimo americano terrificante.

Quella generazione liberal che non si sente figlia di una Heimat o di una Patria, ma di un’epoca. La loro casa di millennial è necessariamente piccola e in affitto, certo per motivi economici, ma anche perché “tanto non ci sto mai”, spesso in obbligata coabitazione e con il trolley (che è il vero simbolo di questo tempo e di questa generazione) sempre pronto.
Quale solida visione del proprio futuro si può avere senza che vi sia una possibilità, un progetto, una speranza per una propria casa?

Uno dei più formidabili fattori e moltiplicatori di ripresa nel nostro secondo dopoguerra, ripresa che ci porterà al “miracolo economico” degli anni ’50 e ’60, fu il piano INA-Casa, detto anche “piano Fanfani”.
Ora, di Amintore Fanfani non abbiamo una buona opinione: lo riteniamo giustamente uno degli esponenti, con Moro, Dossetti e La Pira, della Democrazia Cristiana di sinistra, fautore di quella sciagurata “apertura a sinistra” che tanto male fece all’Italia: governi con il Partito Socialista, poi accordi con i comunisti, strapotere sindacale, esplosione del debito pubblico, egemonia culturale delle sinistre.

Tuttavia, la personalità e il pensiero di Fanfani erano più complessi.
Tralasciando il fatto che fu l’unico esponente democristiano di un certo peso ad impegnarsi seriamente nel referendum contro il divorzio, non dobbiamo dimenticare che, docente di Storia delle Dottrine Economiche fu, prima della guerra e assieme a Padre Agostino Gemelli, un convinto sostenitore e studioso del Corporativismo, che riteneva uno strumento di quella giustizia insita nella Dottrina Sociale della Chiesa.
Era fautore di una “terza via” tra capitalismo (che non amava) e comunismo e di un “sovranismo cattolico”. Il suo pensiero è ben illustrato da un libro di Gianfranco Peroncini, Il pane quotidiano. Fanfani e il sovranismo cattolico, edito da La Vela.

Nel dopoguerra, in un Italia distrutta, con milioni di senzalavoro e senzatetto, le città disastrate dai criminali bombardamenti terroristici del “liberatori”, Fanfani ideò e attuò un piano per costruire, con finanziamenti misti, case di qualità da mettere a disposizione, “a riscatto”, ai ceti meno abbienti, ma anche piccolo-borghesi: condomini, casette unifamiliari con giardinetti e orti che ancora oggi, magari ben ristrutturate e trasformate in villette da classe media, possiamo vedere nelle nostre città in quelle che all’epoca erano periferie, ma che oggi non lo sono più.
I migliori architetti dell’epoca parteciparono ai bandi: Diotallevi, lo studio BBPR, Gardella, Sottsass.

Alla fine dei quattordici anni del Piano, nel 1963, erano stati costruiti 355.000 alloggi per complessivi due milioni di vani e creati migliaia di posti di lavoro.
Su tutti gli edifici vennero apposte targhe in ceramica policroma dedicate al tema della casa come luogo felice.
D’altronde, questo piano non rappresentò che una continuazione, in un diverso contesto, della politica del precedente regime, che inventò le “case popolari”: Mussolini definì “case popolarissime” piccoli edifici unifamiliari con giardinetto e orticello e auspicò che ognuno “fosse il padrone della propria casa”.

L’INA-Casa non fu solo un piano di edilizia ricostruttiva, ma soprattutto di ingegneria sociale: centinaia di migliaia di famiglie divennero proprietarie e quindi molto meno sensibili alle lusinghe comuniste: essere proprietari, anche di un piccolo alloggio, contribuisce ad immunizzare dal disvalore del collettivismo. L’aveva capito G.K. Chesterton che, con il suo distributismo, voleva “un popolo di proprietari”.

Il possesso di una casa radica, favorisce la costituzione delle famiglie, evita il nomadismo cosmopolita che distrugge identità e legami, responsabilizza rispetto alla conservazione del territorio e del paesaggio, favorisce la costituzione dello spirito di comunità.
Un paesaggio di case in proprietà è più bello, più pulito, più sano, più conservato, più protetto. Le particolarità architettoniche e culturali locali e tradizionali sono meglio difese dall’aggressione omologante e abbruttente di archistar e urbanisti infoiati di modernismo.
In una casa in proprietà chi l’abita è molto più propenso a manutenerla e migliorarla. E gli Italiani, appena possono, la casa se la comprano o, ed è assai significativo, la comprano per i loro figli.
Più di sette connazionali su dieci vivono in case di proprietà, percentuale tra le più alte in Europa.

Anche Giorgia Meloni, nel suo recente intervento al Meeting di Rimini, ha gigioneggiato furbescamente anticipando la proposta, peraltro assai indeterminata nei contenuti, di un “Piano Casa” per l’acquisto facilitato della casa per le giovani coppie che richiama anche nel nome quello fanfaniano.

Ovviamente i grandi potentati della finanza, l’Unione Europea, le multinazionali, i mondialisti, i liberal cosmopoliti di ogni risma che ci vogliono sradicati per meglio asservirci, i no border, gli intellò progressisti invece odiano la proprietà della casa, la vorrebbero abolita o quanto meno ostacolata e ipertassata.
Il presidente di Confedilizia ha denunciato, qualche tempo fa, che l’aumento delle imposte sugli immobili degli ultimi anni ha fatto perdere al nostro patrimonio edilizio almeno il 30% del suo valore.


E poi c’è il delinquenziale assalto euro-ecologista con la sciagurata direttiva UE sulle case green che ci costringeranno a spendere decine, se non centinaia, di migliaia di euri per appartamenti medi o a farceli espropriare per farli finire nelle grinfie delle multinazionali del real state.
Una vera e propria aggressione alle famiglie italiane e alle loro proprietà.

L’odio dei “poteri forti” per la proprietà familiare della casa venne ben spiegato, qualche anno fa, da un significativo, acidissimo articolo de The Economist, l’organo ufficioso del neo-capitalismo liberal, sradicante e apatride.
Secondo questo foglio: “l’ossessione occidentale delle case in proprietà” sarebbe “un orrendo abbaglio”. Possedere una casa “mette a rischio la crescita, l’equità e la fede pubblica nel capitalismo”. Testuale.

Il possesso di case in USA, ad esempio, ha “frenato le migrazioni interne”, danneggiando il pronto reperimento di sfruttati per la produzione delocalizzata.

Già: ci vogliono tutti senza radici, mobili, “migranti interni” pronti a correre là dove il supercapitalismo decide di produrre.
Inoltre, The Economist denunciava indignato che c’è una correlazione tra “il mercato immobiliare e il populismo”. Ecco i maledetti piccoli borghesi con casetta in proprietà che votano per i partiti populisti e di destra.

Per fortuna, concludeva l’organo del più scatenato estremismo liberal, “che le persone più giovani siano meno interessate a possedere una casa. Molti millennial desiderano una vita ad assetto leggero, in cui noleggiare auto, musica e vestiti piuttosto che possederli. Perché non potrebbe essere così anche per la casa?”.

È lo slogan che abbiamo visto scritto sulle vetturette per il car rent, quando andava di moda, lasciate nelle strade: “Proud to share”, “Orgogliosi di condividere”, espressione tra le più becere del cretinismo affittuario.

Ed era la minaccia di Klaus Schwab, fondatore e già a capo del Word Economic Forum, oggi travolto dagli scandali, dalle ruberie e dalle truffe: “Non possiederete nulla e sarete felici”.





 
ottobre 2025
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