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| Lievito di pace e speranza? No, di confusione. ![]() Assemblea sinodale Guardiamo alla Germania. Ormai è chiaro che, attraverso il processo del cosiddetto cammino sinodale, la Chiesa cattolica tedesca, dissanguata dalla perdita di fedeli, si trova in piena apostasia e sull’orlo dello scisma. Non uno scisma dalla chiesa vaticansecondista, s’intende, ma dall’unica Chiesa fondata da Cristo. E ora lo spirito della sinodalità sta cercando di distruggere anche la Chiesa italiana. Il 25 ottobre 2025, la terza Assemblea sinodale della Chiesa cattolica in Italia si è conclusa con l’approvazione a larga maggioranza di un documento finale, “Lievito di pace e di speranza”, il cui titolo più appropriato sarebbe “Lievito di confusione”. Presentato come pietra miliare nel “cammino di inclusione” della Chiesa, il testo è stato salutato con entusiasmo dal cardinale Matteo Zuppi (lo stesso Zuppi che ha partecipato alla farsesca messa tridentina in San Pietro, un bell’esempio di come questi gerarchi tengano a bada i tradizionalisti gettando loro qualche briciola liturgica e chiedendo in cambio l’accettazione della sinodalità): si tratterebbe di una ventata d’aria nuova, è stato detto, perché pone la “pari dignità in Cristo” al centro della visione ecclesiale. Ma per i fedeli che, come direbbe Prezzolini, non se la bevono, le conclusioni dell’assemblea sinodale italiana non costituiscono un rinnovamento della vita della Chiesa. In realtà si tratta di un altro passo lungo il sentiero, ormai ben tracciato, dell’ambiguità, dell’orizzontalità e dell’adattamento allo spirito dei tempi: ovvero del suicidio. L’espressione “pari dignità in Cristo” è il solito fumo negli occhi. Certamente è vero che tutti i battezzati condividono una dignità soprannaturale in quanto membri del Corpo Mistico di Cristo. Ma il documento va oltre – troppo oltre – suggerendo che questa uguaglianza richiede una riconfigurazione dei ruoli e delle responsabilità all’interno della Chiesa. Il testo insiste sul fatto che le donne non devono più essere “destinatarie” ma “protagoniste” nella vita della Chiesa, invocando una “corresponsabilità” nel processo decisionale e nel ministero pastorale. Qui la tradizionale distinzione cattolica tra collaborazione e governo – tra la partecipazione dei laici e la sacra autorità dei sacerdoti ordinati – viene sottilmente, ma significativamente, offuscata. Questo linguaggio è in contrasto con l’insegnamento di Papa Pio XII, che nella “Mystici Corporis Christi” afferma che la Chiesa è una società gerarchica, divinamente costituita e non soggetta all’egualitarismo umano. L’ordine della grazia non abolisce la distinzione, la santifica. Parlando di corresponsabilità come di un “diritto battesimale”, il Sinodo mina la natura sacramentale del sacerdozio. La distinzione tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale degli ordinati – finora preservata nella dottrina cattolica – si perde nella nebbia della retorica partecipativa. “Ordinatio sacerdotalis” (1994) ha ribadito una volta per tutte che la Chiesa non ha alcuna autorità per conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne. Qualsiasi insinuazione secondo cui le donne possano condividere equamente il governo o il ministero rischia di contraddire questo insegnamento definitivo. Da una prospettiva cattolica, “Lievito di pace e di speranza” prosegue quindi la tendenza postconciliare a confondere complementarietà con uguaglianza, sostituendo la bellezza dell’ordine divino con la monotona uniformità dell’egualitarismo funzionale. Il passaggio più inquietante del documento esorta le Chiese locali a “promuovere il riconoscimento e l’accompagnamento pastorale delle persone omosessuali e transgender”, e anche qui c’è da distinguere. Sebbene la compassione verso ogni peccatore sia essenziale alla carità cristiana, la Chiesa non può affermare un’identità radicata in quello che per la retta dottrina è disordine. Parlare di “persone LGBTQ+” come portatrici di “doni” significa adottare un’antropologia secolare che nega la realtà della creazione divina di uomo e donna. La Chiesa accoglie le persone con attrazione per lo stesso sesso o con confusione di genere, ma con l’obiettivo della conversione, non della rivendicazione. Come insegna il Catechismo, gli atti omosessuali sono “intrinsecamente disordinati” e “contrari alla legge naturale”. La cura pastorale deve condurre le anime al pentimento e alla santificazione, non alla falsa pace dell’accettazione di sé senza la grazia. “Lievito di pace e di speranza” chiede l’adozione di un “linguaggio di ascolto e tenerezza”, aspirazione condivisibile se ordinata alla verità. Ma la tenerezza separata dalla conversione è sentimentalismo, non misericordia. Cristo ha accolto i peccatori, ma sempre con le parole: “Va’ e non peccare più”. Sostituendo l’appello al pentimento con il vocabolario dell’“inclusione”, il Sinodo fa propria la tendenza condannata da san Pio X nella “Pascendi Dominici gregis”: lo sforzo modernista di rimodellare la dottrina attorno all’esperienza soggettiva piuttosto che alla rivelazione oggettiva. Il ripetuto richiamo del documento al “camminare insieme” e alla “corresponsabilità” è talmente insistente da provocare nausea, ma soprattutto rivela un’ecclesiologia che pende verso la categoria politica della democratizzazione. L’autorità è presentata come consultiva piuttosto che gerarchica, il discernimento come collettivo piuttosto che magisteriale. Ma la Chiesa cattolica non è un parlamento di opinioni; è un organismo soprannaturale con Cristo come Capo. Il sensus fidelium non crea la verità: la riceve. Quando la sinodalità diventa il mezzo attraverso cui la dottrina viene “sviluppata”, la Chiesa rischia di scambiare la voce della Rivelazione con il meccanismo del consenso. Il documento incoraggia anche il sostegno a “giornate” civiche contro “omofobia” e “transfobia”, e ancora una volta siamo di fronte a distorsione e ambiguità. Certo, dobbiamo opporci a violenza e ingiustizia, ma presentare la questione in questi termini introduce nella Chiesa un bagaglio ideologico estraneo alla teologia morale cattolica. La Chiesa condanna il peccato e invoca la virtù, non si riconosce negli slogan dell’attivismo laico. Adottando il vocabolario del mondo, la Chiesa ne adotta l’antropologia e perde sé stessa. “Lievito di pace e di speranza” si presenta come un soffio di rinnovamento, ma in fondo non è che l’ultima versione della narrazione postconciliare. Sostiene che la Chiesa per sopravvivere deve “ascoltare”, “accogliere” e “includere”. Ma una Chiesa che non chiama più le anime al pentimento non è più missionaria. Una Chiesa che dimentica la suddivisione gerarchica non è più cattolica. Una Chiesa che cerca la pace senza la verità non è più la Sposa di Cristo. Il vero lievito di pace e speranza non è l’inclusività, ma la santità. Non abbiamo bisogno di una Chiesa che rispecchi la fragilità del mondo, ma di una Chiesa che offra la luce guaritrice di Cristo: chiara, senza compromessi ed eterna. “Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente” (Romani 12:2). Sembra ormai probabile che l’Italia, sulle orme della Germania, sarà la prossima tessera del domino. Ovviamente con l’incoraggiamento da parte di Prevost o della maggior parte dei vescovi. E il tutto sembrerà così normale che i cattolici addormentati, cullati dalla ninna nanna sinodale, non se ne accorgeranno nemmeno. |