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Contro-rivoluzione liturgica Il caso “silenziato” di Padre Calmel ![]() Religioso domenicano e teologo tomista di non comune spessore, direttore di anime apprezzato e ricercato su tutto il suolo francese, scrittore cattolico d’una logica stringente e d’una chiarezza inequivocabile, padre Roger-Thomas Calmel (1914-1975) negli anni ruggenti del Concilio e del post-concilio si distinse per la sua azione controrivoluzionaria esercitata – attraverso la predicazione, gli scritti e soprattutto l’esempio – sia sul piano dottrinale sia su quello liturgico. Ma su un punto ben preciso la resistenza di questo figlio di san Domenico raggiunse l’eroismo: la Messa, poiché è sulla redenzione operata da Cristo sul Calvario e perpetuata sugli altari che si fonda la Fede cattolica. Il 1969 fu l’anno fatidico della rivoluzione liturgica, lungamente preparata e infine imposta d’autorità ad un popolo che non l’aveva chiesta né la desiderava. La nascita della nuova Messa non fu pacifica. A fronte dei canti di vittoria dei novatores, vi furono le voci di chi non voleva calpestare il passato quasi bimillenario di una Messa che risaliva alla tradizione apostolica. Questa opposizione ebbe il sostegno di due cardinali di Curia (Ottaviani e Bacci), ma rimase del tutto inascoltata. L’entrata in vigore del nuovo Ordo Missae era fissata per il 30 novembre, prima domenica d’Avvento, e le opposizioni non tendevano a placarsi. Lo stesso Paolo VI, in due udienze generali (19 e 26 novembre 1969), intervenne presentando il nuovo rito della Messa come volontà del Concilio e come aiuto alla pietà cristiana. Il 26 novembre il Papa disse: “Nuovo rito della Messa: è un
cambiamento, che riguarda una venerabile tradizione secolare, e
perciò tocca il nostro patrimonio religioso ereditario, che
sembrava dover godere d’un’intangibile fissità, e dover portare
sulle nostre labbra la preghiera dei nostri antenati e dei nostri
Santi, e dare a noi il conforto di una fedeltà al nostro passato
spirituale, che noi rendevamo attuale per trasmetterlo poi alle
generazioni venture. Comprendiamo meglio in questa contingenza il
valore della tradizione storica e della comunione dei Santi. Tocca
questo cambiamento lo svolgimento cerimoniale della Messa; e noi
avvertiremo, forse con qualche molestia, che le cose all’altare non si
svolgono più con quella identità di parole e di gesti,
alla quale eravamo tanto abituati, quasi a non farvi più
attenzione. Questo cambiamento tocca anche i fedeli, e vorrebbe
interessare ciascuno dei presenti, distogliendoli così dalle
loro consuete devozioni personali, o dal loro assopimento abituale. …”.
E proseguiva dicendo che bisogna comprendere il significato
positivo delle riforme e fare della Messa “una tranquilla ma impegnativa palestra di
sociologia cristiana”.“Sarà bene – avvertiva Paolo
VI nella medesima udienza – che ci
rendiamo conto dei motivi, per i quali è introdotta questa grave
mutazione: l’obbedienza al Concilio, la quale ora diviene obbedienza ai
Vescovi che ne interpretano e ne eseguiscono le prescrizioni…”.
Per sedare le opposizioni al Papa non rimaneva che l’argomento di autorità. Ed è su questo argomento che si giocò tutta la partita della rivoluzione liturgica. Padre Calmel, che con i suoi articoli fu assiduo collaboratore della rivista Itinéraires, aveva già affrontato il tema dell’obbedienza, divenuto nel post-concilio l’argomento di punta dei novatores. Ma, egli affermava, è esattamente in virtù dell’obbedienza che bisogna rifiutare ogni compromesso con la rivoluzione liturgica: “Non si tratta di fare uno scisma ma di
conservare la tradizione”.
Con sillogismo aristotelico faceva notare: “L’infallibilità del Papa è
limitata, dunque la nostra obbedienza è limitata”,
indicando il principio della subordinazione dell’obbedienza alla
verità, dell’autorità alla tradizione.
La storia della Chiesa ha casi di santi che furono in contrasto con l’autorità di papi che non furono santi. Pensiamo a sant’Atanasio scomunicato da papa Liberio, a san Tommaso Becket sospeso da papa Alessandro III. E soprattutto a santa Giovanna d’Arco. Il 27 novembre 1969, tre giorni prima della data fatidica in cui entrò in vigore il Novus Ordo Missae, padre Calmel espresse il suo rifiuto con una dichiarazione d’eccezionale portata, resa pubblica sulla rivista Itinéraires. “Mi attengo alla Messa tradizionale –
dichiarò –, quella che fu codificata, ma non fabbricata, da San
Pio V, nel XVI secolo, conformemente ad un uso plurisecolare. Rifiuto
dunque l’Ordo missae di Paolo VI.
Perché? Perché, in realtà, questo Ordo Missae non esiste. Ciò che esiste è una rivoluzione liturgica universale e permanente, permessa o voluta dal Papa attuale, e che riveste, per il momento, la maschera dell’Ordo Missae del 3 aprile 1969. È diritto di ogni sacerdote rifiutare di portare la maschera di questa rivoluzione liturgica. E stimo mio dovere di sacerdote rifiutare di celebrare la messa in un rito equivoco. Se accettiamo questo nuovo rito, che
favorisce la confusione tra la Messa cattolica e la cena protestante –
come sostengono i due cardinali (Bacci e Ottaviani) e come dimostrano
solide analisi teologiche – allora passeremmo senza tardare da una
messa intercambiabile (come riconosce, del resto, un pastore
protestante) ad una messa completamente eretica e quindi nulla.
Iniziata dal Papa, poi da lui abbandonata alle Chiese nazionali, la
riforma rivoluzionaria della messa porterà all’inferno. Come
accettare di rendersene complici?
Mi chiederete: mantenendo, verso e contro tutto, la Messa di sempre, hai riflettuto a che cosa ti esponi? Certo. Io mi espongo, per così dire, a perseverare nella via della fedeltà al mio sacerdozio, e quindi a rendere al Sommo Sacerdote, che è il nostro Giudice supremo, l’umile testimonianza del mio ufficio sacerdotale. Io mi espongo altresì a rassicurare dei fedeli smarriti, tentati di scetticismo o di disperazione. Ogni sacerdote, in effetti, che si mantenga fedele al rito della Messa codificata da San Pio V, il grande Papa domenicano della controriforma, permette ai fedeli di partecipare al santo Sacrificio senza alcun possibile equivoco; di comunicarsi, senza rischio di essere ingannato, al Verbo di Dio incarnato e immolato, reso realmente presente sotto le sacre Specie. Al contrario, il sacerdote che si conforma al nuovo rito, composto di vari pezzi da Paolo VI, collabora per parte sua ad instaurare progressivamente una messa menzognera dove la Presenza di Cristo non sarà più autentica, ma sarà trasformata in un memoriale vuoto; perciò stesso, il Sacrificio della Croce non sarà altro che un pasto religioso dove si mangerà un po’ di pane e si berrà un po’ di vino. Nulla di più: come i protestanti. Il rifiuto di collaborare all’instaurazione rivoluzionaria di una messa equivoca, orientata verso la distruzione della Messa, a quali disavventure temporali, a quali guai potrà mai portare? Il Signore lo sa: quindi, basta la sua grazia. In verità, la grazia del Cuore di Gesù, derivata fino a noi dal santo Sacrificio e dai sacramenti, basta sempre. È perciò che il Signore ci dice così tranquillamente: “Colui che perde la sua vita in questo mondo per causa mia, la salverà per la vita eterna”. Riconosco senza esitare l’autorità
del Santo Padre. Affermo tuttavia che ogni Papa, nell’esercizio della
sua autorità, può commettere degli abusi
d’autorità. Sostengo che il papa Paolo VI ha commesso un abuso
d’autorità di una gravità eccezionale quando ha costruito
un nuovo rito della messa su una definizione della messa che ha cessato
di essere cattolica. “La messa – ha scritto nel suo Ordo Missae –
è il raduno del popolo di Dio, presieduto da un sacerdote, per
celebrare il memoriale del Signore”. Questa definizione insidiosa
omette a priori ciò che fa la Messa cattolica, da sempre e per
sempre irriducibile alla cena protestante. E ciò perché
per la Messa cattolica non si tratta di qualunque memoriale; il
memoriale è di tal natura che contiene realmente il sacrificio
della Croce, perché il Corpo e il Sangue di Cristo sono resi
realmente presenti in virtù della duplice consacrazione. Ora,
mentre ciò appare così chiaro nel rito codificato da San
Pio V da non poter esser tratti in inganno, in quello fabbricato da
Paolo VI rimane fluttuante ed equivoco. Parimenti, nella Messa
cattolica, il sacerdote non esercita una presidenza qualunque: segnato
da un carattere divino che lo introduce nell’eternità, egli
è il ministro di Cristo che fa la Messa per mezzo di lui; ben
altra cosa è assimilare il sacerdote a un qualunque pastore,
delegato dai fedeli a mantenere in buon ordine le loro assemblee.
Orbene, mentre ciò è certamente evidente nel rito della
Messa prescritta da San Pio V, è invece dissimulato se non
addirittura eliminato nel nuovo rito.
La semplice onestà quindi, ma infinitamente di più l’onore sacerdotale, mi chiedono di non aver l’impudenza di trafficare la Messa cattolica, ricevuta nel giorno della mia ordinazione. Poiché si tratta di essere leale, e soprattutto in una materia di una gravità divina, non c’è autorità al mondo, fosse pure un’autorità pontificale, che possa fermarmi. D’altronde, la prima prova di fedeltà e d’amore che il sacerdote deve dare a Dio e agli uomini è quella di custodire intatto il deposito infinitamente prezioso che gli fu affidato quando il Vescovo gl’impose le mani. È anzitutto su questa prova di fedeltà e d’amore che io sarò giudicato dal Giudice supremo. Confido che la Vergine Maria, Madre del Sommo sacerdote, mi ottenga la grazia di rimanere fedele fino alla morte alla Messa cattolica, vera e senza equivoco. Tuus sum ego, salvum me fac (sono tutto vostro, salvatemi)”. Di fronte a un testo di tale spessore e ad una presa di posizione così categorica, tutti gli amici e i sostenitori di padre Calmel tremarono, attendendo da Roma le più dure sanzioni. Tutti, tranne lui, il figlio di san Domenico, che continuava a ripetere: “Roma non farà niente, non farà niente…”. E difatti Roma non fece nulla. Le sanzioni non arrivarono. Roma tacque davanti a questo frate domenicano che non temeva nulla se non il Giudice supremo a cui doveva render conto del suo sacerdozio. Altri sacerdoti, grazie alla dichiarazione di padre. Calmel, ebbero il coraggio di uscire allo scoperto e di resistere ai soprusi di una legge ingiusta e illegittima. Contro coloro che raccomandavano l’obbedienza cieca alle autorità, egli mostrava il dovere dell’insurrezione. “Tutta la condotta di santa Giovanna d’Arco
mostra che ella ha pensato così: Certo, è Dio che lo
permette; ma ciò che Dio vuole, almeno finché mi
resterà un esercito, è che io faccia una buona battaglia
e giustizia cristiana. Poi fu bruciata […]. Rimettersi alla grazia di Dio non
significa non far nulla. Significa invece fare, rimanendo nell’amore,
tutto ciò che è in nostro potere […]. A chi non abbia meditato sulle giuste
insurrezioni della storia, come la guerra dei Maccabei, le cavalcate di
santa Giovanna d’Arco, la spedizione di Giovanni d’Austria, la
rivolta di Budapest, a chiunque non sia entrato in sintonia con le
nobili resistenze della storia […] io rifiuto il diritto di parlare di
abbandono cristiano […] l’abbandono
non consiste nel dire: Dio non vuole la crociata, lasciamo fare ai
Mori. Questa è la voce della pigrizia”.
Non si può confondere l’abbandono soprannaturale con una supina obbedienza. “Il dilemma che si pone a tutti –
avvertiva padre Calmel – non
è di scegliere tra l’obbedienza e la fede, ma tra l’obbedienza
della fede e la collaborazione con la distruzione della fede”.
Tutti noi siamo invitati a fare “nei
limiti che ci impone la rivoluzione, il massimo di ciò che
possiamo fare per vivere della tradizione con intelligenza e fervore.
Vigilate et orate”.
Padre Calmel aveva compreso perfettamente che la forma di violenza esercitata nella “Chiesa post-conciliare” è l’abuso di autorità, esplicato esigendo un’obbedienza incondizionata. Alla quale i chierici e molti laici si piegarono senza tentare alcuna forma di resistenza. “Questa assenza di reazione – notava Louis Salleron – mi pare tragica. Perché Dio non salva i cristiani senza di essi, né la sua Chiesa senza di essa”. “Il modernismo fa camminare le sue vittime
sotto il vessillo dell’obbedienza – scriveva il religioso
domenicano–, ponendo sotto sospetto
di orgoglio qualunque critica delle riforme, in nome del rispetto che
si deve al papa, in nome dello zelo missionario, della carità e
dell’unità”.
Quanto al problema dell’obbedienza in materia liturgica,
padre Calmel osservava: “La questione dei nuovi riti consiste nel
fatto che sono ambivalenti: essi perciò non esprimono in modo
esplicito l’intenzione di Cristo e della Chiesa. La prova è data
dal fatto che anche gli eretici l’usano con tranquillità di
coscienza, mentre rigettano e hanno sempre rigettato il Messale di san
Pio V”. “Bisogna essere o
sciocchi o paurosi (o l’uno e l’altro insieme) per considerarsi legati
in coscienza da leggi liturgiche che cambiano più spesso della
moda femminile e che sono ancora più incerte”.
Nel 1974 in una conferenza diceva: “La Messa appartiene alla Chiesa. La nuova
Messa non appartiene che al modernismo. Mi attengo alla Messa
cattolica, tradizionale, gregoriana, poiché essa non appartiene
al modernismo […]. Il
modernismo è un virus. È contagioso e bisogna fuggirlo.
La testimonianza è assoluta. Se rendo testimonianza alla Messa
cattolica, occorre che io mi astenga dal celebrarne altre. È
come l’incenso bruciato agli idoli: o un grano o nulla. Dunque, nulla”.
Nonostante l’aperta resistenza di padre Calmel contro le innovazioni liturgiche, da Roma non giunse mai alcuna sanzione. La logica del padre domenicano era troppo serrata, la sua dottrina troppo ortodossa, il suo amore alla Chiesa e alla sua perenne tradizione troppo leale perché lo si potesse attaccare. Non si intervenne contro di lui poiché non lo si poteva. Allora si avvolse il caso nel più omertoso silenzio, al punto che il teologo domenicano – noto, in parte, al mondo tradizionale francese – è pressoché sconosciuto nel resto dell’orbe cattolico. Nel 1975, padre Calmel si spegneva prematuramente, coronando il suo desiderio di fedeltà e di resistenza. Nella sua Dichiarazione del 1969 aveva chiesto alla Santissima Vergine di “rimanere fedele fino alla morte alla Messa cattolica, vera e senza equivoco”. La Madre di Dio esaudì il desiderio di questo figlio prediletto che morì senza aver mai celebrato la Messa nuova per rimaner fedele al supremo Giudice al quale doveva rispondere del suo sacerdozio. (torna
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febbraio 2014 |