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| CONFUTAZIONE DELLE TEORICHE DELLA VERITÀ RELATIVA E PROGRESSIVA di Can. Gaetano Sanseverino Estratto dal libro
I principali sistemi della filosofia sul criterio discussi con le dottrine dei Santi Padri e dei dottori del Medioevo ![]() Canonico Gaetano Sanseverino Si riduce ad alcuni capi l’esame delle teoriche sul vero relativo e progressivo. Il vero è assoluto e immutabile, 1º perché Dio e non l’uomo è la misura del vero. Sentenze di Platone, di Eusebio, di s. Agostino e di s. Anselmo su tal punto. Profonda argomentazione di s. Tommaso. 2º Perché nelle cose vi ha sempre un principio immutabile che è il fondamento proprio del vero. Si stabilisce esservi nelle cose elementi mutabili ed immutabili e si mostra, come la mutazione nelle cose sarebbe impossibile, se non vi fosse in loro un principio permanente ed immutabile. Dottrina di Aristotele su tal punto con le chiose fattevi sopra da s. Tommaso; alcuni bei luoghi di s. Agostino; epoche parole di Rosmini. Si chiarisce coll’Aquinate, come la scienza versa propriamente su gli elementi immutabili delle cose. 3º Perché la teorica del vero relativo e progressivo mena allo scetticismo, al panteismo, e al nullismo. Belle argomentazioni di Platone, di Aristotele, di Eusebio, di s. Agostino e di s. Tommaso. Chiunque ha meditato per poco le anzidette teoriche della verità relativa, e progressiva, ha dovuto scorgere esser esse cosiffatte da non potersi miga intendere senza l’altra della mutabilità delle essenze delle cose, che ne è il puntello, e che professata apertamente dagli antichi Sofisti, dee prestar base e principio a tutti gli svariati sistemi dei Progressisti moderni. In breve, al dogma della mutabilità del vero dee andare innanzi il presupposto della mutabilità delle essenze. Quindi, a dar fermo e convenevole giudizio della presente controversia, non basta considerare la scienza in ordine all’intelletto, ma è mestieri disaminarla principalmente in ordine all’obbietto; onde, sebbene i Progressisti dei nostri tempi non fondassero la mutabilità del vero nella natura mutabile delle cose, non è possibile definire, se il vero è mutabile o no, se prima di ogni altro non s’istituisca la medesima quistione intorno alla natura delle cose. Però, indagheremo primamente se le essenze delle cose sieno mutabili, o immutabili, e quindi definiremo se il vero possa dirsi mutabile e progressivo; indi trapasseremo a vedere se sia alcun progresso possibile nella scienza; ultimamente cercheremo, se vi sia stato, o possa darsi mai cangiamento o progresso in fatto di religione. Quanto è alla prima parte, chi non voglia cader nell’assurdo dei moderni panteisti tedeschi, di reputare cioè la mente umana creatrice dell’essere delle cose, non può dubitare che nel fatto della conoscenza la misura è negli obbietti. Conciossiaché, se alla mente umana non arriva notizia delle cose, se non quando già sono state prodotte, dimorando la conoscenza nell’adeguatezza del pensiero coll’obbietto, è chiaro che essa è dipendente da loro. Or, ciò che dipende da altre, certo non è misura di quel da cui dipende, ma è misurato da esso; la mente umana quindi non è misura delle cose conosciute, sì bene ne è misurata. Questo indubitabile vero, posto in piena luce da filosofi cristiani, non sfuggì a quanti dei filosofi pagani ebbero, a preferenza degli altri, voce di sapienti. Imperciocchè sebbene anche tra costoro non fossevi un solo che traveduto avesse il dogma della creazione; pur non di meno aggiustandosi essi più che gli altri al vero, ebbero predicato Dio misura di tutte le cose che sono. Valga per tutti Platone, il quale nel quarto delle Leggi scrisse che «Dio senza dubbio è massimamente la misura di tutte le cose, e molto più, come da taluno si dice, di ciascun uomo» [1]. Per ciò, egli conformemente al suo sistema, più volte affermò non potere la mente umana per altra via giungere alla conoscenza del vero, che col torcere lo sguardo dalle cose sensate, e indirizzarlo al Bene, fonte di ogni essere, cioè a Dio. Basti pei molti questo luogo tolto dal settimo della Repubblica: «La presente disputa rende aperto, che questa forza la quale è nell’animo, ed è strumento a ciascuno ad imparare, debba insieme con tutto l’animo torcere lo sguardo da ciò che è generato; sicché divenga potente a contemplare quel che è, e quel che sfolgora di massima luce in esso, cioè quel che abbiamo chiamato bene; siccome niuno può rivolgere l’occhio da un luogo oscuro alla luce, se non con tutto il corpo». Di che si comprende, come il Filosofo ateniese definisse la filosofia un rotearsi, od aggirarsi della mente intorno a Dio, ovvero un ritorno a Dio [2]. Che se i Sofisti furono venuti in tutt’altra sentenza, s. Tommaso ha ben cercato e trovatone l’addentellato nell’assurda loro ipotesi dell’atomismo. «Gli antichi filosofi, così egli, avvisando le spezie delle cose naturali non dipendere da intelletto di sorta, ma originare dal caso, e facendo ragione non potere esservi verità senza relazione ad un intelletto, erano obbligati a riporla nel suo ordine con l’intelletto umano» [3]. Per contrario, i filosofi cristiani istruiti, per la rivelazione della verace origine delle cose, tutti di unanime con sentimento insegnarono, la verità delle cose non dipendere dalla mente umana, ma dall’intelletto di Dio, epperò Dio esser l’unica misura del vero, come è l’unico fonte dell’essere. Eusebio nella sua Preparazione Evangelica ben dichiara, come la mente umana non produce la verità nelle cose, ma la riceve da loro. «Del resto, ei dice, vanno errati coloro che credono esser le cose quali ci appariscono, oveché in iscambio esse ci appariscono quali sono. E la ragione si è, che noi non siamo autori dell’essere delle cose, ma invece siamo da loro in maniera speciale impressionati [4]». Sant’Agostino ancora coll’usato suo nerbo e robustezza di dire, ribadì in più luoghi la medesima sentenza. «Ogni vero, ei dice, trae origine da Colui che disse: Io sono la verità» . E poco di poi: «Intenda ogni verace e dabben cristiano, che il vero si appartiene al suo Signore, in qualunque luogo gli si farà d’avanti [5]» . Ed altrove più chiaramente disse: « Essendoché la misura determina ogni cosa, ed il numero dà ad ogni cosa la sua specie, ed il peso rende quieta e stabile ogni cosa; misura, numero, e peso primamente, veramente, e in modo speciale è Colui per cui opera ogni cosa, possiede il suo (termine, la sua forma, ed il suo ordinamento [6]». E sant’Anselmo nel suo Dialogo intorno alla verità, di tratto in tratto ragionò, che se le cose son vere in quanto che sono, non può dubitarsi, che esse come l’essere, così ancora la verità si hanno da Dio: onde Egli è la somma e prima verità da cui ogni altro vero rampolla, egualmente che è il primo essere, fonte di tutti gli esseri. Ecco fra i molti un luogo del santo Dottore: «M. Credi tu forse esser qualcosa in alcun tempo o luogo, che non sia nella somma verità, e che non abbia ricevuto da questa tutto quello che è in quanto è, o vero che possa essere altro da quello che è ? - D.No, senza fallo. - M. Dunque quel che è, veramente è, in quanto è ciò che ivi è. -D. E si può conchiudere assolutamente, che tutto ciò che è, veramente è, perché non è altro da quel che ivi è. -M. E però, havvi verità nell’essenza di tutte le cose che sono, come quelle le quali sono ciò che sono nella somma verità [7]». Non occorre recare in mezzo altre testimonianze dei Padri su questo punto; attesoché la loro dottrina è stata maravigliosamente svolta e discussa da s. Tommaso. L’argomentazione del santo Dottore, a quel che ne abbiamo raccolto, può compendiarsi cosi: Nella verità vuol esservi sempre una relazione tra le cose e l’intelletto. Or, le cose possono riferirsi all’intelletto, o perché ne dipendono pell’essere, o perché ne sono conosciute. Nel primo caso la relazione è essenziale, nel secondo accidentale; a mo’ d’esempio, una casa si riferisce per sua natura all’intelletto dell’artefice che ne ha ideato il disegno, ed accidentalmente all’intelletto di colui che la conosce, essendoché , quanto al suo essere, non da chi la conosce, ma sì dalle forme innanzi concepite dall’intelletto del l’artefice dipende. Però è, che originando le cose dall’intelletto di Dio, come da loro cagione, tolgono da Lui la loro misura [8]. Laonde il santo Dottore recando in somma i riferimenti delle cose coll’intelletto di Dio e dell’uomo, conchiude: «Le cose naturali da cui l’intelletto riceve la scienza, misurano l’intelletto nostro, siccome si dice nel decimo delle cose Metafisiche; ma sono misurate dall’intelletto divino in cui sono tutte le cose create, siccome ogni opera di arte nella mente dell’artefice. Per tal guisa l’intelletto divino misura, e non è misurato; la cosa naturale misura, ed è misurata; l’intelletto nostro è misurato dalle cose naturali, e non misura che solo le cose artefatte» [9]. Essendo l’intelletto di Dio, e non già quello dell’uomo la misura delle cose, è agevole argomentare, che la verità delle cose è immutabile, siccome è immutabile l’intelletto di Dio da cui dipendono. Ma per ben comprendere ciò, vuolsi notare con Aristotele, là dove confuta il dogma del flusso perenne di Eraclito, che la mutazione nelle cose non potrebbe aver luogo, se non vi fosse in loro qualcosa d’immutabile; che le cose soggette a mutazione si mutano per rispetto alla quantità, essendo la quantità capace di aumento e di scemamento, ma non per rispetto alle essenze le quali sono sempre immutabili; che versando la scienza intorno all’essenza, e non agli accidenti, può esservi anche una scienza delle cose mutabili. «Ciò che si perde, ei dice, ha però qualcosa di ciò che si va perdendo, ed è necessario che qualcosa di ciò che si genera, già sia. E in somma, se qualche cosa si corrompe, vi avrà pure ad essere qualcosa che sia; e se qualcosa si genera, è necessario che sia così quello da cui, come quello mediante cui si genera, e che non si vada all’infinito. Ma lasciando stare questo, diciamo piuttosto, che il cangiare nella quantità non è lo stesso che il cangiare nella qualità. Sia pure che nella quantità non dura nulla: che fa? Noi conosciamo ogni cosa mediante la specie» [10]. San Tommaso, chiosando questo luogo dello Stagirita, conchiude: «Anche dato che tutte le cose per rispetto alla quantità sieno in continuo movimento, e che per ciò sempre ed insensibilmente si muovano; non però vuolsi comprendere in tal movimento eziandio la loro qualità, o essenza. Il che basta a rendere possibile una certa scienza delle cose; essendoché le cose anzi per la loro essenza, che per la loro quantità si conoscono» [11]. Il santo Dottore espose ed usò spesso ne’ suoi libri di questa dottrina peripatetica. Togliamone questo solo luogo dalla Somma: «Appartiene alla natura della mutazione, che lo stesso essere sia in un tempo altramente da quello che si era in un altro; essendoché essa si effettua, in quanto o lo stesso essere in atto è diversamente in tempi diversi, come avviene nella mutazione secondo la quantità e la qualità, o è lo stesso essere in potenza, come nella mutazione della sostanza, di cui la materia è il subbietto» [12]. Sant’Agostino divisò questo doppio elemento nelle cose, ed avvertì che non può esservi mutazione senza un principio immutabile. «Il corpo, ei disse, si muta secondo l’età, si muta al mutarsi dei luoghi e dei tempi, si muta per cagione delle malattie e dei difetti della carne. Né pure i corpi celesti sono stabili in sé, perocché hanno certi loro cangiamenti, sebbene occulti; senza fallo poi mutano del continuo luogo, salendo dall’oriente all’occidente, e nuovamente girando attorno all’oriente.... Ne manco l’anima umana sta. Ed in vero, per quanto vari modi ella non si muta? in quanto diversi pensieri non si avvolge? da quanto svariati piaceri non è sollucherata? da quanto enormi cupidigie non è sbattuta e lacerata? La stessa mente dell’uomo la quale dicesi razionale, è mutabile ... ; ché ora ella vuole, ora non vuole; ora sa, ora non sa; ora si ricorda, ora si dimentica; dunque non ha in se la fermezza sua» [13]. Ma se il santo Dottore vide mutazione in tutte le cose, altresì osservò in loro un principio immutabile. Infatti egli parte adottando, parte emendando la dottrina platonica delle idee, sentenziò, che sì le ragioni delle cose, si le leggi onde si governano, sono immutabili ed eterne, perché rispondono agl’immutabili ed eterni tipi della mente divina. «Per idee, ei dice, vuolsi intendere certe forme principali o certe ragioni ferme e immutabili delle cose, non fatte, e però eterne e sempre uniformi, le quali son comprese nell’intelligenza divina [14]» . Ed aggiugne: « Non si può senza ripudiare la religione, negare, che tutti i viventi vivono per la virtù di Dio, e la stabilità di tutte le cose, e lo stesso ordine con cui le cose, sottoposte a mutazione, compiono con una certa regola i loro corsi nel tempo, sussistono e governansi secondo le leggi del sommo Iddio» [15]. Molto acconciamente egli dichiarò nel secondo de’ Soliloquii la medesima dottrina, asseverando esservi in ogni subbietto qualità le quali non comportano verun cangiamento, ma devono sussistere nel subbietto, in sino a che il subbietto esiste, ed altre le quali possono disparire nel subbietto, senza che il subbietto stesso sparisca. «Il colore, egli dice, di questo corpo può cangiarsi o per cagione di salute, ovvero per età, rimanendo vivo ancora esso corpo. Ma ciò non ha luogo in tutte le affezioni del subbietto, sì in quelle le quali non si richiedono all’esistenza de’ subbietti. Ed in vero, questo colore che veggiamo in questo muro, non è cagione che questo muro sia muro; stanteché, anche divenendo bianco o nero, o avvicendandosi in esso alcun altro colore, non lascia di essere e di chiamarsi muro. Ma il fuoco, se perde il calore, non è più fuoco, nè possiamo dire una cosa neve, se non è bianca» [16]. Ancora ei si avvide, come ogni mutazione richiede un principio stabile e permanente. Egli venne acconcio, allorché ebbe mestiero di mostrare che il male sminuisce, non distrugge al tutto il bene nel subbietto. «Adunque tutte le nature sono buone, perché tutte quante sono fattura di un artefice sommamente buono; ma, non essendo tali, quale il loro architettore, supremamente ed immutabilmente buone, può in loro il bene sminuirsi, e aumentare. Or, il male dimora per appunto nello scemamento del bene; comeché, per quantunque scemi il bene, giuoco forza è, che, se la natura sussiste, ve ne resti qualcosa, donde è costituita la natura. Adunque ogni natura è un bene; un bene grande, se è incorruttibile, picciolo, se corruttibile; ma non si può senza nota di stoltezza e d’ignoranza negare, che sia un bene. Perché se la natura si perde con la corruzione, la stessa corruzione non sarà più, non potendo esservi corruzione dove non vi ha natura». Infatti, ei soggiunge, «se non vi fosse un subbietto corruttibile, la corruzione non potrebbe, non dico sussistere, ma neppure aver principio, essendo la corruzione un distruggimento del bene» [17]. Con simigliante argomentazione il Rosmini chiariva assurda la nozione del divenire di Hegel, la quale, come dicemmo, è il fondamento del protagorismo. «Il diventare ei dice, suppone l’essere che diventa un altro, e però l’essere precede il diventare; se precede il diventare stesso non può esser l’essere, ma cosa che sussegue all’essere [18]. Rendutosi manifesto, come la natura delle cose è immutabile, non è mestieri di troppo lungo discorso per dimostrare la immutabilità del vero. E senza fallo, la verità che è nell’intelletto nostro, detta logica, a differenza della metafisica che è nelle cose, è posta propriamente nell’adequatezza del concetto coll’obbietto. Quindi ella è propriamente, secondo la bella definizione di Isaac adottata e lodata da s. Tommaso, l’adequamento dell’intelletto con le cose, in quanto l’intelletto afferma essere ciò che è, e nonpuò essere ciò che non è [19]. Or, se si discorre delle cose individuali, non v’ha dubbio, che essendo esse a continui cangiamenti soggette, anche la verità dell’intelletto per rispetto a loro si muta; onde non è assurdo affermare o negare alcuna cosa di loro in tempi diversi. Di qui trasse origine l’errore di Protagora e dei rimanenti Sofisti, i quali tenendo ragione solo degl’individui, e non elevandosi alla considerazione delle loro generali relazioni, dissero il vero mutabile. Ma la controversia della mutabilità o immutabilità del vero riguarda l’essenza delle cose, ed i loro generali riferimenti, che sono l’obbietto proprio della scienza. Or, egli è indubitato, che essendo l’essenza delle cose immutabili, come innanzi vedemmo, anche la loro verità vuole essere immutabile. E il discorso, a quel che ci pare, viene in questi due termini: O il concetto corrisponde alla natura delle cose, significandola come è, oppur no. Nel primo caso la verità è immutabile, come immutabile è la natura, che si pone esserne l’obbietto; nel secondo mancando l’adequatezza del concetto con l’obbietto, non vi è verità, e quindi si è fuori di quistione. Però, con somma sapienza san Tommaso insegna potersi avere una conoscenza scientifica delle cose mutabili e contingenti, da che la scienza ha per obbietto la essenza delle cose e le generali relazioni, le quali sono. immutabili. «Nelle cose mutabili, ei dice, v’ha un’abitudine immutabile. Ad esempio, sebbene Socrate non segga sempre, pure è stabilmente vero, che quando siede, resta in un solo luogo. Donde si scorge, come può aversi una scienza stabile di cose non stabili». Ed altrove: «Anche le cose sottoposte a corruzione e generazione sono capaci di scienza, come la fisica; là dove non si considerino i particolari, sottoposti a generazione e corruzione, ma le loro ragioni universali le quali sono necessarie ed eterne». Ed in vero, egli aggiugne: « le scienze speculative considerano i contingenti solamente nelle loro regioni universali» [20]. Dopo tutto ciò non sarà inutile accennare alcune assurde conclusioni che, per tacer di altri, Eusebio, sant’Agostino, san Tommaso dopo Platone ed Aristotele han divisato nascere dalla filosofia subbiettiva e relativa di Protagora; perocché, riducendosi, come dicemmo, la teorica del vero progressivo a quella del vero relativo, le osservazioni degli antichi hanno forza ancora contro i moderni Progressisti. Lo scetticismo è la prima cagione la quale fu apposta al protagorismo da Platone e da Aristotele. E con ragione. Perocché è un fatto irrepugnabile, che non tutti gli uomini sono nella stessa guisa impressionati dagli obbietti, e che ne pure il medesimo uomo nei diversi tempi riceve dallo stesso obbietto simigliante impressione. Quindi se le cose non hanno altra verità, se non quella che ricevono dalla loro relazione con la mente umana, bisogna dire, che la medesima cosa possa essere vera e falsa non solo per rispetto a diversi uomini, ma per rispetto al medesimo uomo in diversi tempi e condizioni. Or, se una cosa può essere ad un tempo vera e falsa, non ci è mezzo di sceverare il vero dal falso; ed ecco in campo il pirronismo. Udiamo Socrate appresso Platone: «Socr. Non accade spesso, che al soffiar del medesimo vento, questi assideri, quegli no ? E tra quei che assiderano, altri meno, altri più? -Tect. Senza fallo. -Socr. Diremo pertanto che il vento è in sé freddo e non freddo? ovvero ci rassegneremo alla sentenza di Protagora, che è freddo per l’uno e non per l’altro ?» [21]. Platone osservò altresì, che per questa diversità delle apparenze sensibili, il protagorista non può riputarsi misura del vero. Infatti, egli è obbligato di creder veri anche quei pronunziati i quali a lui sembrano falsi, ad altri veri; merceché ciascun uomo, secondo il suo stesso giudizio, è, al paro di lui, misura del vero e del falso. Quindi egli, in virtù del suo pronunziato che debba aversi per vero solamente quello che apparisce tale, non può mai definire, se una cosa sia vera o falsa, ma dee recare in forse ogni cosa [22]. Aristotele tenne la sentenza di Platone, avendo mostrato, che, secondo la massima di Protagora, debbe aversi per falso sì quello che affermasi, e sì quello che negasi di ciascuna cosa. Ecco come san Tommaso espose questo luogo dello Stagirita: «Se è vero, che qualcosa è uomo e non uomo, vero è altresì che né è uomo, né è non uomo; sicché queste due nozioni di uomo e di non uomo si riducono a due negazioni, cioè non uomo, e non uomo. Or, se dei due primi pronunziati se ne fa una sola proposizione, dicendo ad esempio: Socrate non è uomo, né non uomo, è chiaro, che né l’affermazione, né la negazione è vera , ma ambedue sono false» [23]. Eusebio conformemente a Platone, asseverò, che secondo i principi di Protagora nessun uomo può reputarsi misura delle cose. Perocché « se ogni apparenza è vera per ciascun uomo, e a noi non sembra vero quel che da altri si giudica tale, sarà vero altresì, che l’uomo non è la misura di tutte le cose» [24]. Sant’Agostino chiarì brevemente la sentenza di Platone, che il protagorismo chiude ogni via a discernere il vero dal falso: « Agost. Vero è quel che è tale, quale si mostra a colui che lo conosce, se voglia e possa conoscerlo. -Rag. Adunque non è vero ciò che da niuno si conosce. Oltreché, se è falso quel che apparisce in altro modo da quel che è, adunque se questa pietra apparisce pietra ad uno, legno ad altri, sarà la stessa cosa e vera e falsa» [25]. Aristotele andando innanzi, fece chiaro che lo scetticismo rampollante dal protagorismo si collega col nullismo. Platone prima di lui avea notato, che i propugnatori del vero relativo non ammettono alcuna esistenza assoluta, ma sole esistenze relative. Conciossiaché la sensazione si riferisce necessariamente a un doppio termine, cioè al subbietto e all’obbietto, perché la sensazione non è possibile senza un subbietto che sente, e un obbietto che è sentito. Or, poiché il subbietto non è senziente, né l’obbietto è sentito, se non nell’atto della sensazione, conseguita, che se la sensazione è la misura unica delle verità delle cose, il subbietto e l’obbietto non hanno alcun valore per sé, ma l’uno ha valore per l’altro, o sia nessuno dei due esiste per sé, ma l’uno per l’altro [26]. Ciò che Platone ha osservato contro Protagora per riguardo alla sensazione, ha forza in generale per ogni sorta di conoscenza. E di vero, ogni conoscenza involge una relazione tra il subbietto che conosce, e l’obbietto che è conosciuto; quindi se la cognizione delle cose è la norma e la misura della loro verità, convien dire, che le cose sono, in quanto si conoscono, e però la loro esistenza non è assoluta ma relativa. Aristotele nei suoi Metafisici espose profondamente questo pensiero di Platone. Ecco alcune sue parole: «Se tutto quello che si crede, e che apparisce, è vero, è necessario che ogni cosa sia insieme falsa e vera. Giacché parecchi hanno sentenze contrarie gli uni agli altri, e ciascuno reputa in errore chi non crede a modo suo: di maniera che è necessario, che una cosa sia e non sia. E se è così, è necessario che tutto quel che si crede, sia vero; giacché chi è in errore, crede delle cose contrarie a chi è nel vero» [27]. Il quale ragionamento il Bonghi, traduttore ed interprete della Metafisica di Aristotele, riduce in questa formola:1ª Tutto quello che m’apparisce è vero. 2ª Ma tutto quello che m’apparisce, può apparire in un modo contrario di quello che m’apparisce. 3ª Dunque il contrario di quello che m’apparisce e che è vero, è anche vero. 1º Perché il contrario di quello che m’apparisce, possa apparire ed esser vero, bisogna che la cosa che m’apparisce sia tale da produrre ora una modificazione, ora la contraria, e perché possa produrla, bisogna che abbia non solo la natura che ha, ma anche la contraria di quella che ha, e perciò essere e non essere insieme. 2º Ma il contrario di quello che m’apparisce può apparire, ecc. 3º Dunque ecc. E da capo si può ritornare da quest’ultima conclusione alla prima proposizione, da cui si è ricavata: perché appunto se la natura degli enti è a questa maniera, può con eguale probabilità produrre le due impressioni contrarie, e queste devono con eguale legittimità dirsi vere» [28]. Il medesimo pensiero Aristotele espone con maggiore ampiezza nel capo sesto: «Poi, non potrebbe esser vero tutto quello che appare, se non nel caso che fosse relativa ogni cosa e non ce ne fosse veruna che stesse da sé; giacché quello che appare, appare a qualcuno: di maniera che chi dice, che sia vero tutto quello che appare, fa consistere ogni entità in una relazione. Perciò, quelli che vogliono essere sforzati dal ragionamento e pure si contentano di ragionare, bisogna che si guardino ed avvertano, che non è già vero quello che appare, ma quello che appare a chi appare e quando appare e per quella via e in quella tale maniera che appare. Se, mettendosi a ragionare, non determinano così la loro tesi, accadrebbe loro di cascare subito nei contradittorii. Può, difatti, alla stessa persona una cosa parer mele alla vista e al gusto no: e alla vista di ciascuno dei due occhi non parere identica una stessa cosa, quando siano disuguali. Poiché, di certo, a quelli, che, per le ragioni già dette, affermano, che quello che appare è vero, e che perciò ogni cosa non sia più falsa che vera (perché non appare lo stesso a tutti né sempre lo stesso ad uno stesso, anzi parecchie volte appaiono insieme cose contrarie: il tatto, per esempio, se s’intrecciano le dita dà due oggetti, dove la vista ne dà uno [29]), a questi tali, ripeto, si può dire, che non però appaiono cose contrarie ad uno stesso senso, e secondo lo stesso rispetto, e della stessa maniera e nello stesso tempo: di sorta che qui almeno s’avrebbe del vero. Ma forse appunto per questo, quelli che parlano non perché dubitino, ma per parlare, sarebbero sforzati a dire, che non s’avrebbe già del vero, ma del vero a qualcuno. E come si è già detto prima , dovrebbero fare ogni cosa relativa a qualcos’altro e all’opinione e al senso, di maniera, che non ci sia stata, né sia per esserci cosa veruna, se non ci è uno prima che l’opini. Che se ci fosse stata, o ci fosse per essere, si vede, che allora ogni cosa non sarebbe relativa all’opinione» [30]. Sant’Agostino fece eco a Platone e ad Aristotele nel secondo de’ Soliloquii: «Ma se asseveri che non vi ha vero assoluto, non paventi di essere obbligato a concedere che non vi è alcuna esistenza assoluta? Perché quel che dà la quiddità al legno, gli dà altresì la verità, non potendo avvenire, che il legno sia tale per sé stesso, cioè senza che uomo lo conosca, e non sia vero legno» [31]. Aristotele divisò ancora, che il nullismo nella dottrina di Protagora nasce non solo dal pirronismo, ma anche dal panteismo che in esso s’inchiude. «Oltre di che, ei dice, è chiaro che se le contradittorie, dette dello stesso, fossero vere, si farebbe di tutte le cose una sola. Giacché sarebbero lo stesso e trireme e parete e uomo, se d’ogni cosa si può affermare o negare qualunque altra. E di qui non s’esce, chi ragioni alla maniera di Protagora. Di fatto, se a uno pare che l’uomo non sia trireme, è chiaro che non è trireme: di guisa che l’è anche, se la contradittoria è vera. E ne vien fuori quello d’Anassagora: ogni cosa insieme; di maniera che non ci esista nulla davvero» [32]. Ed in vero, «la dottrina della verità dei contradittorii , aggiugne il sullodato interprete, richiede che si ammetta l’identità di ogni cosa... Di fatto, se tutto quello che appare, è vero, e se le cose appaiono in modi svariatissimi , e ciascuno di questi modi è sempre il proprio e vero loro modo di essere, e se sempre che una cosa appare ad un modo, è vero che appare anche nel modo contrario, si vede, che ciascuna cosa non solo può essere, ma è in effetto tutte le altre» [33]. Anche Eusebio vide originarsi il panteismo dalla dottrina di Protagora sul criterio. «E poi, a giudizio di costoro, non vi ha verun divario tra il più e il meno in ciascun genere di cose, non che tra il necessario e il contingente, tra il naturale e il preternaturale. Per tal modo si fa tutt’uno di quel che è, e di quel che non è; ché può ben intervenire, che una medesima cosa a taluno sembri essere, ad altri non essere. Dunque l’uomo e il legno debbono essere il medesimo, da che talvolta il medesimo all’uno apparisce uomo, all’altro legno» [34]. San Tommaso in poche ma, lucide parole mostrò, che il dogma del flusso perenne, ossia del divenire di Eraclito, su cui ponta il protagorismo, è un pretto panteismo. Ei dice: «Quel che diviene, non è: perocché, mentre dura il movimento, una cosa diviene, e non è; nel termine del moto poi, in cui comincia il riposo, già non addiviene, ma è stata fatta» [35]. Non è difficile a scorgere, come questi rimproveri fatti dagli antichi al protagorismo, si possono indirizzare da noi con ugual dritto contro i moderni Progressisti. Avvegnaché costoro facendo il vero mutabile secondo il diverso sviluppo delle facoltà dell’uomo nelle diverse epoche dell’umanità, non considerano, al paro dei Sofisti, il vero in sè, ma in ordine al subbietto che lo conosce, Però, debbono ammettere che ogni cosa possa essere vera e falsa, e quindi ogni cosa possa essere e non essere nel tempo medesimo, ossia che i contradittorii possono avverarsi sì nell’ordine della conoscenza (scetticismo), sì nell’ordine della realtà (panteismo e nullismo). NOTE 1 - 4) Ο δὴ θεὸς ἡ μῖν πάντων χρημάτων μέτρου ἂν εἴη μάλιστα, καὶ πολὺ μᾶλλον ἢ που τὶς, ὡς φασιν ἄνθρωπος; De Leg. lib. IV, p. 186, Bipont. 1782. 2 - *) Ο' δε γε νῦν λόγος σημαίνει, ταύτην τὴν ἐνοῦσαν ἑκάστου δύ- ναμιν ἐν τῇ ψυχῆ καὶ τὸ ὄμγανον , ὦ καταμανθάνει ἕκαστος , οἷου εἰ ὅμμα μὴ δυνατὸν ἦν ἄλλως ἔ ξὺν ὅλῳ τῷ σώματι στρέφειν πρὸς τὸ φανὸν ἐκ τοῦ σκοτώδους, οὕτω ξύν ὅλη τὴ ψυκὴ ἐκ τοῦ γιγνος μένου περιακτέον εἶναι, ἕως ἂν εἰς τὸ ὄν καὶ τοῦ ὄντος τὸ φανωτας του δυνατή γένηται ἀνασχέσθαι θεωμένη · τοῦτο δ᾽ εἶναι φαμεν τὰ γαθόν. De Repub., Opp. vol. VII, p. 134, ed. cit. 3 - 2) Platone ha usate queste parole : περιστροφή , circumversio, περιαγωγή, circumactio , επανοδος, reditus. Τοῦτο δὴ , ὡς ἔοικεν οὐκ ὀστράκου ἂν εἴη περιστροφή, ἀλλά ψυχῆς περιαγωγή ἐκ νυκτερι τῆς τινὸς ἡμέρας εἰς ἀληθινὴν τοῦ ὄντος ἰοὺσας , ἐπάνοδον ἦν δὴ φιλοσοφίαν ἀληθὴ φησομεν εἶναι; De Republ. vol. VII, p. 141, ed. cit. Con molta lucidezza espose questo punto Van Heusde, Initia phil Plat. 31-33, 376-388, ed. 2ª, Lugduni Batavorum 1842. 4 - « Dicendum quod antiqui philosophi species rerum naturalium non dicebaut procedere ab aliquo intellectu, sed eas provenire a casu. Et quia considerabant, quod verum importat, comparationem ad intellectum, cogebantur veritatem rerum constituere in ordine ad intellectum nostrum»; 1, q. XVI, a. 1 ad 2. 5 - Καθόλου δε αμαρτανουσιν, ἀξιοῦντες, οποια ἂν ἡμῖν φαίνηται τὰ πράγματα, τοιαυτα και ειναι · τοῦναντίον γαρ, ὁποῖα πέφυκε, τοιαυ- τα φαίνεται, καὶ οὐχ ἡμεις ἀυτὰ ποιούμεν, οὕτως ἔχειν, ἀλλ᾽ ὑπ᾿ ἐ· κείνων αὐτοὶ διατιθεμελά πως; Praep.Evang. lib. XIV, c. 20. 6 - «Omne verum ab illo est qui ait: Ego sum veritas»; De doctrina Christ. Prolog. § 9. «Quisquis bonus verusque Christianus est, Domini sui esse intelligat, ubicumque invenerit, veritatem »; Ibid. lib. I, c. 18, § 28. 7 - & Secundum id vero, quod mensura omni rei modum praefigit, et numerus omni rei speciem praebet, et pondus omnem rem ad quietem et stabilitatem trahit, ille primitus et veraciter et singulariter iste est, qui terminat omnia, et format omnia , et ordinat omnia»; De Genes, ad litt. lib. IV, n. 7. 8 - «Mag. An putas aliquid esse aliquando, aut alicubi, quod nou sit in summa veritate , et quod inde non acceperit, quod est in quantum est; aut quod possit aliud esse , quam quod ibi est? -Disc. Non est putandum. Mag. Quidquid igitur vere est, in quantum hoc est, quod ibi est. -Disc. Absolute concludere potes, quia omne quod est, vere est; quoniam non est aliud, quam ibi est. Mag. Est igitur veritas io omnium quae sunt, essentia, quia hoc sunt quod in summa veritate sunt. Dial. De Veril. c. VII, Opp. ed. Gerb. p. 111, 112. Si legga tutto il Dialogo. 9 - « Cum verum sit in intellectu, secundum quod conformatur rei intellectae, necesse est, quod ratio veri ab intellectu ad rem intellectam derivetur, ut res etiam intellecta vera dicatur, secundum quod habet aliquem ordinem ad intellectum. Res autem intellecta ad intellectum aliquem potest habere ordinem vel perse, vel peraccidens. Per se quidem habet ordinem ad intelle ctum, a quo dependet secundum suum esse; per accidens autem ad intellectum, a quo cognoscibilis est. Sicut si dicamus, quod domus comparatur ad intellectum artificis per se, per accidens autem comparatur ad intellectum, a quo non dependet. Iudicium autem de re non sumitur secundum id, quod in est ei per accidens, sed secundum id, quod in est ei per se. Vnde unaquaeque res dicitur vera absolute secundum ordinem ad intellectum, a quo dependet. Et inde est, quod res artificiales dicuntur verae per ordinem ad intellectum nostrum: dicitur enim domus vera, quae assequitur si in silitudinem formae, quae est in mente artificis: et dicitur oratio vera, in quantum est signum intellectus veri. Et similiter res naturales dicuntur esse verae, secundum quod assequuntur similitudinem specierum, quae sunt in mente divina»; 1,q. XVI, art. 1. 10 - « Sciendum, quod res aliter comparatur ad intellectum practicum, aliter ad speculativum. Intellectus enim practicus causat res, unde est mensuratio rerum quae per ipsum fiunt: sed intellectus speculativus, quia accipit a rebus, est quodammodo motus ab ipsis rebus; et ita res mensurant ipsum. Ex quo patet quod res naturales, ex quibus intellectus noster scientiam accipit, mensurant intellectum nostrum, ut dicitur X Metaphys. (com.IX), sed sunt mensuratae ab intellectu divino, in quo sunt omnia creata, sicut omnia artificiata in intellectu artificis. Sic ergo intellectus divinus est mensurans, non mensuratus; res autem naturalis mensurans et mensurata; sed intellectus noster est mensuratus, non ineusurans quidem res naturales, sed artificiales tantum»; Qq.dispp. de Verit, q. I, a. 2 c. 11 - Met.lib.IV, c. 5, §11, trad. di Ruggiero Bonghi, p. 188, Torino 1854. E’ chiaro che in questo luogo Aristotele piglia la qualità in senso di forma, o specie, è conseguentemente per mutazione intende la produzione, o distruzione specifica di una cosa. Là dove nella Fisica dice qualità la disposizione propria o accidentale di una forma o essenza ; nel quale senso il cangiamento proprio della qualità è l’alterazione. Vedi Bonghi, loc. cit. 12 - « Quamvis concedatur, quod motus secundum quantitatem sit continuus in rebus, et quod omnia hoc motu semper inseusibiliter moveantur, tamen secundum qualitatem vel formam, non oportet, quod propter hoc semper omnia moveantur. Et ita poterit haberi cognitio de rebus determinata: quia res magis cognoscuntur per suam speciem, quam per suam quantitatem»; In lib. IV Met. lect. 13 . 13 - De ratione mutationis est, quod aliquid idem se habeat aliter nunc, et prius. Nam quandoque est idem ens actu aliter se habens nunc, et prius, sicut in motibus secundum quantitatem, et qualitatem. Quandoque vero est idem ens in potentia tantum, sicut in mutatione secundum substantiam cuius subiectum est materia»; I , q. XLV , a. 2 ad 2. Ed altrove disse: « In omni mutatione vel motu oportet esse aliquid aliter se habens nunc, quam prius; hoc enim ipsum nomen mutationis ostendit»; Cont. Gent. lib: II, c. 12, n. 3. 14 - «Quod corpus habet, non est idipsum: quia non io se stat. Mutatur per aetates, mutatur per mutationes locorum ac temporum, mutatur per morbos et defectus carnales, non ergo in se stat. Corpora caelestia non in se stant, habent quas dammutationes suas, etsi occultas: certe de locis in loca mutantur, ascendunt ab Qriente in Occidentem , et rursum circumeunt ad Orientem: non ergo stant, nec sunt idipsum. Anima humana nec ipsa stat. Quantis enim mutationibus et cogitationibus variatur, quantis voluptatibus immutatur, quantis cupiditatibus diverberatur atque discinditur ? Mens ipsa hominis quae dicitur rationalis, mutabilis est, nec est idipsum. Modo vult, modo non vult, modo scit, modo nescit; modo meminit, modo obliviscitur: ergo idipsum non habet ex se»; In Psal. CXXI, n. 6. 15 - «Sunt namque ideae principales formae quaedam, vel rationes rerum stabiles atque incommutabiles, quae ipsae formatae non sunt, ac per hoc aeternae, ac semper eodem modo se habentes quae in divina intelligentia continentur; Lib. de di vers. quaest. LXXXIII, quaest. XLVI. 16 - « Quis autem religiosus, et vera religione imbutus, quamvis nondum possit haec intueri, negare tamen audeat, aut nou etiam profiteatur, omnia quae sunt, idest, quaecumque in, suo genere propria quadam natura continentur, ut sint, Deo auctore esse procreata, eoque auctore omnia quae vivunt, vivere, atque universalem rerum incolumitatem, ordinemque ipsum, quo ea quae mutantur, suos temporales cursus certo moderamine celebrant, summi Dei legibus contineri et gubernari ?»; Ibid. 17 - 1) « Si quidem huius corporis color potest vel valetudinis ratione vel aetate immutari, cum ipsum corpus nondum interierit. Et hoc non peraeque in omnibus valet, sed in iis in quibus non ut sint ipsa subiecta, ea quae in subiectis sunt, coexistunt. Non enim ut sit iste paries, paries, hoc colore fit, quem in eo videmus; cum etiam, si quo casu nigrescat aut albescat, vel aliquem alium immutet colorem, nihilominus maneat paries ac dicatur. At vero ignis si calore careat, ne ignis quidem erit; nec nivem vocare, nisi candidam possumus»; Solil. lib. II, c. XII, n. 22. 18 - «Naturae igitur omnes, quoniam naturarum prorsus omnium Conditor summe bonus est, bonae sunt: sed quia non sicut earum Conditor, summe atque incommutabiliter bonae sunt, ideo in eis et minui bonum et augeri potest. Sed bonum minui malum est: quamvis, quantumcumque minuatur, remaneat aliquid necesse est (si adhuc natura est) unde natura sit... Omnis ergo natura bonum est, magnum si corrumpi non potest, parvum si potest: negari tamen bonum esse, nisi stulte atque imperite prorsus non potest. Quae si corruptione consumitur, nec ipsa corruptio remanebit, nulla ubi esset possit subsistente natura»; Enchiridion de Fide, Spe et Charitate, c. XII, n. 4. Ed alquanto giù: « ... non modo ubi consisteret, sed unde oriretur corruptio, non habere tui si esse quod corrumperetur: quoniam nihil aliud est corruptio, quam boni exterminatio»; Ibid. c. XIV. 19 - Log. vol. unic. , p. XLIX, Torino 1854. 20 - «Adaequatio réi et intellectus, quatenus intellectus dicit esse quod est, et non esse quod non est; Cont. Gent. lib. 1, с. 49, n.1; Cf. Qq. disp. De Verit. q. I, a. 1 e. Il conte Giuseppe de Maistre disse, che queste parole dell’Aquinate sono un lampo della verità che definisce sé stessa; Soirées de saint-Petersbourg, Entret. II, t. I, p. 141, 161, 162, Parigi 1831. Del resto innanzi di Isaać s. Agostino avea detto nella medesima sentenza: «Omnia vera sunt, in quantum sunt, nec quidquam est falsitas, nisi cumputaretur esse quod non est»; Confess. lib. VII, c. 15, п. 21. Ed altrove: «Cui saltem illud manifestum est, falsitatem esse, quia id putatur esse, quod non est, intelligit eam osse veri Jatem quaę ostendit id quod est»; De vera relig, c. 36. 21 - *) ᾿Αρ᾿ οὐκ ἐνίοτε πνέοντος ἀνέμου τοῦ αὐτοῦ, ὁ μὲν ἡμῶν ῥησί, ὁ δ᾽ οὐ; καὶ ὁ μὲν, ἠρέμα, ὁ δὲ, σφόδρα ; ΘΕΑΙ. Καὶ μάλα . ΣΩ . Πότερον οὖν τότε αὐτό ἐφ᾿ ἑαυτῶ τὸ πνεῦμα, ψυχρὸν ἢ οὐ ψυχρὸυ φήσομεν; ἤ πεισόμεθα τῷ Προταγόρᾳ, ὅτι τῶ μέν ριγοῦντι, ψυχρόν τῶ δε μὲ, οὔ; ΘΕΑΙ . Ναί; Theaet. Opp. ed. cit. vol. II, p. 68, 69, *) Ibid. p. 89, 90, ed. cit. 22 - Ibid. p. 89, 90, ed. cit. 23 - Si verum sit, quod aliquid sit homo et non homo, verum est, quod id non erit homo, nec erit non homo. Et hoc patet: horum enim duorum, quae sunt homo et non homo, sunt duae negationes, scilicet non homo, et non homo: si autem ex primis duabus fiat una propositio, ut dicamus, Socrates non est homo, nec non homo, sequitur quod nec affirmatio, nec negatio sit vera, sed utraque falsa»; In lib. IV Met. lect. 8. 24 - Praep. Evangel. lib. XIV, c. 20. Εἱ τὸ φαινόμενου ἑνάστω καὶ ἀληθές ἐστιν , ἡμῖν δε οὐ φαίνεται τὰ ὑπὸ ἐκείνων λεγόμενα ἀληθῆ, καὶ τὸ μὴ εἶναι πάντων πραγματων μέτρου του ἄνθρωπου ἀληθές ἂν εἴη. 25 - « A. Verum est quod ita se habet, ut coguitori videtur, si velit possitque cognoscere. -R. Non èrit igitur verum quod nemo potest cognoscere. Deinde si falsum est quod aliter quam est, videtur, quid si alteri videatur hic lapis, lapis; alteri lignum; eadem res et falsa et vera erit? › Solil. lib. II, c. V, n. 8. 26 - Theaet. p. 79, 90 ed. cit. 27 - Cap. 5, § 1, trad. di Bonghi, ediz. cit. p. 181, 182. 28 - Sul luogo citato p. 181, not. 3. SANSEVERINO,SIST. FILOS. , I. 29 - Ecco come il Bonghi dichiara questo esempio dietro il Mueller: - Se, accavalcate le dite, fate girare una palluccia tra i due polpastrelli, vi pare di girarne due, perché percepite divise e rivolte in fuori le due metà convesse dell’orbita; di maniera che obbligato a compire le due percezioni, le integrate di per voi, e ciascuna metà vi diventa un’orbita intera »; p. 194, not. 2. 30 - Lib. cit. c. 6, § 3, p. 194, 195, 31 - «At sì dicis nihil esse verum, non times, ne sequatur, ut nihil sit per se ? Vnde enim lignum est hoc, inde etiam verum lignum est. Nec fieri potest, ut per seipsum, id est sine cognitore lignum sit, et verum lignum non sit »; Solil. lib. II, c.5,n.7. 32 - Lib. III, c.4, § 12, p. 175, trad cit. 33 - Sul luogo citato, not. 1. 34 - Α΄πλως τε ἀναιρουσιν οὗτοι γε τὸ μᾶλλον , και τὸ ἦττον , καὶ τὸ ἐξ ἀνάγκης, και τὸ ἐνδεχόμενον, και τὸ κατὰ φύσιν, και τὸ παι ρὰ ψύσιν . οὕτω δὶ ἂν εἴη ταυτὸν, καὶ ὄν και · οὐκ ὄν. μηδέν γὰρ κω λύει ταυτό τοῖς μεν ειναι φαίνεσθαι, τοῖς ται μὴ εἶναι . καὶ ταυτὸ ἄν εἴη ἄνθρωπος, και ξύλον . εσθ' ὅτε γαρ φαίνεται ταυτὸ, τῷ δε μὲν ἄν- θρωπος, τω δε ται ξύλον; Οp. e loc. cit. 35 - « Quod fit, non est: quia quamdiu durat motus, aliquid fit et non est; in ipso antea termino motus in quo incipit quies, iam non fit aliquod sed factum est; Cont. Gent. lib. II, c. 17, п. 3. |