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| Lettera da Londra Così vogliono farci morire. Sempre di più ![]() Ogni settimana segna un nuovo passo in una cultura che ha smesso di dare valore alla vita umana. Ho già detto che viviamo in un culto della morte, e le prove continuano ad accumularsi. Non rispettiamo più la vita umana né la amiamo, per non parlare del senso della sua sacralità. Sento un dolore profondo nelle ossa. È straziante che siamo arrivati a questo punto. Ecco tre esempi, dalla nascita alla morte e oltre. In primo luogo, l’aborto è ora di fatto depenalizzato fino al termine della gravidanza. L’orrore è evidente: una donna può abortire in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo, fino al nono mese, senza timore di punizioni. E ora l’Snp [Scottish National Party, N.d.T:] propone che sia consentito anche l’aborto in base al sesso. Sappiamo già a cosa porterà: le bambine già oggi vengono abortite in culture che preferiscono i maschi alle femmine. È successo in India e Cina, dove il conseguente squilibrio demografico ha distorto le rispettive società. Ed è sconcertante vedere presunte femministe sostenere che il diritto di una donna all’aborto in qualsiasi fase della gravidanza e per qualsiasi motivo sia auspicabile, anche se ciò significherà che molte bambine non nasceranno. E poi? Sosterremo il diritto delle famiglie a infliggere mutilazioni genitali alle proprie figlie? O il diritto dei genitori a gettare le bambine indesiderate in discarica? Qual è la differenza sostanziale tra abortire un feto femminile e uccidere una bambina? La realtà non è poi così diversa, a parte poche settimane. In secondo luogo, c’è il disegno di legge sul suicidio assistito, rispetto al quale sono già state respinte diverse garanzie per la vita. E ora si stanno insinuando nuovi emendamenti, come quello presentato da Lord Birt e Lord Pannick, in base al quale il giorno dopo che un medico solleva la questione del suicidio, al paziente dovrebbe essere assegnato un contatore personale dal “servizio di assistenza” al suicidio assistito. Vorrebbero imporre un limite massimo di trenta o diciotto giorni per arrivare al decesso. Per chi è scosso da una diagnosi terminale non può esistere un periodo di riflessione rigido. Inoltre, sappiamo quanto possano essere imprecise queste diagnosi. Diciotto giorni difficilmente consentono ai medici di valutare se una persona abbia bisogno di prevenzione del suicidio o di assistenza al suicidio. Siamo onesti: la prevenzione del suicidio sarà una questione che riguarderà pochi se questa legge verrà approvata. Il Servizio sanitario nazionale non può fingere di prevenire il suicidio e allo stesso tempo promuoverlo e accelerarne la diffusione. Non può impegnarsi a preservare la vita e a ripristinare la salute mentre gestisce parallelamente un meccanismo per porre fine precocemente a vite umane. Ho cercato di essere equilibrata riguardo al disegno di legge sul suicidio assistito perché provo un senso di profonda vicinanza per le persone malate terminali e sofferenti. Ma riflettiamo: per qualsiasi altra situazione, come il parto, un tumore, il Parkinson, l’Alzheimer, interventi chirurgici importanti, non esiste un contatore personale. Questo livello di zelo burocratico è riservato solo all’accompagnamento delle persone alla morte. E francamente, a questo punto, sembra proprio che i sostenitori del disegno di legge vogliano uccidere le persone il più rapidamente possibile. Un altro emendamento propone di sottoporre i pazienti che arrivano al pronto soccorso a screening per un percorso di morte rapida. In futuro, ci penserò molto attentamente prima di portare una persona cara al pronto soccorso! A mia madre nel 2013 i medici diedero da uno a cinque anni di vita. Oggi è ancora viva. Immaginate di portare al pronto soccorso una persona anziana con un certo declino cognitivo, sofferente o in preda al dolore. Immaginate che le venga chiesto se desidera assistenza per porre fine alla sua vita. E immaginate che tutto debba finire in diciotto giorni. Oppure immaginate che qualcun altro la porti al pronto soccorso: potreste non sapere nemmeno che è stata aiutata a morire. Ed eccoci all’ultimo insulto al significato e al valore della vita. Calum Worthy, co-fondatore dell’app 2wai, ha chiesto su X: “E se i nostri cari che abbiamo perso potessero far parte del nostro futuro?”. L’azienda sembra stia pianificando di offrire a chi è in lutto un sostituto dei propri cari defunti tramite un’app di intelligenza artificiale. Attualmente l’app offre avatar AI di personaggi immaginari e storici, come si può vedere nel caso di del grande William Shakespeare, ridotto a una marionetta digitale mentre 2wai sfrutta il suo genio. È un’app abbastanza economica, ma com’è possibile solo pensare di volere una copia robotica di qualcuno che abbiamo amato? Non dovremmo sfuggire al nostro dolore. È viscerale, ulula, dura più a lungo di quanto potremmo mai immaginare, ed è il prezzo che paghiamo per l’amore. Il dolore è amore. Ma la cura per il dolore è soffrire, non cercare un superficiale conforto nella fredda luce blu di un simulacro di intelligenza artificiale. L’app propone la risposta sbagliata alla domanda giusta. Forse i nostri cari sono parte del nostro futuro nell’aldilà. Per le persone di fede, molti dei cupi enigmi della nostra epoca acquistano più senso man mano che la fede illumina la via: la vita ha valore alla nascita, alla morte e dopo. Ma non c’è bisogno della religione per capire che la vita umana è importante né per riconoscere che i nostri cari defunti lasciano tracce indelebili nelle nostre vite, senza che dobbiamo ricorrere a un’app. Molti umanisti e atei hanno costruito sistemi etici basati sulla dignità umana, sulla ragione, sulla compassione e sul valore irriducibile dell’individuo. Si può rifiutare qualsiasi credenza nell’aldilà, eppure difendere con forza la preziosità della vita e il dovere morale dei viventi di prendersi cura gli uni degli altri. Le cose non sono ancora al peggio. La storia dimostra che abbiamo visto tempi più bui. Gli esseri umani come danni collaterali non sono una novità. Gli aztechi strapparono il cuore a migliaia di persone con sacrifici rituali. La Cina comunista e l’Unione Sovietica uccisero milioni e milioni di persone tra carestie, purghe e campi di lavoro. La Gran Bretagna un tempo giustiziava persone per furto o falsificazione. Negli orfanotrofi di un tempo la morte era così comune che i bambini venivano di fatto conteggiati come perdite in un registro. Gli esseri umani scivolano nei culti della morte con prevedibile regolarità. La storia e la narrativa lo dimostrano: siamo trattati come materia prima, carne da usare, scartata quando non è conveniente. Non possiamo combattere la morte. Moriamo tutti. La morte fa parte della vita. Tuttavia, riconoscere che la morte è inevitabile non significa che dobbiamo arrenderci a una cultura che svaluta la vita mentre siamo in vita. La scelta è nostra, collettivamente e individualmente. Il punto è riaffermare il valore di ogni essere umano. Vedere ogni bambino, ogni paziente, ogni persona cara non come una statistica, un danno collaterale, un percorso o un giocattolo per cellulari, ma come una vita da proteggere, nutrire e celebrare. Il rispetto per la vita non è sentimentalismo. È un imperativo morale. È l’unica risposta alle burocrazie, alle tecnologie e alle ideologie che trattano gli esseri umani come oggetti sacrificabili. È l’unica risposta alla corsa all’opportunismo, all’accelerazione della morte. Dobbiamo ricordare che il dolore, la sofferenza e la cura sono la misura della nostra umanità. Soffrire significa amare; prendersi cura significa insistere sul fatto che la vita è importante. Ogni atto di attenzione, compassione e difesa della vita è una ribellione contro il culto della morte che ci circonda. Quindi sì, moriamo. Ma il modo in cui viviamo offre un vero rifugio alla dignità umana, dalla nascita alla morte e oltre. Dobbiamo venerare la vita. |