La sostituzione della Festa di Cristo Re


di El Wanderer


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100 anni fa, l’11 dicembre 1925, Papa Pio XII, nel n° 30 dell’Enciclica Quas Primas, affermava:
«Con la nostra autorità apostolica, istituiamo la Festa di Nostro Signore Gesù Cristo Re, e decretiamo che si celebri ovunque sulla terra nell’ultima Domenica di ottobre, che è la Domenica che precede la festività di Tutti i Santi».

La riforma liturgica del 1969 modificò questa festa e la collocò nell’ultima Domenica dell’anno liturgico.
«La solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo si celebra l’ultima Domenica dell’anno liturgico, in sostituzione di quanto stabilito da Papa Pio XI nel 1925 che la assegnava nell’ultima Domenica di ottobre. Per questo motivi, il significato escatologico di questa Domenica viene ulteriormente sottolineato» (Calendarium Romanum Generale, 1969, 2. Solemnitates mobiles “per annum”).

Il testo sembra abbastanza chiaro. La riforma cambia la festa e il suo significato:  “loco festivitatis institutae a Pio Papa XI” (“in sostituzione della festa istituita da Papa Pio XI”). L’enfasi è posta nel “loco”, che si traduce con “ al posto di”, “in sostituzione di”.

Non si tratta semplicemente del cambio del giorno della celebrazione di una festività, come può essere il caso di Sant’Ignazio di Antiochia, che dal 1 febbraio del calendario tradizionale passa al 17 ottobre del calendario riformato.
Ciò che nel nostro caso richiama l’attenzione è il cambio del significato della festa e questo si legge in modo esplicito nel testo del nuovo calendario:
Hae ratione, momentum quoque eschatologicum huius dominicae meliore in luce ponitur (In questo modo  si pone anche meglio in rilievo il significato escatologico di questa domenica).

I testi liturgici verso la fine dell’anno liturgico assumono un carattere escatologico. Questa è la ragione addotta nella riforma per lo spostamento del giorno.
Nella Quas Primas, Pio XI aveva introdotto la Festa di Cristo Re con un altro significato, mostrando l’antica consuetudine di chiamare Re, Gesù Cristo, basandosi sul Vecchio e il Nuovo Testamento e sulla liturgia. E spiega che questa dignità regale si basa sulla Unione Ipostatica e sulla Redenzione.
Affronta poi il carattere di questa regalità mostrando la triplice Potestà di Cristo: Redentore, Legislatore e Giudice. Infine mostra che la portata di questa regalità abbraccia sia l’ambito spirituale sia quello temporale: sugli individui e sulla società.

Si tratta di due feste, ognuna con le sue specifiche formalità, ognuna col suo significato. Entrambe ci portano a riflettere su un aspetto di questo Re gloriosissimo. Non si escludono a vicenda. Infatti, nel corso dell’anno liturgico vi sono altre feste dedicate a Nostro Signore Gesù Cristo (per esempio, l’Incarnazione, la Natività, la Circoncisione, la Presentazione al Tempio, il Battesimo).
E allora sorge la domanda: perché non istituire una nuova Festa invece di sostituirne una con un’altra?


La ricerca del motivo

Nel tentare di comprendere il perché della sostituzione, presenterò alcune riflessioni che possono aiutare a chiarire la questione.
Una di queste riguarda il cambiamento della concezione della teologia della storia.
Quando la concezione ciclica della storia, tipica del mondo antico, fu interrotta in forza della rivelazione, la concezione cattolica considerò la storia orientata ad un fine metastorico. 
Più tardi, al di fuori dell’ambito cattolico, emersero delle filosofie della storia che si soffermavano sullo svolgimento della storia e sul suo fine. Queste filosofie adottarono la concezione cattolica della storia nel senso del suo orientamento verso un fine, ma al tempo stesso presentano questo percorso e il fine in un modo diverso.
E in campo teologico, la concezione luterana presenta marcate differenze rispetto a quella cattolica, poiché i principii antropologici e metafisici di Lutero differiscono dalla concezione cattolica.

Nel caso di Lutero, in quanto capo di tutto questo movimento, troviamo alcune idee che hanno una particolare influenza nei suoi seguaci.
Al centro vi è la sua concezione esagerata delle conseguenze del peccato originale: per Lutero la natura umana è distrutta.
Di tutto quello che ne consegue prenderò in esame alcuni aspetti.

In primo luogo, egli nega all’uomo il libero arbitrio: «Liberum arbitrium post peccatum est res de solo titulo; et dum facit quod in se est, peccat mortaliter» (Il libero arbitrio dopo il peccato è solo una questione di titolo, e mentre fa ciò che è in esso pecca mortalmente) (Tesis XIII, WA, t. I, pp. 359-360).
Nella nostra natura, distrutta dal peccato originale, non solo viene colpita la volontà nella quale l’arbitrio da libero diventa schiavo, ma anche l’intelligenza viene resa incapace di conoscere la verità.

Oltre questa ragione teologica, il pensiero di Lutero è influenzato dal nominalismo di Ockham, secondo il quale, con l’intelligenza privata della sua capacità di penetrare la natura delle cose, l’indagine metafisica diventa impossibile.

Un’altra idea importante in Lutero è la sua concezione di un Dio distante, che accentua così tanto la sua trascendenza al punto da renderla irraggiungibile per l’uomo. In tal modo, Lutero non può conciliare l’onnipotenza di Dio con il libero arbitrio, da qui la sua tesi del “servo arbitrio”. In altre parole, per Lutero, se Dio è onnipotente, l’uomo non può essere libero perché se lo fosse ci sarebbe qualcosa che sfugge a tale onnipotenza; quindi, se Dio è onnipotente, l’uomo non può essere libero.

Come conseguenza di questo basilare nominalismo, la teologia luterana manca di un solido pensiero filosofico su cui appoggiarsi.
Storicamente si può osservare che la teologia luterana, nel corso del suo sviluppo, ha attinto ai sistemi filosofici vigenti nelle diverse epoche, come base delle sue riflessioni teologiche. Tale che è stata una volta razionalista, un’altra idealista. Essa ha incorporato la teologia liberale Schleiermacher, o la teologia dialettica di Barth o l’esistenzialismo, a seconda della filosofia di turno.

Questo andamento, comune nella storia della teologia luterana, ha avuto inizio anche nella teologia cattolica alla fine del XIX secolo: la ricerca di filosofie che non hanno un fondamento adeguato per la riflessione sulla fede (le ragioni di tale ricerca meritano delle analisi a parte che qui non sono rilevanti).
Va anche aggiunto che la teologia cattolica cominciò ad essere  influenzata dalla teologia luterana, cosa che si è accentuata nel corso del XX secolo. Mi sembra che ormai, ad un quarto del XXI secolo, questa influenza non possa essere negata. E, detto per inciso, tale influenza non era molto lontana dal pensiero dei Padri che parteciparono all’ultimo Concilio, se consideriamo alcuni documenti, ma soprattutto l’onnipresente “spirito del concilio”, nel cui nome vediamo in pratica cosa è diventato l’ecumenismo e il degrado della liturgia.


La sostituzione

Secondo la visione luterana del mondo, per ciò che abbiamo detto, la storia si muove in questa prospettiva: l’uomo non agisce liberamente, Dio è lontano dall’uomo e le conseguenze del peccato originale plasmano un mondo in cui non è possibile fare il bene.
In questo contesto lo svolgimento della storia procede sempre verso il peggio. Solo alla fine, in una prospettiva escatologica, si manifesta il trionfo di Dio.

La sostituzione a cui ho fatto riferimento prima (nel tentare di spiegare la sostituzione della Festa di Cisto Re) - non posso affermare categoricamente che sia stata attuata coscientemente – è un passaggio verso la concezione luterana della storia.
In questo contesto, il Cristo Re a cui si riferiva Pio XI nella Quas primas non ha più alcun posto. Rimane solo l’attesa escatologica.

Tra Lutero e noi è trascorso del tempo e la teologia luterana ha seguito il suo percorso. Pertanto userò come riferimento alcuni brevi frammenti di teologi luterani contemporanei dell’epoca conciliare.

Jurgen Moltmann, in “Conversione al futuro” (cito la coedizione  di Marova-Fontanella, Madrid, 1974), dice:
Di conseguenza, il «futuro» deve essere pensato come il modo di Dio di essere tra noi e con noi” (pp. 201-202).

Le riflessioni di Moltmann risalgono all’opera di Ernst Bloch: El Principio-Esperanza (Il principio-Speranza).
Boch, importante filosofo neomarxista, ha una concezione immanentista in cui il fine della storia non è né trascendente né determinata dalla manifestazione ultima del trionfo di Dio. La filosofia di Bloch è incompatibile, non solo con la concezione cattolica, ma anche con quella luterana.
Tuttavia, Moltmann si sforza di spiegare la sua fede in questa prospettiva. E cosa troviamo? Che il futuro è il modo di essere di Dio.
Se il futuro è il modo di essere di Dio, il luogo della trascendenza di Dio diventa poco chiaro, poiché “futuro” implica temporalità.
Ma il Dio cattolico è trascendente, distinto dal mondo, eterno. E in questa eternità di Dio non vi è né presente, né passato, né futuro. Dio è al di là del tempo. Nella prospettiva in cui Dio è fuori del tempo, ogni epoca, ogni uomo è “alla stessa distanza” da Dio. Di fronte all’eternità di Dio, non sono più vicini a Dio né gli ultimi né i primi. Tutti sono presenti.
Affermare il contrario significa concepire la storia come un percorso nel quale gli ultimi potranno godere di quello che i loro predecessori hanno costruito (e questo è l’ideale delle filosofie della storia di stampo illuminista in tutte le loro versioni). Oppure come un percorso verso il peggio, come nella concezione luterana, in cui la redenzione è possibile solo alla Parusia.

«Pertanto, la divinità di Dio comincia a manifestarsi e a diventare reale con l’avvento della sua signoria illimitata. Credere che Dio è Dio implica necessariamente che il futuro del suo Regno e della sua totale identità vengano nel mondo» (p. 202).

Noi sappiamo dalla rivelazione che la pienezza della divinità non ci si manifesta in questo mondo. Qui vediamo come in uno specchio, come insegna San Paolo. Questa pienezza sarà manifesta alla Parusia. Tuttavia, Dio si manifesta attraverso le Sue opere ed è attraverso di esse che giungiamo a conoscerlo (Sap. 13, 5; Rom. 1, 19-20).
Però sappiamo anche che in quanto Creatore, Egli è presente nelle Sue creature: sostenendole nell’essere, governandole con la Sua provvidenza. E tramite la fede abbiamo la certezza che Egli è presente in modo particolare nel Santissimo Sacramento.
Quindi, si deve distinguere tra la presenza di Dio e la Sua manifestazione visibile nella storia. La divinità non comincia ad essere reale con la venuta del regno: la Parusia non rende reale Dio. Invece, se la divinità comincia a manifestarsi con la venuta del regno, è comprensibile che in questa concezione il mondo sia orfano di Dio e possa attendere il suo regno solo alla fine della storia.

In questa visione del Dio futuro mi appare curiosa l’espressione introdotta nella liturgia rinnovata quando immediatamente dopo la Consacrazione il popolo acclama: «Annunciamo la  tua morte, proclamiamo la tua Resurrezione nell’attesa della tua venuta». Se il Signore è presente sull’altare, perché si auspica  la Sua venuta?

Determinare con maggiore precisione quali teologi luterani stanno dietro tutto questo esige uno studio e una esposizione che  vanno oltre la pubblicazione in questo blog: la teologia dialettica di Barth, che rifiuta esplicitamente l’analogia e proclama l’assoluta trascendenza di Dio di fronte alla miseria del peccato nella storia dell’uomo? Il cristianesimo come causa della secolarizzazione in Gogarten [filosofo protestante tedesco]?
E potremmo continuare con le domande.

Per finire vale la pena notare l’osservazione fatta da Padre Castellani in “Domingueras predicas” (prediche domenicali) quando commenta il testo corrispondente alla Festa di Cristo Re: “regnum meum non est hinc” (“Il mio regno non è di questo modo”, Gv. 18, 36).
Egli usa i tre significati di “hinc” per dire che “Il mio regno non viene da questo mondo, il mio regno è in questo mondo, il mio regno va da questo mondo all’altro”.
Quindi non è necessario ricorrere ad un Cristo cosmologico. Il regno di Cristo, pur non venendo da qui è tuttavia qui (E per questo Pio XI gli dedicò una Festa) e si dirige verso l’altro mondo. 




 
novembre 2025
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