Tutti gli errori di “In unitate fidei”,

ennesimo disastro teologico ed ecclesiale



di Dianne Raimondi


Pubblicato il 24 novembre 2025 su Radical Fidelity

Ripreso e tradotto sul sito di Aldo Maria Valli









La Lettera apostolica “In unitate fidei”, pubblicata nel 1700° anniversario del primo Concilio di Nicea, è l’ennesimo tentativo degli usurpatori modernisti di unirsi a ogni setta eretica “cristiana” a spese della Verità rivelata da Cristo alla sua unica Chiesa.

Sebbene Leone XIV possa presentarla come una nobile riaffermazione del Credo niceno-costantinopolitano e come un invito ai cristiani a rinnovare la propria fede, il testo rivela diversi errori teologici, ecclesiali e pastorali.

Come al solito, il testo riflette un orientamento teologico postconciliare ambiguo che si discosta in modo significativo dalla chiarezza, dalla precisione e dal soprannaturalismo del Magistero della Chiesa precedente al Concilio Vaticano II.

Uno dei temi più ricorrenti di “In unitate fidei” è la descrizione della fede cristiana come “cammino” e “incontro” con Gesù Cristo.
La lettera afferma, ad esempio, che i cristiani sono “chiamati a camminare insieme, custodendo e trasmettendo… il dono ricevuto” (n. 1).
Questo linguaggio, pur essendo pastoralmente accattivante, sposta il focus della fede dall’assenso intellettuale e dottrinale nei confronti della Rivelazione verso una dinamica più soggettiva e relazionale.
In altre parole, l’enfasi è posta sulle piacevoli sensazioni dell’esperienza.

La fede è prima di tutto un atto dell’intelletto: l’atto di credere alle verità divine rivelate da Dio, sulla base dell’autorità di Dio. Questa comprensione è profondamente radicata nell’insegnamento magisteriale della Chiesa, come nella ”Dei Filius” (Concilio Vaticano I), che definisce la fede “l’assenso della volontà a ciò che è rivelato da Dio attraverso la Chiesa”, ricevuto dall’intelletto. Quando la fede viene presentata principalmente come un “incontro” relazionale, sovverte il contenuto oggettivo della rivelazione, l’autorità del dogma e la necessità di una formazione dottrinale.

Nel documento c’è una forte enfasi antropocentrica: sulla dignità umana, sul patrimonio condiviso e sul desiderio umano. La lettera invoca frequentemente il “cammino” dell’umanità, la sua “ricerca” e la sua “fragilità” (ad esempio, nn. 3, 6).
L’uomo è Dio ed è il centro della nuova religione.

La teologia cattolica tradizionale attribuisce grande importanza alla natura decaduta dell’umanità e alla necessità della grazia divina per la salvezza.
I catechismi classici e i documenti magisteriali prima del Vaticano II sottolineano non solo la dignità della persona umana, ma anche la schiavitù del peccato.
In “In unitate Fidei” invece i riferimenti al peccato, al pentimento e alle rigorose esigenze della giustizia divina sono pressoché inesistenti.
È la teologia hippy che proclama la presenza amorevole di Dio, oscurando la realtà del bisogno di una profonda conversione e redenzione da parte della creatura.

Un elemento sorprendente della lettera è il ripetuto appello alla misericordia di Dio.
La misericordia è giustamente centrale nella dottrina cristiana, ma nel documento è presentata spesso quasi escludendo la giustizia divina. Questo squilibrio è caratteristico della teologia modernista in cui l’amore e il perdono di Dio sono enfatizzati, mentre la sua santità, la sua giustizia e la gravità del peccato sono messe in secondo piano o completamente sminuite.

La Tradizione cattolica ha costantemente insegnato che Dio è misericordioso e giusto in misura perfetta. L’atto redentore di Cristo non è semplicemente un’espressione di misericordia; è anche un atto di giustizia, che riconcilia i peccatori attraverso il sacrificio, l’espiazione e l’accettazione della legge divina.
I credenti quindi non sono sottilmente incoraggiati a presumere la misericordia di Dio senza un corrispondente senso di responsabilità, pentimento e bisogno di trasformazione.

In “In unitate fidei” si fa ripetutamente riferimento al “camminare insieme”, al “dialogo” e a un “cammino” che la Chiesa deve percorrere insieme.
Nella sezione 4, la lettera sottolinea l’“unità” non solo nella fede ma nel “cammino”, e sottolinea il ruolo della sinodalità.
Questa ecclesiologia – in cui la sinodalità è quasi costitutiva – si oppone completamente alla concezione cattolica classica, gerarchica e giuridica della Chiesa.
Nella dottrina tradizionale, la Chiesa è prima di tutto il Corpo mistico di Cristo, una società gerarchica di istituzione divina, governata dal Papa e dai vescovi con una struttura chiara.

Utilizzando il linguaggio tipicamente sinodale e inserendolo nel cuore teologico ed ecclesiale della sua riflessione, la lettera, come ogni altro documento emanato oggi dal Vaticano, ridefinisce la natura della Chiesa.
Ancora una volta, la lettera declassa la struttura soprannaturale e gerarchica a favore di una visione più orizzontale e processuale.

La lettera apostolica sottolinea con forza anche le preoccupazioni sociali, come l’ingiustizia, la guerra, la povertà e gli “squilibri” nel mondo, che per la chiesa sinodale sono ovviamente molto più importanti delle preoccupazioni riguardanti il destino eterno dell’anima.

Mentre la Chiesa ha sempre insegnato una dottrina sociale radicata nella dignità della persona umana, la nuova lettera inquadra il suo appello principalmente in termini umani: solidarietà, cura dei poveri, responsabilità ecologica.

Questa visione sociale è legittima ma incompleta se non si radica nella Regalità di Cristo, nella legge morale oggettiva e nel destino soprannaturale dell’uomo.
Il documento privilegia la dottrina sociale e il puro umanitarismo rispetto al fine soprannaturale della vita cristiana, che è l’unione eterna con Dio.

Sebbene “In unitate fidei” sia dedicata al Credo, il suo linguaggio rimane straordinariamente pastorale e narrativo.
Invece di riaffermare precise definizioni dogmatiche, parla della fede in generale, dell’esperienza umana, del cammino comune e dell’importanza della preghiera.

Una professione di fede – soprattutto se legata al 1700° anniversario di Nicea – dovrebbe riecheggiare la chiarezza dottrinale del Credo niceno-costantinopolitano, delle definizioni conciliari e della tradizione catechetica preconciliare.
L’assenza di una netta correzione o riaffermazione dottrinale lascia aperte ambiguità interpretative che potrebbero essere sfruttate in ambienti teologici già permeati di confusione.

Tra i passaggi teologicamente più problematici di “In unitate fidei”, il vero scoglio si trova nella sezione finale, n. 12.
Questo segmento è incentrato sull’unità rispetto alla dottrina. Qui si afferma che per “esercitare questo ministero in modo credibile” [“…per essere testimoni e costruttori di pace nel mondo…”, ecco di nuovo l’utopia materialista] la Chiesa deve “camminare insieme verso l’unità e la riconciliazione tra tutti i cristiani”. Questa formulazione segnala un cambiamento radicale nell’ecclesiologia.
La dottrina tradizionale insegna che l’unità non è un obiettivo da perseguire, ma una realtà divina già presente nella sola Chiesa cattolica, il Corpo mistico di Cristo.
La Chiesa non cammina verso l’unità con altri gruppi cristiani; piuttosto, coloro che sono separati da essa devono tornare all’unità che hanno abbandonato. Rappresentare tutti i cristiani come co-pellegrini in cammino verso un’unità futura condivisa riflette una teologia postconciliare della convergenza, non il perenne insegnamento cattolico secondo cui l’unica Chiesa fondata da Cristo possiede già piena unità di fede, culto e governo.

Questo cambiamento diventa ancora più pronunciato quando la lettera afferma che il Credo niceno può fungere da “fondamento e principio guida” di questo cammino ecumenico.
Sebbene il Credo sia essenziale, non può costituire una base sufficiente per l’unità ecclesiale, poiché l’unità cattolica si fonda sulla pienezza della verità rivelata, non solo sui principi fondamentali articolati nel IV secolo.
La Chiesa, nel tempo, ha definito dottrine riguardanti il papato, i sacramenti, i dogmi mariani, la morale e la natura della Chiesa stessa. Queste verità non sono aggiunte facoltative, sono dogmi vincolanti. Proporre il Credo niceno come fondamento pratico dell’unità riduce sottilmente la dottrina cattolica a un minimo comune denominatore condiviso con protestanti e ortodossi, marginalizzando così le definizioni dogmatiche successive e minando la solenne autorità magisteriale della Chiesa stessa.

Il testo prosegue affermando che il Credo fornisce un “modello di vera unità nella legittima diversità”, espressione ambigua e teologicamente pericolosa.
La teologia tradizionale riconosce la legittima diversità nei riti, nelle lingue, nelle usanze devozionali e in alcune scuole teologiche, ma mai nel dogma o nel culto pubblico. Lasciando il termine indefinito, il documento implica che la diversità dottrinale sia accettabile purché alcune convinzioni fondamentali siano condivise. Questa reinterpretazione della “diversità” è conforme allo spirito dell’ecumenismo moderno, ma diverge dall’insegnamento costante della Chiesa secondo cui l’unità nella dottrina è essenziale e non negoziabile.

Ancora più preoccupante è il linguaggio trinitario usato per giustificare questa visione ecumenica: “Unità senza molteplicità è tirannia, e molteplicità senza unità è disintegrazione. La dinamica trinitaria non è dualistica, come una dicotomia o/o, ma piuttosto un legame che implica un e: lo Spirito Santo è il vincolo di unità che adoriamo insieme al Padre e al Figlio…”.
Questa è un’applicazione profondamente errata del mistero della Trinità.
La vita interiore di Dio non è un modello sociologico del pluralismo. L’unità di Dio non è “tirannica”, né le Persone divine servono come metafora teologica per bilanciare la diversità con l’autorità centralizzata.
La teologia classica limita rigorosamente le analogie che coinvolgono la Trinità per evitare proprio questo tipo di reinterpretazione simbolica o politica. Invocando “dinamiche” trinitarie per giustificare un’ecclesiologia orizzontale della diversità, il testo mina ancora una volta la chiarezza metafisica e proietta preoccupazioni moderne sul mistero divino.

Il linguaggio relazionale della lettera, secondo cui la Trinità rifiuta le “dicotomie o/o” e rappresenta invece un “e” che vincola, è caratteristico degli stili teologici contemporanei che enfatizzano la relazionalità e il processo rispetto a precise definizioni dogmatiche.

I Padri di Nicea non costruivano la dottrina utilizzando categorie come “dicotomia” e “dinamica”. Definivano sostanza, persona, generazione e processione, termini di precisione metafisica. Il passaggio a una vaga terminologia relazionale rappresenta un allontanamento dalla chiarezza e dalla stabilità della teologia classica, sostituendola con un immaginario fluido più adatto al sentimento ecumenico che all’esposizione dottrinale.

Anche quando il testo fa un’affermazione teologicamente corretta – che lo Spirito Santo è il vincolo di unità nella Trinità – applica questa verità in senso modernista. Nell’ecclesiologia tradizionale, lo Spirito unisce la Chiesa attraverso i mezzi visibili e gerarchici stabiliti da Cristo: il papato, l’episcopato, i sacramenti e il magistero. Ma qui l’unità sembra essere presentata come qualcosa che lo Spirito realizza direttamente tra gruppi cristiani disparati, scavalcando l’accordo dottrinale e la struttura gerarchica. Questa prospettiva eleva un senso mistico di unità al di sopra dell’unità visibile e dottrinale che per la Chiesa è sempre stata essenziale.

L’affermazione più inquietante dell’intero brano, tuttavia, è l’esortazione a “lasciare alle spalle le controversie teologiche che hanno perso il loro scopo”.

Questo solleva un interrogativo inquietante: quali controversie?
Il Filioque?
Il primato papale?
La successione apostolica?
La transustanziazione?
La giustificazione?
I dogmi mariani?
Ognuna di queste cosiddette controversie ha dato origine a insegnamenti infallibili definiti dalla Chiesa sotto la guida dello Spirito Santo.
La verità dogmatica non perde mai il suo scopo. Parlare come se i conflitti dottrinali – molti dei quali separano i cattolici dai protestanti e dagli ortodossi – fossero in qualche modo venuti meno significa proporre una sorta di relativismo dottrinale.
Qui il Papa modernista sinodale, o il suo ghostwriter, lascia intendere che la verità si evolva o diventi irrilevante nel tempo, una nozione esplicitamente condannata dal Magistero preconciliare.

L’ultimo suggerimento, secondo cui i cristiani dovrebbero perseguire “una comprensione comune” e “una preghiera comune allo Spirito Santo”, inverte ulteriormente l’ordine tradizionale.
Secondo l’insegnamento cattolico perenne, l’unità di fede è il presupposto per l’unità di culto, non il contrario.
Papa Pio XI condannò i servizi di preghiera interreligiosi e interconfessionali proprio perché l’unità non può essere raggiunta attraverso la preghiera condivisa; tale preghiera presuppone l’unità dottrinale.
Il brano tratta la preghiera come un metodo per raggiungere l’unità, mentre la tradizione cattolica insiste sul fatto che la preghiera esprime e approfondisce l’unità già presente.

Nel complesso, questa sezione presenta una teologia ecumenica che si discosta dalla Tradizione cattolica su più punti: ridefinisce l’unità come un obiettivo futuro piuttosto che una realtà presente della Chiesa cattolica; minimizza le differenze dogmatiche riducendo l’unità al Credo niceno; confonde la legittima diversità con la pluralità dottrinale; abusa della teologia trinitaria per sostenere una moderna ecclesiologia pluralistica; propone di abbandonare le passate controversie dogmatiche e suggerisce che la preghiera può creare unità senza conversione.
L’effetto cumulativo è quello di sostituire il tradizionale invito della Chiesa ai fratelli separati a tornare all’unica vera Chiesa con una visione di reciproca convergenza dentro un cristianesimo condiviso e in evoluzione.

In conclusione, si può affermare con certezza che “In unitate fidei” è l’ennesimo disastro teologico ed ecclesiale, animato da uno scopo sinistro: la promozione di un falso ecumenismo come trampolino di lancio verso una religione mondiale unica.


novembre  2025
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