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| La “famiglia nel bosco” e noi. Qualche riflessione Articolo
di Aldo Maria Valli con un commento di Paolo Gulisano
![]() La famiglia Trevallion La famiglia vive grazie a ciò che coltiva. L’acqua è prelevata da un pozzo, l’elettricità è fornita dai pannelli solari. I bimbi non vanno a scuola, ma sono gli stessi genitori a provvedere alla loro istruzione. La mamma, Catherine Birmingham, quarantacinque anni, è australiana. Faceva l’insegnante di equitazione. Il papà, Nathan Trevallion, cinquantuno anni, è inglese. Ha fatto il cuoco, il boscaiolo e l’artigiano. Due dei figli sono gemelli di sei anni, la maggiore è una bambina di otto anni. Ora si trovano in una comunità di accoglienza per minori insieme alla madre, mentre il padre è rimasto nella casa nel bosco. ![]() La casa nel bosco Nessuno li ha costretti a vivere così. È stata una scelta libera e ponderata. Sui bambini non sono stati trovati segni di maltrattamento o abuso. Il caso emerse nel settembre dell’anno scorso, quando la famiglia fu vittima di una grave intossicazione da funghi, che richiese il ricovero in ospedale. I carabinieri cercarono di saperne di più e segnalarono il caso ai servizi sociali. Dopo alcuni sopralluoghi, la Procura per i minorenni dell’Aquila ha chiesto la sospensione della responsabilità genitoriale, accordata dal Tribunale. Nella relazione dei servizi sociali si legge che la famiglia “vive in una condizione di disagio abitativo in quanto non è stata dichiarata l’abitabilità dello stabile”, che “i membri della famiglia Trevallion non hanno interazioni sociali, non hanno entrate fisse” e “nella dimora non sono presenti i servizi igienici”. Si rileva che i tre bambini non hanno una “vita di relazione”, “non possono frequentare altri bambini liberamente” e che a loro vengono applicati i principi dell’unschooling, cioè l’apprendimento autonomo o guidato dai genitori. Notizia recente è che al Ministero dell’Istruzione “risulta regolarmente espletato l’obbligo scolastico attraverso l’educazione domiciliare legittimata dalla Costituzione e dalle leggi vigenti e tramite l’appoggio ad una scuola autorizzata”. La conferma è arrivata dal dirigente dell’istituto scolastico di riferimento attraverso l’ufficio scolastico regionale”. Il Tribunale non ha deciso solo sulla base del rapporto stilato dai servizi sociali. Nel decreto si legge che i genitori si sono opposti alle richieste dei servizi sociali di sottoporre i bambini a visite mediche specialistiche. Per farlo avrebbero chiesto in cambio una somma di denaro. L’avvocato difensore della famiglia contesta le conclusioni del Tribunale e dei servizi sociali: i bambini hanno sostenuto esami scolastici in Toscana, e un’insegnante va periodicamente a far loro lezione. La Procura per i minorenni dice che la casa nel bosco è fatiscente e con gravi danni strutturali, ma secondo l’avvocato sarebbe in ristrutturazione. Inoltre, sempre secondo l’avvocato, i bimbi sono seguiti da un pediatra. ![]() Nathan Trevallion e la moglie Catherine Birmingham Secondo i due genitori parlare di “famiglia nel bosco” è scorretto. Certo, vivono in mezzo agli alberi, ma in prossimità di altre abitazioni. Ogni settimana la famiglia va in paese, i bambini “conoscono il mondo” e giocano con altri bimbi al parco. ![]() Secondo la legge italiana per arrivare all’allontanamento di un minore dai genitori ci devono essere alcune condizioni, come una situazione abitativa inadeguata, difficoltà nel percorso educativo, forti conflitti familiari. La decisione non è sempre definitiva e può includere incontri sorvegliati con i genitori. La mia esperienza di cronista mi dice che, soprattutto in casi come questi, prima di esprimere un giudizio occorre conoscere bene fatti e circostanze, senza accontentarsi di resoconti di seconda o terza mano. Ammetto però di aver provato un’istintiva simpatia per la famiglia che ha fatto una scelta così controcorrente. L’anarchico che è in me apprezza chi si affranca dalle imposizioni sociali e sceglie vie alternative. Inoltre l’immagine del bosco mi ha subito richiamato alla mente il “passaggio al bosco” di cui parla Ernst Jünger nel suo “Trattato del ribelle”, opera che ho sempre apprezzato per le domande che pone sui sistemi in cui viviamo (il libro uscì per la prima volta nel 1951) e sulle relative coercizioni, molte delle quali abbiamo sperimentato durante la psicopandemia. Ispirato dalle foreste della Germania, Jünger parla di Waldgang, che in italiano è stato reso appunto con l’espressione “passaggio al bosco”: il bosco come metafora della casa dell’uomo libero, che non si piega agli obblighi imposti e all’obbedienza acritica. Il bosco, dunque, come resistenza attiva, come diritto di scelta, come spazio di libertà, come il “non conformarsi alla mentalità del mondo”, ben sapendo che una scelta del genere può comportare rischi e persecuzione, specie da parte dello Stato che tutto vuole controllare e normalizzare. “Noi vorremmo restare, ma abbiamo un’altra opzione: prendiamo i passaporti, mia moglie con i bambini tornano in Australia e io resto qui a badare agli animali” ha detto Nathan Trevallion ai giornalisti. “Ma speriamo di no, perché a noi piace la nostra casa qui”. Sulla vicenda della famiglia Trevallion ecco un articolo del nostro Paolo Gulisano. A.M.V. ***
di Paolo Gulisano Il caso della “famiglia che vive nel bosco” è l’ennesimo episodio di Finestra di Overton verificatosi negli ultimi anni: una trasformazione della mentalità, ma anche delle prassi. I fatti sono noti: una coppia di australiani con i loro figli si è stabilita in Abruzzo, in una zona selvaggia. Un tempo questa sorta di hippies, di figli dei fiori un po’ fuori tempo, sarebbe stata vista con simpatia, magari suscitando un po’ di sospetti solo in quelli che venivano chiamati “benpensanti”. Ora invece la famiglia è attenzionata dalle istituzioni, in particolare da un giudice del Tribunale dei minori. Anche se apparentemente viviamo in una società libertaria (o sedicente tale), ecologista, attenta alla raccolta differenziata e alle piste ciclabili, il sistema non tollera un certo tipo di libertà. Una libertà vera, autenticamente controcorrente. Non è che il giudice dell’Aquila non conosca Greta Thumberg e Papa Francesco: lui (e il sistema che rappresenta) pretende che la libertà sia vigilata, controllata, codificata. Ad esempio: c’è l’obbligo scolastico cui adempiere, nonché l’obbligo vaccinale. I genitori hanno deciso diversamente per i loro figli: pensano di dar loro un’istruzione in casa, in famiglia, e pensano che per la loro salute si possano seguire altre vie rispetto al mainstream. Catherine Birmingham e Nathan Trevallion hanno voltato le spalle all’intero sistema formativo occidentale. Per questo la Procura per i minorenni dell’Aquila ha chiesto un intervento, non riconoscendo il diritto a un’educazione autonoma, che peraltro esiste ed è chiamato unschooling, ovvero assenza di istruzione pubblica. In una società in cui sta dilagando l’assenza di cure, in particolare per gli anziani, non è ammesso che ci si assenti dalla scuola, essenziale per l’indottrinamento delle nuove generazioni fin dalla prima infanzia. Dove, se non a scuola, si può essere istruiti sull’uso degli smartphone, sulle teorie del gender, sull’uso dell’Intelligenza Artificiale? Lo Stato vuole ancora una volta – come ha fatto con mano pesante – riaffermare la sua proprietà sulle vite dei cittadini. Così il Tribunale per i minorenni ha disposto l’allontanamento dei tre figli dai propri genitori, con un disposto di tipo cambogiano. È una violazione gravissima del diritto dei genitori, riconosciuto dalla Costituzione e anche dal buon senso: le istituzioni dovrebbero intervenire solo nei casi estremi di abusi, maltrattamenti e trascuratezze accertate, non per punire uno stile di vita non corrispondente allo standard dominante. Alla famiglia Trevallion si vuole imporre la “socializzazione”, che non è un bene in sé, ma fa parte di un’ideologia massificante e deleteria. “Questo Paese non ha mai amato la libertà. Non sa cosa sia” ha commentato lo scrittore Danilo Quinto, ex radicale convertito. Catherine Birmingham è nata in una famiglia cattolica di origine irlandese, e certamente ha nel DNA l’irriducibile desiderio di libertà di questo popolo che ha lottato per secoli contro chi lo voleva schiacciare, umiliare, distruggere. La sua determinazione, insieme a quella del marito, ricorda un altro tipo di ribellione, quella descritta dal grande autore tedesco Ernst Jünger, nel suo volume “Der Waldgang”, saggio sociopolitico pubblicato nel 1951, e tradotto in Italia col titolo “Trattato del ribelle”, edito da Adelphi. La parola Waldgang ha una sfumatura di significato un po’ diversa: significa letteralmente colui che passa al bosco. L’autore si interroga sui compiti che spettano agli uomini liberi, nei momenti storici in cui la tirannia impedisce loro di esprimere le proprie giuste rivendicazioni. La definizione di Walgang è individuale ma si esplicita dentro alla comunità: “Quando tutte le istituzioni divengono equivoche o addirittura sospette, e persino nelle chiese si sente pregare ad alta voce per i persecutori, anziché per le vittime, la responsabilità morale passa nelle mani del singolo, o meglio del singolo che non si è ancora piegato” (E. Jünger, “Trattato del ribelle”, pag. 114). Qualcuno ebbe a definire questo libro la “Magna Charta” della disobbedienza civile in un’epoca in cui i governi, anche quelli che si definiscono democratici, esercitano forme di tirannia che cercano peraltro di giustificare. Spesso utilizzando il criterio del sedicente “miglior interesse”. “In his best interest” si leggeva nelle sentenze dei giudici inglesi che stabilirono la morte per bambini disabili come Charlie Gard e Alfie Evans. Pertanto si rende necessario compiere il “passaggio al bosco”, diventare Waldgänger, ribelle, anticonformista autentico, spiritualmente un eremita. Per quel che riguarda il luogo, diceva Ernst Jünger, il bosco è dappertutto: in zone disabitate e nelle città, dove il ribelle vive nascosto oppure si maschera dietro il paravento di una professione. Il bosco è nel deserto, il bosco è nella macchia. Il bosco è in ogni luogo in cui praticare il dissenso. Ma soprattutto il bosco è nelle retrovie del nemico stesso. Il ribelle conosce bene i campi di lavoro forzato, i nascondigli degli oppressi, le minoranze che non hanno paura, perché solo la libertà può dominare la paura trasmessa dallo Stato illiberale che si oppone alla libertà del singolo. “L’uomo libero agisce in nome di tutti: il suo sacrificio vale anche per gli altri” scriveva lo scrittore tedesco. La via del bosco percorsa dalla famiglia Trevallion è un esempio cui guardare e una testimonianza da sostenere. |