E' solo nella Cattedrale che il Vescovo può celebrare la Missa in Cena Domini

di Don Francesco Cupello

Non mi sembra assolutamente condivisibile l’usanza di qualche Vescovo di celebrare la Missa in Cena Domini non nella cattedrale, che è il cuore della diocesi (da qui anche la tradizione per il Papa come Vescovo di Roma di celebrarla in S. Giovanni in Laterano sua cattedrale), ma in questa o quella cappella, o periferia che dir si voglia, per sottolineare la vicinanza del Vescovo a particolari situazioni che richiedono solidarietà e comprensione.

Nulla da eccepire, naturalmente, sulle ottime intenzioni e finalità di tale anomala prassi. Ma di un’anomalia appunto si tratta, perché la centralità del Triduo Pasquale nell’Anno Liturgico e la sua fondamentale importanza per la vita della Chiesa, non consentono deviazioni di sorta dal suo essenziale ordinamento al Mistero Pasquale di Cristo, né attenuazione di quella sua luce che indirizza il cristiano verso la Croce e la Risurrezione: «Nos autem gloriari oportet in cruce Domini nostri Jesu Christi in quo salus, vita et resurrectio nostra», si canta nell’antifona di ingresso della Messa vespertina del Giovedì Santo.
Nulla, neanche la più nobile intenzione, quale un gesto di ammirevole carità, può distrarre dal suo fine primario la celebrazione, una volta all’anno, dell’unica Messa denominata in Cena Domini, unica nell’Anno e unica nella sera del giorno, perché a nessun sacerdote è consentito il Giovedì Santo di celebrare Messa senza popolo.

Il Giovedì Santo si celebra l’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio, non la lavanda dei piedi, che di quel giorno è un importante e significativo corollario, ma non il punto focale; si celebra il sacramento dell’Amore, non l’attività caritativa dei cristiani. Quest’ultima è strettamente unita, come da esso derivante, al sacramento dell’Eucaristia e del sacerdozio, perciò non la si può enfatizzare, spostando la celebrazione dalla cattedrale (che è il luogo prescritto dalle norme liturgiche) ad altri luoghi periferici come le cappelle dei carceri, degli ospedali, degli orfanatrofi, e via dicendo.

D’altra parte al n. 45 delle Norme per la celebrazione del Triduo Pasquale della Congregazione per il Culto divino emanate il 16 gennaio 1988, leggiamo: «Tutta l’attenzione dell’anima deve rivolgersi ai misteri che in questa Messa [si riferisce al Giovedì Santo] soprattutto vengono ricordati: cioè l’istituzione eucaristica, l’istituzione dell’ordine sacerdotale e il comando del Signore sulla carità fraterna: tutto ciò venga spiegato nell’omelia».
Ora andando a celebrare la Messa vespertina del Giovedì Santo in un carcere (dove ci sono addirittura dei musulmani, cosa assolutamente in contraddizione con tutta la prassi millenaria della Chiesa, che non ammette alla celebrazione eucaristica i non battezzati) o in un orfanatrofio, o in una casa di riposo, c’è da chiedersi come si possa ottemperare alla suddetta norma liturgica.
Né va dimenticato che al n. 41 del su citato documento, si prescrive che la celebrazione deve essere particolarmente solenne, cosa assolutamente impossibile o che sarebbe sproporzionata in una cappella: «Per compiere convenientemente le celebrazioni del triduo pasquale, si richiede un congruo numero di ministri e di ministranti… I pastori abbiano cura di spiegare nel modo migliore ai fedeli il significato e la struttura dei riti che si celebrano e di prepararli a una partecipazione attiva e fruttuosa».
    
Al n. 43, circa la non convenienza di celebrare i riti del Triduo Pasquale in piccole comunità, gruppi o cappelle, si dice: «E’ molto conveniente che le piccole comunità religiose sia clericali sia non clericali e le altre comunità laicali prendano parte alle celebrazioni del triduo pasquale nelle chiese maggiori. Similmente, qualora in qualche luogo risulti insufficiente il numero dei partecipanti, dei ministranti e dei cantori, le celebrazioni del triduo pasquale vengano omesse e i fedeli si radunino insieme in qualche chiesa più grande»
[faccio notare tra parentesi che questa norma è un riflesso molto significativo di quella sulla celebrazione dell’antica Pasqua ebraica riportata sul libro dell’Esodo, il cui passo viene proposto proprio nella prima lettura della Messa vespertina del Giovedì Santo: «Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone».
    
Il Giovedì Santo non si celebra, come dicevamo, la giornata della carità cristiana, ma l’istituzione dell’Eucaristia che dà senso pieno e soprannaturalità alla carità, altrimenti questa sarebbe solo filantropia. In altre parole: l’Eucaristia senza la carità si riduce a pura e vuota ritualità, e la carità senza radicamento nel dono che Cristo fa di sé nell’Eucaristia, sarebbe solo un’opera buona, che può essere compiuta ottimamente anche dai non cristiani.
    
Il Vescovo può e talora deve (se fosse necessario per stimolare tutti alla solidarietà con i più poveri) compiere il gesto simbolico della lavanda dei piedi a persone particolarmente bisognose, come carcerati, anziani, orfani, handicappati, ecc., ma non è necessario che lo faccia nei luoghi dove esse sono degenti, altrimenti il punto focale del rito si sposta inevitabilmente dal suo centro. E’ molto più conforme ai canoni della teologia liturgica del giorno invitare queste persone in cattedrale e indicarle a tutto il popolo, piuttosto che andare a chiudersi nella cappella di un carcere o di un ospedale, lasciando fuori clero e popolo.
Semmai, dopo la celebrazione in cattedrale, il Vescovo può recarsi in quei luoghi e intrattenersi con quelle persone bisognose in una bella cena pasquale da lui offerta, cosa che sarebbe senz’altro più gradita e simpatica e non avrebbe meno impatto mediatico ai fini di una esemplare testimonianza di carità.



marzo 2014

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