A margine dell'articolo di Belvecchio

di Giovanni T. - Firenze


Il fatto è che questi Dottori, come l’Autore della risposta di «Avvenire» commentata da Belvecchio - che forse non hanno mai inteso dire delle “due fonti”; che forse della Tradizione hanno la stessa cognizione che donna Prassede aveva delle idee, cioè ne aveva poche; che forse hanno sentito parlare sì dell’intangibilità del dogma, ma non di un suo sviluppo solo ed esclusivamente in termini di «genuinità ed omogeneità» secondo la lezione del Lérins - questi Dottori i cui cervelli si sono allenati coi vari catechismi postconciliari, si levano ormai da cinquant’anni a «magistri» della Chiesa e - grave – spesso proprio dalla stessa asseverati come tali, interlocutori privilegiati di conferenze, simposi, celebrazioni varie.

Questo, si sa ormai fino alla noia, è il frutto conciliare di quella desistenza magisteriale di una Chiesa che da docente si è fatta discente, al pari con le altre religioni, di una Chiesa in dialogo col mondo, che ha perso l’unità della dottrina proprio in nome di quella tradizione vivente, accusata a ragione di essere stata il vero cavallo di Troia all’interno delle mura d’Oltretevere: fiumi di parole sono stati scritti e detti al riguardo, soprattutto dalla parte tradizionalista.

L’accantonamento della fonte-Tradizione e l’apertura alla dialettica col mondo del suo organo portante che era il Magistero, ha alterato tutto il sistema.
In quelle conferenze, simposi e celebrazioni varie, gli eredi di quei vincitori al Vaticano II si ostinavano fino all’inverosimile sulla bontà di questa Chiesa solo rinnovata, cioè solo rinfrescata; e giuravano sulla sua continuità col passato, ma il risultato era a tutti evidente e non poteva restar camuffato a lungo: la Chiesa di ieri non è quella di oggi e il fedele di oggi non è il christifidelis di un tempo.
E dire che non si vuol rivendicare la fissità della Chiesa, cosa anacronistica e improponibile, ma certo siamo molto in prossimità del superamento di quel delicato diaframma fra una Chiesa che «diviene» naturalmente e una Chiesa che «muta» la sua stessa essenza.

Tuttavia la Chiesa, «questa» amata Chiesa per la quale ad esempio Palmaro ha speso tutta la sua breve ed intensa vita, continua ad essere assistita dallo Spirito Santo ed è all’interno della Chiesa che, con le stesse parole di Palmaro, va continuato l’«antico duello»: quel duello che il filosofo Radaelli vuole per “ricreare un ambiente santamente dogmatico” e che il filosofo Livi vuole per districarsi dalla sterile contrapposizione progressisti-conservatori ed ancorare la Chiesa alla «verità certamente rivelata» - cioè al dogma - e non ad ogni “verità ipotizzata dall’uomo”.

Del resto, non è forse vero il criterio intuito da Amerio secondo cui “la Chiesa non va perduta nel caso non pareggiasse la verità ma nel caso perdesse la verità”; e non è forse il fuoco della verità che può far risplendere la trascendenza della Chiesa?

Forti di questa fedeltà alla verità, che l’antico duello si svolga dunque con le armi della verità di un linguaggio non più ambiguo, guardingo, di legno (Radaelli); sul terreno di verità che è Cristo testimoniato dalla Chiesa depositaria della Rivelazione, che è Tradizione e Scrittura proclamata attraverso il Magistero; con l’abito di verità delle virtù, oggi nemmeno più prese in considerazione dai manuali di catechismo e men che meno insegnate ai nostri figli.
E che il confronto abbia ad oggetto la «conservazione» della verità custodita dalla Chiesa, che passa attraverso la fedeltà magisteriale alle Fonti e da entrambe – Scrittura e Tradizione – alla sana dottrina di sempre.