IGNORANZA, CIARLE  E BANALITA’

di L. P.

- Domenica delle Palme - Omelia papale
- Lavanda dei piedi in Coena Domini
- Sono troppe le persecuzioni contro i cristiani nel mondo!

Titoliamo così questo nostro servizio perché è impossibile, oramai, data la profluvie di amenità, di superficiale esegesi, di ignoranza e di schietta demagogìa che trabocca dai sacri palazzi, non cogliere quotidianamente lo spunto per interventi  critici in funzione di corretta controinformazione.
Già in altre numerose occasioni abbiamo, in merito, espresso la nostra opinione col corredo di autorevoli fonti quali la Scrittura innanzi tutto e i santi Padri. Qualche lettore potrebbe obiettarci che ai semplici fedeli laici non è consentito criticare il Magistero  e, men che mai, il sommo Pontefice. Rispondiamo, affermando che non solo è consentito ma viene loro riconosciuto quale diritto, oltre che dovere, dal CJC che nel canone 212 § 3 così recita:
In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa, e di renderlo noto agli altri fedeli”.

E non si creda che ciò sia  esercizio  piacevole e goliardico perché accanto alla sicurezza di poter obiettare c’è un atteggiamento di sommo rispetto, di umiltà e di reverenza che, tuttavia, non può impedire che l’esposizione delle controragioni, svolta con onesta e diligente documentazione, si presenti connotata anche da una vis apologetica di schietta e perentoria  espressività. Un parlare che sia “si si no no”.
   
D’altra parte, a tutelare la dignità dei Pastori c’è sempre il controllo della direzione editoriale pronta e sollecita a vigilare sull’ortodossìa e sulla convenienza degli elaborati, tanto nel contenuto che nella forma.
    
Ciò premesso per debita informazione, diamo corso alla nostra carrellata.


DOMENICA DELLE PALME  – OMELIA PAPALE

Roma 13/4/2014




La scorsa Domenica delle Palme, celebrata con la Santa Messa in Piazza San Pietro, papa Bergoglio ha svolto la sua omelìa incentrandola su una domanda: “E io chi sono?”. Chiaramente una forma di esame di coscienza che, in verità, non sarebbe male se periodicamente tutti, ma tutti, facessero.
  
Nel passare in rassegna  le varie possibili figure a cui paragonarsi o in cui identificarsi  – Giuda, un popolano festante che accoglie Gesù con la palma, un fariseo, un soldato, un traditore – egli si è visto come Pilato col chiedersi: “Sono io come Pilato? Quando vedo che la situazione è difficile, mi lavo le mani e non so assumere la mia responsabilità e lascio condannare – o condanno io – le persone?” (O. R. 14/4/2014)
   
A siffatta domanda è stato naturale e repentino pensare alla paradossale quanto biasimevole vicenda dei Frati Francescani dell’Immacolata, condannati da papa Bergoglio -  lo stesso che ora si domanda se mai abbia condannato qualcuno lavandosi le mani e scaricando su altri l’onere della responsabilità -  a un regime commissariale ed inquisitorio con cui, tramite la tetra figura del cappuccino padre Fidenzio  Volpi, si sta sistematicamente demolendo, frazionando e disperdendo un Ordine religioso che ha la colpa di essere stato fedele e rigorosamente legato alla Tradizione. Per dirla in breve, il reato maggiore, e forse l’unico, consiste nella celebrazione della Messa secondo il Vetus Ordo, in latino, tanto è vero che la soppressione di questa è stata il primo, celere  provvedimento, per non parlare, poi, della decisione di stampo sovietico, di esiliare il fondatore – “Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge” (Mt. 26,31) – e con lui, gli intelletti più eminenti, e di far pagare le spese della gestione commissariale allo stesso Ordine  nello stile dei tiranni che fanno pagare la pallottola allo stesso condannato. 
Che la vicenda non sia un esempio di tenerezza e di  misericordia e non sia una chiacchiera, è dimostrato dalla  petizione, con cui si è chiesto l’allontanamento del commissario, e alla quale è arrivato  il sostegno di  almeno 10 mila firme di persone d’ogni estrazione sociale, compresi molti  ecclesiastici.
Ed allora noi aspettiamo  che il Papa  risponda alla domanda che si è posto.
Se la darà? Sarà possibile conoscerla? Potrà dire: ”Non ho condannato alcuno”?

Nel successivo chiedersi “Io chi sono?” egli evoca la figura del Cireneo “che tornava dal lavoro, ma ha avuto la buona volontà di aiutare il Signore a portare la croce”. Altra domanda: “Sono io come lui?
   
Ciò che ci lascia perplessi – usando un eufemismo – non è tanto l’interrogativo in sé che si colloca nella sequenza delle precedenti domande, quanto la descrizione morale del personaggio, il cireneo, presentato come uomo di “buona volontà”, il quale, a dir la verità, non ebbe affatto spontanea e buona volontà di aiutare il Signore. La narrazione che ne fa Matteo (27, 32) ce lo presenta, infatti, come resistente e recalcitrante all’ordine impartitogli dai soldati i quali lo obbligano a prendere la croce. L’interpretazione data al cireneo come persona compassionevole, sensibile, disponibile e sollecita a spartire il peso e il tormento della croce, è un luogo comune, un’operazione iconografica scorretta, una distorsione pietosa ma antistorica che non trova riscontro documentale. Vediamo, allora, cosa si dice nelle  tre lingue – greco, latino, italiano – a questo proposito.
    “Exerchòmenoi  dè  èuron  ànthropon  Kyrhenàion  onòmati  Simòna. Tùton  engàreusan  ina àrhe  ton stàuron autoù” – Exeuntes autem invenerunt hominem  Cyrenaeum nomine Simonem: hunc angariaverunt ut tolleret crucem ejusOr, nell’uscire, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone e lo costrinsero a portare la croce di lui”.

Il greco “engàreusan” che Gerolamo ha tradotto con “angariaverunt”, non dissimile dall’italiano “angariarono” (che sarebbe molto più espressivo che non “costrinsero” come è scritto in “La Bibbia - ed. Paoline 1962”)  caratterizza ed evidenzia la forte opposizione dell’uomo a prendersi la croce altrui e la violenza dei soldati per imporgliela. 
Altro che buona volontà! La verità è che Gesù, nella salita della sua Via Crucis, non è stato aiutato spontaneamente da alcuno - salvo la pia Veronica – e, pertanto, i dubbii, le rimostranze, la stizza, la delusione  lo scoramento che il Papa, in un’omelìa di Santa Marta (cfr.: Agerecontra, 21/01/2014 - Pietro Ferrari), con fare e predicare piuttosto maldestro ed irriverente, ha ipotizzato essere i sentimenti di Maria sotto la Croce, sono invece, e certamente, i sentimenti del cireneo che, sotto un peso non voluto e respinto, si sarà indignato anche con il condannato, con se stesso e con quella mala coincidenza  di transitare, tornando dalla campagna, proprio su quella strada. Sorprende, pertanto, che papa Bergoglio, sommo  maestro, conoscitore ed  interprete della parola di Cristo, si lasci prendere la mano e l’intelletto da moti di omeopatica pastorale e da sentimentalismo neurovegetativo per commuovere  le folle. Ma, sulla scorta di quanto avvenuto  da un anno in qua, crediamo che pochi siano, oramai, i motivi per meravigliarci e che, al contrario, molti siano quelli per credere che la Chiesa abbia imboccato definitivamente la china del relativismo e del personalismo. Oltre che dello stravolgimento esegetico della Scrittura.



LAVANDA DEI PIEDI IN COENA DOMINI

Centro don Gnocchi – Roma 17/4/2014




    
Giovedì santo,  giorno in cui si commemorano la Cena, l’istituzione dell’Eucaristìa, la lavanda dei piedi, la consacrazione degli Apostoli quali pastori del gregge cattolico, lo svelamento del traditore e la cattura di Gesù: papa Bergoglio ha voluto officiare la lavanda dei piedi replicando l’eversiva variante del rito già messa in atto lo scorso anno quando, invece di celebrarla in San Giovanni in Laterano con dodici dei suoi cardinali, ha pensato, con colpo teatrale, di farla presso il carcere minorile di Roma, lavando i piedi a dodici detenuti fra cui una giovane islamica. La stampa mondiale ha, con risalto squillante, dato la notizia che anche quest’anno il Pontefice, “Servus servorum”, con atto di profonda umiltà e sublime carità, ha compiuto il gesto di lavare i piedi a dodici persone disabili, dai 16 agli 86 anni, ricoverate presso il “Centro don Gnocchi” in Roma, di diversa nazionalità, patologìa, incluso, naturalmente, un islamico.
E fa [Gesù] questo gesto del lavare i piedi – ha spiegato il Pontefice – che è un gesto simbolico: lo facevano gli schiavi, i servi ai commensali che venivano a pranzo o a cena, perché a quel tempo le strade erano di terra e quando si entrava in una casa era necessario lavarsi i piedi. E Gesù – ha proseguito – fa un gesto, un lavoro, un servizio di schiavo, di servo” (O. R. 17/4/2014).

Questo è il pensiero centrale del suo discorso che assolve anche a una delucidazione storica.  Osserviamo, però, in questa descrizione, una lieve discrepanza perché le strade, essendo polverose, la lavanda più che essere un atto simbolico, come afferma il papa, diventa una necessità igienica. Vedremo come Gesù ne farà, invece, un segno di  sublime e sacra significanza.
Il lettore penserà che l’aggettivo “eversivo”, sopra adoperato, sia, per tale vicenda e per la valenza dell’atto pontificio, particolarmente esagerato ed irriguardoso. Noi, Vangelo alla mano, dimostreremo come papa Bergoglio, qui come in tanti altri passi, abbia “interpretato” la parola di Cristo invece di accettarla ed adempierla nel suo chiaro ed inequivocabile significato.
Gesù, nella sua catechesi, non mai dispensato consigli o suggerimenti, da interpretare nel più e nel meno, ma ha sempre distribuito verità, precetti, ordini e comandi. Gesù, pertanto, lo si sappia, non va “interpretato”  secondo le mode e i tempi, perché la sua parola è talmente chiara – si si no no – che non lascia spazio alcuno ad esegesi o a riduzioni soggettive. Ed infatti, dopo la resurrezione, nel momento di ascendere al cielo così parla ai suoi apostoli:
Data est mihi omnis potestas in caelo et in terra. Euntes ergo docete omnes gentes baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, docentes eos servare omnia quaecumque mandavi vobis” (Mt. 28, 18/20) – Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate ed insegnate a tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro di osservare tutte quelle cose che io vi ho comandato”.

Non ha detto, cioè: “Consilium dedi vobis”, come, invece, pare che l’intendano i moderni neoterici teologi e il papa.
   
La lavanda dei piedi che Gesù compie ai suoi discepoli va letta, pertanto, nella sua reale ed unica espressione e di questa daremo ampia spiegazione.
Vediamo, allora, come stanno le cose.
Il Vangelo di Giovanni – 13, 1/20 – ci dice che Gesù lava i piedi ai suoi discepoli prima di tutto perché, come spiega a Pietro, diversamente, essi non purificati, non potrebbero “avere parte con Lui” nel Regno dei Cieli e poi per dare loro una profonda e sferzante lezione di umiltà e di carità.
Ma perché la lavanda dei piedi e non quella della testa?
Perché per il compimento della missione che Gesù, prima di salire al cielo, avrebbe affidato loro, sarebbe stato necessario “camminare” per il mondo mettendo in preventivo  sofferenze, vesciche, piaghe e, perciò, quale segno – e non simbolo, Santità! - di consacrazione e di purezza Gesù lava loro i piedi. Lava i piedi ai suoi discepoli, a coloro che, in quanto “viatores”, viandanti,  saranno la struttura umana prima, unica, perenne  insostituibile della Chiesa militante; lava i piedi al  futuro suo Vicario – Pietro che, una volta ravveduto, dovrà confermare i suoi fratelli (Lc. 22,32) – lava i piedi agli altri, i futuri vescovi che saranno consacrati, da lì a poco, con l’Eucaristìa e  con l’ordine di andare missionarii presso tutte le genti.  Lava i piedi soltanto ai suoi discepoli, a coloro che scelse all’inizio della predicazione, lava i piedi anche al suo traditore, e solo a loro, perché se avesse inteso diversamente, come intende papa Francesco, Egli avrebbe ordinato a Pietro o a Giovanni di andare per la strade di Gerusalemme e di condurgli dodici tra poveracci, malati, israeliti, pagani, uomini e donne a cui lavare i piedi. Ma non è così, perché Gesù vuole far intendere che la lavanda è destinata a coloro, agli apostoli, che nel camminare avranno bisogno di sostegno e di conforto. E saranno quei piedi lavati e doloranti che lasceranno l’impronta del sangue del martirio, per persistente e santa memoria dei quali, fino al febbraio del 2013, i Pontefici calzeranno pantofole di panno di rosso, dopo di che, il cristianesimo adulto, pauperistico ed  aggiornato del nuovo Papa gesuita, ha pensato bene di metterle nella soffitta delle corbellerie antiquarie per far posto a banali, insignificanti ma telegeniche scarpe di cuoio nero. (Movenze e atteggiamenti che, tuttavia, stridono con quelle scene in cui, da capo della Chiesa, non si rifiuta di apparire al fianco dei potenti di questa terra – atei, massoni, guerrafondai, abortisti, re e regine, presidenti -  di inviare messaggi di augurio agli esponenti delle cupole del mondialismo finanziario o di ricevere in udienze private e fraterne le eminenze del laicismo). 
Ma torniamo alla lavanda dei piedi.
   
Papa Bergoglio, ha rovesciato e stravolto, a vantaggio di una visione mondana e populistica, quella funzione con cui avrebbe dovuto, secondo il comando stesso di Cristo, fortificare e purificare i piedi dei suoi vescovi che, proprio ai sensi di quella nuova evangelizzazione il cui dominus è il cardinale Rino Fisichella, dovrebbero incamminarsi lungo le vecchie e nuove strade. Similmente ci sembra debba avvenire anche nelle parrocchie ove il curato dovrebbe lavare i piedi ai suoi catechisti, a coloro che, per la funzione docente, sono gli evangelizzatori che “camminano”, ma come è consuetudine, alla lavanda accedono dodici fanciulli/fanciulle attorno ai quali s’accende la mischia dei genitori e dei parenti che, cinepresa e telefonini  pronti, immortalano la scena del proprio pargolo a piedi nudi nel catino.
Chiusa la parentesi, diciamo e ripetiamo che la sede deputata alla cerimonia papale è la cattedra di San Giovanni in Laterano e non, absit injuria verbis, un qualsiasi carcere, un centro di recupero, o il  lodevole e meritevole Centro Don Gnocchi.
C’è un tempo per tutto, anche per gli emarginati e sofferenti, ma Cristo ha la precedenza su tutto e su tutti e non è lecito sottrarGli  l’omaggio dovuto,  pur con la più degna e santa motivazione, quale quella dei poveri perché, come Egli chiaramente dice, “i poveri li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (Gv. 12, 8).
   
Ora, noi potremmo comprendere, ma non giustificare, l’entusiasmo e il consenso che siffatta celebrazione suscita presso le masse ondiflue dei cristiani, e presso la stampa mondialista, perché - e sono le statistiche a testimoniarlo -  il 76,4 % di essi non apre mai il Vangelo e, quindi, non conosce il passo e non sa il significato della lavanda, e in quanto ai mezzi d’informazione, si capisce come tali ribaltamenti spettacolari piacciano e vengano esaltati ed amplificati, perché sono funzionali al gioco di quelle forze occulte che, in seno alla stessa Chiesa, come ha predetto la Vergine a La Salette e a Fatima, stanno, da decenni, corrodendo ogni segno che sappia di Tradizione.
Ciò che ci turba e ci indigna è, invece, il silenzio vile e codardo di quanti, teologi, prelati, pastori, parroci, catechisti, che pur avvertendo aria di sovversione, tacciono ed annuiscono come compiaciuti cortigiani. Ma pure per costoro arriverà il “dies irae” quando dovranno dire, ma troppo tardi: “Vae mihi quia tacui!” (Is. 6, 5).


SONO TROPPE LE PERSECUZIONI CONTRO I CRISTIANI NEL MONDO!

Osservatore Romano – Radio vaticana
Roma 15/4/2014




Questo, il titolo che L’Osservatore Romano ha confezionato per dare risalto alla denuncia di Mons. Pietro Parolin, neo Segretario di Stato. Un titolo che dimostra quanta superficialità e insipienza caratterizzi il foglio vaticano perché, a far spicciola ironia, verrebbe da pensare che al prelato o al direttore del quotidiano starebbe bene una persecuzione a dose farmaceutica: quanto basta, o musicale: andante ma non troppo.
   
Ma ben altra è la ragione che ci induce a compitare questa notizia di cui è bene leggere la parte più espressiva, ecumanìaca  e meno cattolica.
   
Ancora oggi, in diversi contesti, tanti nostri fratelli e sorelle permangono oggetto di un odio anticristiano… e non sono solo i cattolici, ma anche ortodossi, evangelici, anglicani a sopportare l’onere della coerenza per amore di Gesù”.  
Si faccia la tara al linguaggio di pretto stile diplomatico con cui il prelato aggira, elegantemente, la cruda sostanza degli eventi laddove, pur in appresso citando Pakistan, Nigeria, Indonesia, Tanzania e Iraq, tace sull’unica matrice della violenza, quella  islamica, pudicamente (?) accontentandosi di definirla “contesto” così come il “permanere oggetto” delicato eufemismo per non dire “vittime”.
   
Ciò che non può essere accettato è considerare martiri, alla stregua dei cattolici, anche gli eretici e gli scismatici a cui si riconosce il merito di  “sopportare l’onere della coerenza per amore di Cristo”. Naturalmente, siamo abbastanza scafati per non avvertire, in queste mendaci  e accattivanti  parole, la melassa lutulenta e peciosa dell’ecumenismo, una melassa che cola sulle coscienze dei cristiani da quando il prossimo e nuovo santo, papa Giovanni XXIII, aprì le porte della Chiesa al mondo  col ricevere gli esponenti del protestantesimo, del comunismo internazionale, della massoneria alla quale assicurò e garantì l’esser lecita la contemporanea appartenenza alla Chiesa Cattolica; una putredine zuccherina  che ha continuato a corrodere le istituzioni e i riti con la consapevole opera di tutti i papi successivi. Ma noi crediamo e siamo certi  che, evangelici, anglicani, luterani, ortodossi scismatici e compagnìa citando, sono rami secchi, tralci scissi dal Corpo vivo di Cristo e, quindi, destinati a finire infecondi tra i sarmenti. Crediamo con fede certa ed inconcussa, a dispetto dei tanti Giacomo Canobbio, all’ “Extra Ecclesiam nulla salus”, e non perché ce lo abbia comunicato chissà quale teologo o esegeta, ma perché è Parola eterna e indeformabile del Fondatore stesso, Gesù Cristo Figlio di Dio che lo certifica.
   
Non v’è, tra gli informati, e quindi anche il segretario cardinal Parolin, chi non sappia come e secondo quali motivazioni sorsero le correnti scismatiche greche e quelle protestanti connotandosi come proprie e vere e violente defezioni e apostasìe e nelle quali, proprio perché staccate dal tronco della Santa Chiesa Cattolica, non alberga il benché minimo grado di santità e il benché minimo soffio dello Spirito Santo.

La si faccia finita di spacciare queste sètte per confessioni “sorelle”, ricche espressioni di spiritualità – eh già! anche il digiuno islamico è diventato strumento di abbondanti grazie divine!!! – e di considerarle parte della Chiesa di Cristo perché, lo ripetiamo fino all’estenuazione, quella Cattolica è l’unica Sua vera Chiesa.
Ma è tanto difficile cogliere il significato di questa parole “Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”? (Mt. 16,18).
Quale autorità può esercitare, in termini di dignità religiosa, una regina che si dichiara papessa della confessione anglicana?
Che valore salvifico possono detenere quella confessione sorta sul ceppo tossico dell’adulterio e quella nata dalla sensualità del monaco Lutero o quella ammantata di  superbia bizantina?

Io sono la vite, voi i tralci; chi rimane in Me ed Io in lui, questi porta molto frutto, perché senza di Me non potete far nulla. Se uno non rimane in  me, è gettato via come il sarmento e si secca, poi viene raccolto e gettato nel fuoco a bruciare” (Gv. 15, 5/6).
Mons. Parolin non è così obnubilato da non saper pesare e accogliere queste parole e, traendone le conseguenze, da  ritenere motivo di merito salvifico quella supposta coerenza nell’amore per Cristo che, secondo lui, fa del protestante, dello scismatico e dell’eretico un martire.
Porsi la domanda quale che sia o possa essere, nella fattispecie, il loro merito o la loro destinazione è cosa che si lascia al giudizio di Dio.
   
Un santo, di ben altra statura e scienza, e diciamo Sant’Agostino, ha chiarito, se ce ne fosse bisogno, quale sia la condizione per esser considerati martiri. “I martiri che subirono tanti mali, noi li riteniamo giusti solo se possiamo intendere la motivazione del loro patire” (Discorso 335/c). Detto brevemente: non è la pena che fa il martire ma la causa. Ora, gli  evangelici, anglicani, ortodossi fuori essendo della Comunione cattolica, fuori della Chiesa di Cristo che è quella guidata dal Suo Vicario, non raccolgono il frutto del proprio sacrificio perché “Chi non è con Me è contro di Me, e chi non raccoglie con Me, disperde” (Mt. 12, 30 - Lc. 11, 23).
    
Gesù ha chiaramente espresso una certezza, e non ventilato un’ipotesi, che la salvezza si conquista soltanto ed unicamente lavorando con Lui, seminando con Lui la buona semente e con Lui mietere e raccogliere. Altri significati non sono assolutamente possibili a meno di smentire la Sua Parola. Come, in effetti, da oltre 50 anni, il Magistero fa in maniera disinvolta con la tattica del discorso circiteristico – sì/però – certamente/ma – no/anche – è vero/tuttavia - riuscendo ad accreditare e ad imporre la dottrina dell’ossimoro “unità nella diversità” e della fumosa e barocca “ermeneutica nella continuità”.
  
Io sono il buon pastore. . . e ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste Io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (Gv. 10, 16).
I nostri – i miei - giovani adolescenti, frequentanti il catechismo, comprendono e sanno commentare il passo citato con semplicità perché semplice e netto è il significato. Ma le intelligenze dei grandi esegeti intendono “interpretare” perché i casi sono tanti, come diceva Geppetto al suo burattino, e, talora la parola di Cristo necessariamente deve essere piallata e smussata a vantaggio di un’ecumanìa che faccia di tutte le confessioni un fascio di grano buono. Il famoso e nefasto adattamento della Chiesa allo spirito dei tempi, lo gnostico hegeliano “Zeitgeist”. 
Ma non così  la pensava un grande santo, Giovanni Battista Maria Vianney, noto come il “Curato d’Ars”.
«Il curato d’Ars ebbe un giorno un colloquio con un ricco protestante. Il Servo di Dio, non sapendo che l’uomo al quale aveva parlato di Nostro Signore e dei santi come sapeva parlare lui, con la più grande e larga effusione, avesse la sventura di appartenere alla religione riformata, gli mise, alla fine, una medaglia fra le mani. Colui disse, ricevendola < Signor Curato, voi date una medaglia a un eretico. Perlomeno, dal vostro punto di vista, io non sono che un eretico. Nonostante la diversità delle nostre credenze, spero che un giorno saremo tutti e due in cielo>.
«Il Curato prese la mano dell’interlocutore e, fissando su di lui degli occhi nei quali brillava la vivacità della sua  fede e l’ardore  della carità, gli disse con  un profondo  sentimento di compassionevole tenerezza: <Ahimè, mio caro non saremo uniti lassù che nella misura in cui avremo cominciato a esserlo sulla terra: la morte non potrà modificare niente. Dove l’albero casca, lì resta>.
«<Signor Curato, mi fido del Cristo che ha detto . “Chi crederà in Me, avrà la vita eterna”>
«<Ah, amico mio, il Signore ha anche detto ben altro. Ha detto che chi non avrebbe ascoltato la sua Chiesa doveva essere considerato come un pagano. Ha detto che non ci doveva essere che un solo gregge e un solo pastore, e ha stabilito San Pietro come capo di questo gregge> Poi, con una voce più dolce e penetrante. <Mio caro, non ci sono due maniere buone per servire il Signore; non ce n’è che una, di servirlo cioè come Egli vuole essere servito>.
«E qui il Curato scomparve, lasciando l’uomo penetrato da un turbamento salutare, precursore della grazia divina, dalla quale ci fu detto che più tardi egli fu felicemente vinto». (Alfred Monnin: Spirito del Curato d’Ars – Ed. Ares 2009 pag. 172/173 ).
  
E ciò basti a quanti, come il Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, credono alle due maniere.




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