A margine di un’intervista in cui si tratta di “sedevacantismo”

di Giovanni Servodio

Il n° 3152, del 31 luglio/3 settembre 2014, del settimanale francese Rivarol ha pubblicato un’intervista con Don Antony Cedaka, un valente e preparato sacerdote cattolico americano che appartiene a quella parte di cattolici che ritengono che la sede di Pietro sia vacante.

Posto che questi cattolici hanno mille motivi che li portano a formulare una tale opinione e posto che si tratta di cattolici a cui sta fortemente e correttamente a cuore il mantenimento della Fede, noi abbiamo sempre espresso delle riserve su tale opinione, riserve basate su delle considerazioni che ci portano ad avere un’opinione diversa.

Questa intervista di Don Cedaka ci ha indotti a redigere questa nota, non tanto per contestare la sua posizione in particolare, quanto per accennare alle nostre riserve in generale ed introdurre quelle considerazioni che i sostenitori della vacanza della sede di Pietro sembra trascurino.

Don Cedaka argomenta dicendo tra le altre cose:
«Un cattolico constata facilmente che ciò che dice Bergoglio non è cattolico, che si tratti di dottrina o di morale. E tuttavia, noi sappiamo che la dottrina cattolica insegna che la gerarchia della Chiesa non può indurci in errore o spingerci al male. Siamo al cospetto di un problema: noi crediamo che la Chiesa e il Papa, in virtù dell’indefettibilità, non possono errare; ma è gioco forza constatare che per restare cattolici non si può seguire Bergoglio. La sola maniera di spiegare questa contraddizione è di arrendersi all’evidenza: non siamo di fronte ad una gerarchia cattolica. Queste persone non sono investite dell’autorità di Gesù Cristo

Non v’è dubbio che tale contraddizione esista, perché non si può dare l’infallibilità del magistero papale, da un lato, e la constatazione dell’erranza di tale magistero, dall’altro. Tuttavia la soluzione proposta, per quanto logica, appare sbrigativa e semplicistica: mentre da un lato essa tiene conto della contraddizione in sé, trascurando l’oggettiva esistenza del Papa, dall’altro si basa su presupposti coerenti con un contesto normale, trascurando la complessiva anormalità che caratterizza il mondo attuale e che inevitabilmente attiene anche al mondo cattolico.

Se si considera che, secondo questa ipotesi, si avrebbe, non solo la vacanza della sede di Pietro, ma anche la conseguente invalidità di gran parte della gerarchia, e che questo stato di cose durerebbe da circa cinquant’anni, se ne deve dedurre che la stessa esistenza della Chiesa sarebbe di fatto azzerata: se non c’è il Papa e se di conseguenza non c’è più neanche la gerarchia, di fatto non c’è più la Chiesa; e questa situazione che dura da tempo potrebbe continuare chissà per quanto ancora.
Ora, è evidente che se anche fossimo alla Parusia, non può darsi l’inesistenza di fatto della Chiesa, semplicemente perché in contraddizione con il “non prevalebunt” promesso da Nostro Signore, così che la soluzione della contraddizione di prima si rivelerebbe essere una nuova e più grave contraddizione, quindi una non soluzione. Salvo considerare che, nonostante tutto, non si può dire che la Chiesa possa venire meno, perché la continuità delle consacrazioni episcopali, sempre valide nonostante le deficienze dei ministri, ne assicura la permanenza; il che porta a concludere che l’ipotesi “sedevacantista” si rivela essere superflua, perché quest’ultima osservazione vale anche in mancanza di essa.

La principale argomentazione che fonderebbe la constatazione dell’inesistenza del Papa in quanto tale, è costituita da ciò che Don Cedaka accenna in questa stessa intervista:
«Per di più, l’eresia formale non è necessaria per separare qualcuno dalla Chiesa, è sufficiente l’eresia materiale e pubblica; è questo l’insegnamento degli autori, per esempio di Van Noort (Dogmatic Theology 2 : 153), così che senza trovarsi nelle condizioni dell’eresia formale, un eretico materiale che pronunci pubblicamente delle eresie si pone fuori dalla Chiesa; ed è evidente che chi è fuori dalla Chiesa non può esserne il capo. … Un cattolico deve agire prima di tutto in accordo con la sua fede, lungi da ogni considerazione materiale

Anche qui, l’argomentazione è del tutto logica, perché non può darsi che il capo stesso della Chiesa e tutti, o quasi, i componenti la gerarchia, possano ad un tempo essere parte essenziale della Chiesa e insegnare in palese contraddizione con la Chiesa. Tuttavia questa constatazione, mentre è semplice e consequenziale in una condizione di complessiva normalità, diventa problematica e manchevole in un contesto come quello attuale che è connotato da una diffusa anormalità.

Non è normale il mondo attuale, per il suo rifiutare la realtà oggettiva dell’esistenza di Dio e della necessaria sottomissione alle Sue leggi; e non è normale la compagine cattolica attuale che è giunta a subordinare la centralità di Dio alla centralità dell’uomo; e a questa anormalità, nella Chiesa si è giunti non con una svolta improvvisa, ma dopo aver seguito un lungo e complesso processo di allontanamento da Dio, i cui effetti dirompenti si sono manifestati col Vaticano II. Da alcuni secoli nella Chiesa sono stati allevati i germi della dissoluzione e gli uomini portatori di tali germi, e si è permesso che essi andassero ad occupare tutti i posti della gerarchia, fino al Soglio di Pietro.
In questa complessiva anormalità, tutti i riferimenti teologici e canonici validi per un contesto normale, si rivelano non più idonei, tanto da determinare la necessità di considerazioni supplementari e coerenti con lo stato attuale, non in termini di “adattamento ai tempi”, quanto in termini di aderenza alla realtà. Diversamente si corre il rischio di individuare le correzioni e i conseguenti comportamenti sulla base di una realtà non più esistente: la condizione della Chiesa di oggi è molto diversa da quella della Chiesa di ieri, essa è incredibilmente eppure realmente peggiorata, ed esige le riflessioni adeguate.

D’altronde, quando si ritiene che siano venuti meno il Papa e la gerarchia, l’unica cosa che rimane nella Chiesa è la fedeltà a Nostro Signore mantenutasi in una piccola parte dei fedeli, tra i quali alcuni chierici, che sono i soli a poter assicurare la continuità dell’amministrazione dei sacramenti.

Il principale elemento fondante preso in considerazione per concludere che papa e gerarchia non sarebbero più tali, è il loro essere in contraddizione con l’indefettibilità della Chiesa, ma si trascura un altro elemento parimenti importante, anch’esso fondato sulle parole di Nostro Signore.
Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc. 18, 8).

Questa domanda retorica di Nostro Signore è in tutto corrispondente al processo di diminuzione della Chiesa, perché nel mondo potrà esserci ancora la Fede solo se ci sarà ancora nella Chiesa. Se quindi alla Parusia non ci sarà quasi più la Fede nel mondo è perché essa non ci sarà quasi più nella Chiesa.
È quello che si constata sempre più ampiamente oggi.

E Nostro Signore ha anche predetto chiaramente: “Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà. Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvato. Frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine.” (Mt. 24, 11-14).
È quello che è già accaduto e che sta ancora accadendo, non solo nel mondo, ma soprattutto nella Chiesa, com’è logico che sia.

Quindi, constatare che il Papa e la gerarchia sono venuti meno nella Fede, non è una cosa che deve sorprendere, a condizione, però, di coniugarla con il “non prevalebunt”.
In effetti, visto che qui non si tratta di un’ipotesi, ma della constatazione di un dato di fatto, e considerato quanto abbiamo detto prima circa la continuità della gerarchia, ci si può chiedere come e perché il Signore permetta tutto questo.
Ora, per quanto certi aspetti controversi della questione finiscano col condurre all’imperscrutabile disegno della Provvidenza, appare ragionevole considerare che ad un diffuso disordine come quello attuale – che attiene ai giorni ultimi – possano corrispondere solo rimedi eccezionali, mai pensati o proposti prima dai teologi, come la possibilità della coesistenza del Papa e della gerarchia non ortodosse, insieme ad un quid, come vedremo dopo, in grado di assicurare il perdurare della Chiesa.

Questo ragionamento, che è speculare a quello che fa dire ai sostenitori della vacanza della sede di Pietro che il Papa non sarebbe più Papa in forza dell’indefettibilità della Chiesa, porta a concludere che l’ipotesi “sedevacantista” non è necessaria, anche perché, come abbiamo visto, non risolve la contraddizione da cui è partita.

D’altronde, proprio come abbiamo detto prima, anche in questo caso, l’unica cosa che rimane nella Chiesa è la fedeltà a Nostro Signore mantenutasi in una piccola parte dei fedeli, tra i quali alcuni chierici, che sono i soli a poter assicurare la continuità dell’amministrazione dei sacramenti.

Ora, accostando il nostro ragionamento all’opinione “sedevacantista”, ci si rende conto che, non solo quest’ultima non è risolutiva e neanche necessaria, ma comporta per di più una sorta di illusione. Se essa permette ai fedeli, chierici e laici, di mettere il cuore in pace, al tempo stesso in qualche modo li deresponsabilizza, poiché non li induce a prendere atto dell’oggettiva realtà complessiva nella quale viviamo, ma li trattiene su un solo aspetto di questa realtà: il venire meno della Fede nel Papa.

A questo punto è necessario soffermarsi a considerare il senso di quanto abbiamo continuato a ripetere: il “venire meno della Fede del Papa”.
Questa affermazione è invero controversa e sicuramente si potrebbe obiettare che è in contraddizione col noto passo del Vangelo di San Luca (22, 31-32): «Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli».

Questo passo è ritenuto fondante l’indefettibilità dell’istituto del papato, poiché Nostro Signore stesso assicura a Pietro la Sua preghiera perché “non venga meno la tua fede”; tale che si dovrebbe ritenere che la Fede del Papa non possa venir meno, soprattutto in vista del “conferma i tuoi fratelli”.

Se si scruta attentamente questo passo, prima di confrontarlo con altri di cui diremo, si nota come in esso Nostro Signore non assicuri, quasi automaticamente, il mantenimento della Fede di Pietro, ma si limiti ad assicurare la Sua preghiera, lasciando allo stesso Pietro la responsabilità di non venire meno nella Fede e, se questo accadesse, di ravvedersi.
Lo stesso fatto che Nostro Signore abbia sentito il bisogno di assicurare la Sua preghiera, indica che Egli sapesse già della possibilità che Pietro potesse venire meno nella Fede. La preghiera di Gesù, in effetti, non sana l’eventuale infedeltà di Pietro a priori e per sempre, ma mette Pietro nella condizione di ravvedersi ogni volta che sbaglia e sempre sulla base della volontà dello stesso Pietro. E questo, come appare, senza pregiudizio per la funzione di Pietro, tale che Pietro e tutti i suoi successori sono suscettibili di venire meno nella Fede e sono responsabili del loro stesso ravvedimento, con l’aiuto della preghiera di Gesù.
A ben riflettere, in tutto questo non può vedersi una sorta di indefettibilità papale che si legherebbe all’uomo volta per volta designato, per il semplice fatto della designazione, perché il venire meno nella Fede e il successivo ravvedimento sono esenti da una sorta di rimedio a priori assicurato dalla preghiera di Nostro Signore.

Che la preghiera di Nostro Signore non assicuri a priori la realizzazione di ciò per cui Egli prega, è confermato dal passo che riporta la preghiera sacerdotale di Gesù (Gv. 17, 20-23): «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa».
Questa preghiera di Gesù non ha impedito che i suoi discepoli si separassero, a conferma che Nostro Signore prega perché la cosa si realizzi, ma la realizzazione è legata alla disposizione dei soggetti interessati: sono loro che devono agire compiendo la volontà di Dio, diversamente si verifica quello che è già accaduto più volte nella vita della Chiesa, con le eresie e gli scismi, a partire dal tradimento di Giuda e via via fino alle infedeltà moderne.

E applicando questo criterio al Papa e all’indefettibilità papale, ecco che si ripresenta l’imperscrutabilità del disegno della Provvidenza, col Signore che permette che questo avvenga.

D’altronde, che la Fede di Pietro possa venire meno e che questo possa comportare il suo allontanamento da Gesù ad opera di Gesù stesso, è ciò che si evince da quanto riportato da San Matteo, 16, 23 e ripetuto da San Marco, 8, 33.
Il Vangelo di San Matteo, 16, 18-19, riporta l’investitura di Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»;
e Nostro Signore, subito dopo avere assicurato che le porte dell’Inferno non prevarranno contro la Sua Chiesa, apostrofa Pietro dicendo: «Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt. 16, 23).

Ora, è importante notare che questo rimprovero e questo rigetto di Gesù sono rivolti non più ad uno dei discepoli, ma al primo Papa che, potremmo dire, non ha perso tempo a venire meno nella Fede, a conferma che l’investitura di Pietro non lo rende automaticamente esente dalla possibilità che questo accada.
Per di più, questa sequenza stretta tra l’investitura e il rigetto di Pietro, rivela una cosa di particolare importanza e cioè che Nostro Signore non revoca a Pietro l’investitura attribuitagli, così che egli è rigettato da Gesù mentre è il Papa e ciò nonostante continua ad essere Papa. E questa possibilità si ricollega a quella di cui abbiamo detto prima circa Gesù che prega perché la Fede di Pietro non venga meno.

Da cui si deduce facilmente che Pietro, mentre per un verso può venire meno nella Fede e ciò nonostante continuare ad “essere” Papa, per altro verso non potrà “fare” il Papa, confermare i suoi fratelli, se non dopo essersi ravveduto.

In termini pratici si può dire che è possibile che si venga a determinare una situazione particolare nella quale si è alla presenza di un papa legittimo che però non fa il Papa, in quanto non conferma i suoi fratelli, non riprende la dottrina di sempre e la trasmette, ma, seguendo lo sviamento funesto del Vaticano II, annacqua e svilisce la vera dottrina; come accade ormai da quasi cinquant’anni.

Ed ove ci si chiedesse che ne è a questo punto del magistero pontificio, si può ricordare che la Chiesa ha già un corpo dottrinale consolidato e atemporale, la Tradizione, a cui possono sempre attingere i fedeli, i quali, per la condizione di eccezionalità in cui oggi viviamo, sono costretti a fare a meno della “conferma di Pietro”, almeno fino a quanto Dio permetterà che perduri questo stato di cose.

Ci rendiamo conto che questo nostro ragionamento non collimi con i pareri teologici espressi degli anni passati, ma, come abbiamo detto sopra, tali pareri sono tutti riferiti ad una situazione nella Chiesa di complessiva normalità, quindi nessuna meraviglia che non corrispondano più all’odierna situazione di anormalità.

Ora, lo diciamo con decisione, questo nostro ragionamento non vuole minimamente costituire un’opinione teologica, non abbiamo le qualificazioni per questo; e tuttavia può servire ai teologi qualificati per esprimere autorevolmente un parere che possa aiutare a dipanare questa intricata questione del papato attuale considerato in un contesto disordinato qual è il nostro e che non s’è mai visto nella vita della Chiesa.

A questo proposito, è necessario segnalare che, nell’insieme delle posizioni “sedevacantiste” vi è anche da annoverare quella derivata dalla tesi espressa da Padre Guérard Des Lauriers e nota come tesi di Cassicìacum, secondo la quale è possibile riconoscere che il Papa ci sia materialmente (materialiter), ma non formalmente (formaliter). Questa tesi è stata fatta propria in Italia dall’Istituto Mater Boni Consilii, nel cui sito, Sodalitium, è possibile trovare le informazioni relative.

Non rientra negli scopi di questo articolo soffermarsi sul merito di questa tesi, ma possiamo far notare due cose.

La prima è che, con la distinzione tra “materialiter” e “formaliter”, questa tesi riesce a sanare in parte la contraddizione “sedecavantista” del Papa che c’è e che insieme non sarebbe Papa, tale da apparire più vicina a quanto abbiamo qui osservato.

La seconda è che, ciò nonostante, il fatto che da cinquant’anni ci sarebbero stati solo papi “materialiter” e non “formaliter”, praticamente finisce col ribadire l’inesistenza del Papa. Infatti, aver avuto dei papi solo “materialiter” significa che abbiamo avuto per cinquant’anni dei papi “in potenza”, non ancora pienamente papi, suscettibili sempre di diventare papi “formaliter”, papi “in atto”, ma che non lo sono diventati perché sono morti (tranne gli ultimi due) senza “formalizzare” con i requisiti richiesti la loro designazione “materiale”.
In altre parole, seguendo questa tesi, si può dire che i papi “materialiter”, legati al venir meno della loro Fede, non essendosi mai ravveduti, così da diventare dei papi anche “formaliter”, non possono essere considerati papi.
Così che anche in base a questa tesi la Chiesa sarebbe rimasta priva del Papa per circa quarant’anni – se si escludono i due papi ancora viventi e quindi suscettibili di diventare “papi formaliter” -, tale che anche in questo caso si giunge alla vacanza della Chiesa stessa, sia pure in modo più attenuato rispetto all’ipotesi “sedevacantista”.
E siccome anche qui vale ancora quanto abbiamo detto prima e cioè che nonostante tutto non si può dire che la Chiesa sia venuta meno, perché la continuità delle consacrazioni episcopali, sempre valide nonostante le deficienze dei ministri, ne assicura la permanenza; allora anche la tesi di Cassicìacum appare essere superflua.

A questo punto, pensiamo sia opportuno integrare quanto abbiamo detto fin qui, con alcuni elementi specifici, che potrebbero essere d’aiuto ai teologi qualificati che ritenessero opportuno prendere in considerazione ciò che, in tutta umiltà, abbiamo esposto.

Il primo è relativo al magistero papale, che può essere infallibile o fallibile a seconda che il Papa si esprima ex cathedra o no. Se tale distinzione è possibile in linea teorica, sulla base della natura giuridica dei pronunciamenti papali, non lo è nella pratica, perché i fedeli, ascoltando le parole del Papa, si atterranno ad un criterio elementare e logico: questo l’ha detto il Papa, quindi dev’essere cattolico. E il Papa, quando parla, sa benissimo che le cose stanno così, quindi le sue parole, indipendentemente dalla natura giuridica dei suoi pronunciamenti, costituiscono sempre e comunque magistero, cioè insegnamento che dalla Cattedra di Pietro viene rivolto ai fedeli perché essi apprendano ciò che è cattolico.

I teologi che possono permettersi di operare, a tavolino, tutti i distinguo consentiti dalla teologia e dalla canonistica, non possono e non devono trascurare questo rapporto naturale e spontaneo che esiste tra chi insegna e chi apprende, soprattutto in questo caso così delicato e particolare. Affermare che quel tale pronunciamento non è vincolante per il fedele, perché espresso senza il requisito della infallibilità, significa trasformare l’insegnamento papale in un problema giuridico, stravolgendo, tra l’altro, l’insegnamento di Nostro Signore che raccomanda: il vostro parlare sia sì sì, no no, il di più viene dal maligno (Mt. 5, 37).

D’altronde, soprattutto in un mondo come il nostro in cui impera la cosiddetta informazione di massa, non è pensabile che il fedele, ogni volta che ascolta le parole del Papa, prima di farle sue, interpelli prima un teologo (sempre ammesso che oggi ce ne sia uno disposto a ragionare ancora in termini cattolici); e questo vale per tutti i fedeli, siano essi laici o chierici, perché anche solo il supporre che un chierico sia in grado di cogliere da sé la presenza o la mancanza del requisito dell’infallibilità, significa supporre una bella teoria che non tiene conto della oggettiva condizione dei chierici.

A questo si aggiunga che anche quando il Papa parla senza il requisito dell’infallibilità, le sue parole non dovrebbero scostarsi dell’insegnamento della Chiesa, perché non può ammettersi un papa che in modo formale enunci una cosa cattolica e in modo informale ne enunci un’altra non cattolica. La contraria è una bella teoria che fa a pugni con l’oggettiva realtà, perché, a priori, essendo il primo dei cattolici, il Papa  non potrebbe dire cose non cattoliche, salvo manifestare errori d’espressione e infelicità linguistiche, che il fedele, queste sì, è in grado di cogliere.
Se invece il Papa dice cose non cattoliche, è evidente che ci si trova sempre al cospetto di quanto abbiamo abbozzato prima circa l’imperscrutabile disegno della Provvidenza, a cui si può aggiungere che il Signore permette tutto questo come un castigo per l’infedeltà di tanti fedeli e al tempo stesso come una prova per tutti.

Il secondo è relativo alla volontà del Papa e dei componenti la gerarchia. Se si ritenesse che in essi vi sia mala volontà, se ne dovrebbe dedurre che da anni la Chiesa è in mano al demonio, cosa impossibile per la promessa di Nostro Signore. Non resta che considerare che in essi ci sia buona volontà “umana”, cioè che si tratti di persone in totale “buona fede” che pensano, predicano e praticano cose non cattoliche, convinte di trovarsi in piena ortodossia.
Per quanto possa sembrare eccessiva, si tratta di una possibilità che trova riscontro nella realtà di questi anni e che appare come l’applicazione pratica del noto adagio “quos Deus perdere vult, dementat” – Dio fa impazzire chi vuol perdere -; che in questo caso abbisogna di qualche precisazione.
L’impazzimento non dev’essere pensato come una sorta di perdita delle facoltà intellettive, quanto come una rinuncia più o meno conscia all’uso del dono dell’intelligenza. Fenomeno che effettivamente si riscontra in maniera diffusa nel mondo moderno a partire da alcuni secoli e in modo sempre più profondo e accelerato. E gli uomini Chiesa sono uomini moderni come tutti noi.
Indubbiamente, solo la Fede costituisce il rimedio per questa disgrazia, ma Nostro Signore ci avvisa che alla fine del mondo quasi non ci sarà più la Fede sulla terra, quindi nessuna meraviglia se con la sua diminuzione, tanti uomini che la vanno perdendo finiscano col perdere anche l’intelligenza.
Questa oggettiva condizione del mondo moderno interessa inevitabilmente anche il mondo cattolico, quindi nessuna meraviglia che gli uomini di Chiesa siano affetti da un difettoso uso dell’intelligenza al pari dei loro contemporanei.

Se si mettono insieme queste due considerazioni, non è difficile dedurne che la presenza di papi che predicano e praticano l’eterodossia rientri, come possibilità, nella logica di una progressione che vede il mondo allontanarsi sempre più da Dio e avvicinarsi sempre più alla resa dei conti finale, progressione che attiene inevitabilmente anche alla Chiesa, non quanto alla sua componente soprannaturale, ma quanto alla sua componente umana.
Il che significa che, in pratica, l’esistenza di un vero papa, non esclude che questi possa essere manchevole sia nell’intelligenza o nel suo corretto uso, sia nella Fede. Considerare che la designazione del Papa, con quello che implica in termini di assistenza dello Spirito Santo, comporti “automaticamente” la correzione della carenza di intelligenza e di Fede nel designato, significa affermare che in quel caso Dio privi quell’uomo del libero arbitrio; cosa impossibile.
E questo ragionamento si applica al Papa come si applica a tutti i consacrati, così che ne risulta che la gerarchia, in tutto o in parte, possa essere composta da cattolici manchevoli, che però di per sé non possono compromettere il perdurare della Chiesa, sia per quanto abbiamo già detto, sia perché è risaputo che Nostro Signore “scrive diritto sulle righe storte”, sia e soprattutto perché tale perdurare è comunque assicurato dalla persistenza della Fede incorrotta in quei cattolici chierici e laici che Dio vorrà, per quanto ristretto possa essere il loro numero.
Infatti, la totale e vincolante identificazione della Chiesa con la sua gerarchia visibile è una deduzione che non trova riscontro nella storia della Chiesa, in duemila anni non sono stati pochi i vescovi e i papi infedeli, si è trattato solo di un problema di quantità. Un tempo l’infedeltà era un male presente in pochi, ma col procedere del tempo, questo male si è ampliato fino al punto da invertire i rapporti numerici: oggi i pochi fedeli si trovano in mezzo ad una maggioranza infedele. E la cosa non deve destare stupore, perché la promessa di Nostro Signore del “non prevalebunt” non può ritenersi avere una valenza quantitativa, quanto piuttosto una valenza qualitativa. Il persistere nel mondo di chierici e laici fedeli realizza la promessa di Nostro Signore anche se tale persistenza riguardi solo un’infima minoranza di cattolici, un piccolo resto. E in questa minoranza, nulla esige o induce a supporre che ci debba essere necessariamente la gerarchia, mentre tutto permette di ritenere possibile che essa  rientri, in tutto o in parte, nella maggioranza infedele, tenendo peraltro conto che si può affermare con ragionevole certezza che Nostro Signore assicurerà che in mezzo al piccolo resto dei suoi veri fedeli vi siano quei chierici necessarii per assicurare l’amministrazione dei sacramenti e il perdurare della Chiesa, sia pure ridotta al minimo.

Da quanto appena detto, deriva un terzo elemento: la constatazione che con l’aggravarsi della condizione complessiva, i fedeli che intendono conservare la Fede incorrotta saranno sempre più costretti ad appoggiarsi a singoli chierici o a gruppi di chierici che assicurino la continuità dell’amministrazione dei sacramenti; e questo senza alcuna necessità di organismi ecclesiali definiti alla maniera classica, né di riconoscimenti canonici particolari, che a questo punto si rivelano sia impossibili, sia non più necessarii; fermo restando la sana opportunità di una rete di contatti tra tutti i gruppi che servirà da reciproco sostegno sia morale sia materiale.
E come si può facilmente comprendere, viene meno anche la necessità di “gabbie teologiche” definite con le quali si ritiene di dovere e di potere risolvere le contraddizioni irrisolvibili e che finiscono con l’essere vincolate a schemi mentali non più rispondenti alla realtà oggettiva in cui oggi ci troviamo.
Intendiamo dire che, al punto in cui stanno le cose e tenuto conto che potranno solo peggiorare, non ha più alcun senso continuare a suddividere il resto dei veri fedeli in base a delle etichette che corrispondono più a posizioni personali o di gruppo che al bene complessivo degli stessi fedeli e della Fede. Le divisioni e le reciproche esclusioni tra fedeli che si suppongono gli uni più tradizionali degli altri, sono come una sorta di fianco prestato alla sovversione e un soggiacere alla stessa logica moderna che si vuole combattere.
Ci basti solo il primato della Verità e l’aderenza all’insegnamento tradizionale, e si abbandonino le residue pretese di mantenimento di un qualche tipo di autorità formale, ormai ridotta al mero umano.

Chiudiamo ribadendo che, a nostro modesto parere, tutto questo è permesso da Nostro Signore nella prospettiva dell’avvicinarsi dei giorni ultimi, per mettere alla prova i suoi veri fedeli e vagliarli in vista del Giudizio; e Nostro Signore non esige solo la fedeltà, ma anche la fortezza d’animo per combattere gli errori e denunciare gli infedeli, pena l’essere da Lui respinti – vomitati dalla Sua bocca – al momento del Giudizio (Cfr. Ap. 3, 15-16).

In questi nostri tempi di disastro e di empietà, restare fedeli a Nostro Signore è cosa non poco difficile, ma essere fedeli a Dio significa anche fidarsi e affidarsi a Lui.

Ognuno di noi faccia il proprio dovere di stato, come può e nel modo più rispondente possibile con i talenti che il Signore ci ha assegnati. Fatto questo, avremo fatto tutto quello che c’era dato fare, al resto penserà Iddio Onnipotente.



agosto 2014

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