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Laddove non sia sopportabile il giogo del sacramento arrivi il palpito del cuore di Alessandro Gnocchi
![]() Articolo pubblicato sul
quotidiano Il Foglio del 8
ottobre 2014
Immagine, impaginazione e neretti sono nostri Laddove non sia
sopportabile il giogo del sacramento arrivi il palpito del cuore, “el latido del corazón”, per
dirla nel misericordioso ispanico con cui papa Francesco immagina la
nuova Chiesa, o magari “der Herzschlag”,
come si traduce nell’inflessibile alemanno del cardinale Walter Kasper.
Ideato,
annunciato e avviato sotto il segno della tenerezza, difficilmente il
Sinodo straordinario sulla famiglia prenderà altre vie da quella
della pastorale aperta alle voglie matte del mondo.
I gesti, i discorsi, le interviste, gli incontri di cui è intessuto l’attuale pontificato possono condurre solo lì, dove paginate di giornale e minuti di televisione divorano ingordamente il viatico affidato da Francesco ai padri sinodali contro “i cattivi pastori” che “caricano sulle spalle della gente pesi insopportabili che loro non muovono neppure con un dito”. Paginate di giornale e minuti di televisione che il giorno prima si pascevano del fulmine scagliato da Casa Santa Marta contro “i capi del popolo” secondo cui “tutto si riduce al compimento dei precetti creati dalla loro febbre intellettuale e teologica”. E poi su, a risalire con fame insaziabile fino a quell’“Angelus” in cui il Papa venuto dalla fine dl mondo citava, tutt’altro che casualmente, il cardinale che ora gli fa da portavoce dentro e fuori il Sinodo: intellettuale e teologo, ma, evidentemente, non febbricitante di quel morbo che tanto allarma Francesco. “In
questi giorni” diceva il papa
nel suo primo “Angelus” “ho potuto
leggere un libro di un cardinale - il cardinale Kasper, un teologo in
gamba, un buon teologo – sulla misericordia. E mi ha fatto tanto bene,
quel libro, ma non crediate che faccia pubblicità ai libri dei
miei cardinali! Non è così! Ma mi ha fatto tanto bene,
tanto bene”.
Da allora, si è diffuso per l’orbe cattolico un certo fastidio liberatorio per quanto di sacramentale e dottrinale forma il “giogo soave” che Gesù promette ai suoi seguaci. La Nuova Legge, che è legge d’amore, non è scevra da condizioni e da giuramenti, e il ristoro dell’anima, dice Cristo nel Vangelo, è subordinato all’assunzione del vincolo: “Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le anime vostre. Poiché il mio giogo è soave e il mio peso è leggero”. Ma il ristoro dell’anima non è la pace del mondo, il giogo soave e il peso leggero non sono salvezza a buon mercato. “Se uno vuol venire dietro me”, ammonisce Gesù, “rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. E lo diceva quando, agli occhi degli uomini, la croce non era ancora stata trasformata in via di salvezza eterna, ma rimaneva strumento di morte crudelmente solo umano. E ora, dopo che la Chiesa per duemila anni ha tratto fior di santi da carne peccatrice indotta a portare la croce in virtù del giogo soave dei sacramenti e della dottrina, tutto dovrebbe cambiare. Il peso leggero è divenuto insopportabile e la croce una chimera da nascondere alle genti: solo il palpito del cuore è buono per l’annuncio agli uomini, savi e cattivi, santi e dannati, uniti in un unico destino che, al più, può illudere di soffrire un po’ meno su questa terra. Ciò che il mondo non comprende va tolto di mezzo, persino quando si tratta di dare forma cristiana a un fatto naturale come l’unione tra un uomo e una donna. Quasi che il matrimonio, per venti secoli, fosse stato offuscato da un apparato superstizioso di formule, di vincoli, di impegni pensati da “cattivi pastori”, da maligni “capi del popolo”, e non invece voluto da Dio. Ma se vi è un che di superstizioso, non lo si deve cercare nel matrimonio, nel suo rito, nella sua morale. Come diceva G.K. Chesterton in un saggio di un secolo fa, se c’è una deriva da cui guardarsi, è “La superstizione del divorzio”. “Se
infatti penso che l’amore libero sia
un’eresia”, diceva lo scrittore inglese, “il divorzio al contrario mi sembra avere
tutto l’aspetto di una superstizione. Non è soltanto una
superstizione più grande di quella dell’amore libero, ma
è anche molto più grande di quella del sacramento
matrimoniale. (…) Sono i
partigiani del divorzio, e non i difensori del matrimonio, che
attribuiscono una sacralità rigida e insensibile a una semplice
cerimonia in sé. Sono i nostri oppositori, non noi, a sperare di
poter essere salvati dalla lettera del rituale invece che dall’anima
della realtà. Sono loro a sostenere che giuramento o violazione,
lealtà o slealtà, possano essere sanciti da un rito
magico e misterioso, compiuto prima in palazzo di giustizia e poi in
chiesa o all’anagrafe. (…) Che
un uomo debba baciare la Bibbia per mostrare di dire la verità
può essere una superstizione, come non esserlo. E’ certamente
più meschina la superstizione secondo la quale qualsiasi cosa
dica quell’uomo diverrà vera baciando la Bibbia. (…). E questo è precisamente ciò
che implica l’affermare che inventare un modo per risposarsi possa
alterare la qualità morale di un’infedeltà coniugale.
Può essere una macchia rimastaci dal medioevo che Aroldo dovesse
giurare su una reliquia, pur sapendo che poi avrebbe abiurato. Ma
sicuramente quell’epoca avrebbe raggiunto il fondo della
meschinità se, per abiurare, ad Aroldo fosse stato sufficiente
baciare un’altra reliquia dopo aver fatto lo stesso con la prima.
Questo è il nuovo altare che i riformatori vorrebbero erigere
per noi”.
Nel suo saggio, GKC prendeva a male parole la società laicizzata dei suoi tempi e l’anglicanesimo soffocato dall’abbraccio del mondo. Letta un secolo dopo, questa pagina diventa la triste cronaca del declinare di una Chiesa cattolica cui il destino dei cosiddetti fratelli separati non ha insegnato nulla. Quando parla del “nuovo altare” su cui i riformatori vorrebbero celebrare le benedizioni dei “nuovi matrimoni” Chesterton evoca con chiarezza quanto nessuno ha ancora il coraggio di chiamare con il tremendo ossimoro che gli compete: divorzio cattolico. Poiché di altro non si tratta se i divorziati contraenti nuove nozze, pur con tutti i distinguo che le astuzie pastorali sapranno suggerire, verranno ammessi alla comunione, inducendoli colpevolmente, secondo il monito di San Paolo, a mangiare la propria condanna. L’infezione mondana che ha penetrato la Chiesa chiede il suo tributo. Non ancora per le “forme ideologiche delle teorie del gender”, assicura il cardinale Peter Erdo, relatore generale del Sinodo nel suo discorso, perché per adesso sono invise alla stragrande maggioranza dei cattolici. Per l’ammissione all’eucaristia dei divorziati risposati, invece, i tempi sono maturi, si tratta di “vera urgenza pastorale”. Se si avanzassero dubbi, è il Papa stesso a spiegare che “il mondo è cambiato e la Chiesa non può chiudersi nelle presunte interpretazioni del dogma”. <>Eppure, se si scorrono le lettere dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria raccolte nei “Consigli matrimoniali alle figlie sovrane”, si ha l’impressione che, più dei tempi, sia mutata la religione. Nel promemoria per Maria
Amalia, sull’orlo della rottura con il marito Ferdinando Borbone di
Parma, scriveva che “la sua
felicità e la sua salvezza consistono nel non abbandonare mai,
senza esserne obbligata veramente, la residenza, il palazzo,
poiché non potrebbe mutare questa con nessun altro luogo al
mondo se non con un ritiro a vita in un convento del Parmigiano, in
cui, nel caso di separazione da suo marito, potrebbe vivere onestamente
da sola”.
Vero è che Maria Teresa anteponeva a ogni incombenza
terrena la salvezza eterna, così da dire, a proposito della
figlia Maria Giuseppa “Si tratta non
solo dell’educazione di una delle mie figlie, ma di una che fra quattro
anni potrebbe essere chiamata al trono per far felice o infelice tutto
un regno, suo marito e, ma questo conta meno, se stessa. Si tratta
della sua felicità e soprattutto della sua salute spirituale”.Non è questione di epoche su cui la religione dovrebbe modellare suoi dogmi a ogni voltar di secolo. E non è neppure questione di rango poiché, davanti a Dio e al suo giogo, una popolana vale quanto una regina. Quando nei suoi romanzi John Fante ricorda la madre, contadina abruzzese trapiantata in America, la vede in trono al centro della casa, intenta a salvare un marito che umanamente non lo merita e figli che non ne vogliono sapere scorrendo i grani del Rosario. “Ave
Maria, Ave Maria. Sogni senza sonno la
inghiottivano. Passioni disincarnate la cullavano. Amore senza morte,
cantava la melodia della fede. Era lontana, era libera (…) ormai era giunta nella terra dove si
possiede tutto. Ave Maria, Ave Maria, senza mai smettere, migliaia,
milioni di volte, preghiera dopo preghiera, il sonno del corpo, il volo
della mente, la morte della memoria, l’annientamento del dolore, il
senso profondo e silenzioso della fede. Ave Maria, Ave Maria. Ecco la
sua ragion d’essere”.
Per l’una e per l’altra, per la popolana e per l’imperatrice, nella Messa di matrimonio, il sacerdote aveva pregato perché fossero fedeli e caste, portassero il giogo dell’amore e della pace, imitassero le sante spose di cui narra la Scrittura “amábilis viro suo, ut Rachel; sápiens ut Rebecca; longaeva et fidelis ut Sara”, e poi ancora perché fossero gravi per verecondia, rispettabili per pudore, istruite nella dottrina celeste, feconde per prole, buone e innocenti. Cosicché loro e i loro sposi vedessero “filiórum suórum, usque in tértiam et quartam generatiónem, et ad optátam pervéniant senectútem”. In virtù di questa fede, l’una e l’altra, la popolana e l’imperatrice, hanno serbato nella loro anima un’evidenza obliata dalle “vere urgenze pastorali” di ultima generazione. Sapevano che il matrimonio cristiano non ammette repliche poiché si regge su ciò che John Ruskin, nella seconda delle sue “Mattinate fiorentine”, chiama l’incontro della vita familiare con quella monastica, del concreto senno casalingo con la follia del deserto. Si alimenta di quella speciale percezione dell’intangibile sacralità racchiusa nei gesti domestici della Sacra Famiglia rivelata allo sguardo umano da Giotto. Mai prima, raramente dopo, si è compiuto nell’arte figurativa questo miracolo tutto cattolico e tutto italiano, per dire romano e universale, nel quale il dogma si fa quasi palpabile traducendosi in vita quotidiana esibita senza difesa agli occhi degli uomini. Al cospetto di tale epifania
della santità domestica, lo scrittore d’arte inglese coglie
l’impossibilità di ridurre le esigenze sacre della famiglia alle
voglie profane del mondo:
“Sui
termini ‘vita domestica’ devo dire che
la visione divina non si concilia certo né con il razionalismo,
né con la concorrenza commerciale che Stuart Mill offrirebbe
alle donne il luogo della loro missione di spose e di madri,
bensì con la sapienza casalinga, l’opera d’amore, il lavoro
della terra, in accordo con le leggi celesti. Queste cose sono assai
più conciliabili con la rivelazione in una grotta o in un’isola,
con il sacrificio di una vita desolata e priva d’amore, con
l’immobilità delle mani giunte che attendono l’ora di Dio!”.
L’eleganza inusitata e ribalda di quel punto esclamativo posto a suggellare mani immobili e oranti in attesa di Dio non è invenzione nata nel delirio di una “febbre intellettuale e teologica”. E’ il segno germogliato tra i pensieri e le aspirazioni di un’intelligenza per nulla indulgente con il cattolicesimo, allorché si trovò al cospetto dell’arte religiosa italiana. Conquistata dal di più esibito in una fede capace di mostrarsi nella ricchezza della sua dottrina, dei suo dogmi e dei suoi riti in perenne e immutabile guerra al mondo e alla sue lusinghe. Una fede in grado di esigere da chiunque l’abbracci l’inflessibile fedeltà al pronunciamento di un voto, quello religioso come quello matrimoniale. Non è su questa strada che hanno avviato il Sinodo la teologia e l’intellettualità dominanti, quelle sì febbricitanti e visionarie. L’incontro tenero e amoroso con le voglie del mondo può condurre solo a una resa senza onore alle difficoltà di mantenere fede a una promessa. Una deriva che, dice Chesterton, iniziò con il tradimento di un re ancora cattolico: “La
civiltà dei voti fu distrutta
quando Enrico VIII ruppe la propria promessa matrimoniale. (…) I monasteri, costruiti per voto, furono
distrutti. Le corporazioni, reggimenti volontari, furono disperse. La
natura sacramentale del matrimonio fu negata (…). Il matrimonio diventò così
non solo inferiore a un sacramento, ma inferiore alla santità.
Minacciò di diventare non solo un contratto, ma un contratto che
poteva non essere mantenuto. Proprio questo punto ha conservato, tra
tanti altri simili problemi, una strana e simbolica supremazia che
sembra perpetuare l’origine comune della questione. Tutto è
cominciato con il divorzio di un re e sta ora finendo in divorzi per un
intero regno”.
Non è ammettendo i divorziati risposati alla comunione che si porrà rimedio a quanto inquietava Chesterton cento anni or sono. In una chiesa dove ormai pochi si confessano e tutti fanno la comunione, mettersi in fila per ricevere l’ostia consacrata è divenuta una pratica sociale grazie alla quale ci si sente accettati dalla comunità in festa. In quest’ottica, escludere qualcuno dalla fila dei comunicandi appare un’inutile crudeltà a cui nessun argomento puramente umano è in grado di opporsi. Per salvare il matrimonio, bisogna prima salvare l’eucaristia da tale profanazione mondana. Davanti a Gesù, che sta in corpo, sangue, anima e divinità dentro l’Ostia pallida e pura, più indifeso di un bambino, bisogna essere mondi con il proposito di non peccare più. Per non tradire l’eucaristia dopo aver tradito il matrimonio, non bisogna tradire la confessione. Ma la confessione deve essere vera, come quella che John Fante fece per la sua prima comunione: “Uscii
dal confessionale. Ero felice, molto
felice. M’inginocchiai all’altare e dissi la mia penitenza. Poi uscii
nel sole di un pomeriggio sereno. Non mi ero mai sentito più
pulito. Ero un pezzo di sapone. Ero come l’acqua fresca. Ero come una
stagnola lucente. Ero un vestito nuovo. Ero un taglio di capelli. Ero
la Vigilia di Natale e una scatola di dolci. Fluttuavo, fischiettavo”.
Ma il piccolo John ebbe la fortuna di nascere nella casa di una contadina abruzzese malata, senza saperlo, di quella “febbre intellettuale e teologica” che aveva contagiato il popolano Giotto e ha i suoi germi tra le pagine del Vangelo. (torna
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ottobre 2014 |