Ora è il “turno del teologo”


di F. R.






Sembra che a turno i diversi porporati si divertano a dare il proprio contributo “illuminante” sulle questioni discusse nel Sinodo.

Tocca ora a Mons. Rino Fisichella, che, come risulta dal sito ufficiale della CEI, ricopre numerosi incarichi di prestigio: Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione; Membro del Consiglio Ordinario della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi; Membro della Congregazione per la Dottrina della Fede; Membro della Congregazione delle Cause dei Santi; Membro del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso; Membro del Pontificio Consiglio della Cultura; Membro del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali; Membro del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali…

Insomma uno che “pesa”.

Ebbene il porporato, in una intervista a Vatican Insider, si lancia, con originalità, dice lui, per cercare di superare l’ostacolo “Avrei un'idea per uscire dall'impasse... Ci sono passi del Nuovo Testamento che non ho ancora sentito citare e che potrebbero orientare”; siamo tutt’orecchi!

Vediamo cosa dice.

D. Come giudica il dibattito di questi primi tre giorni di Sinodo?
RI lavori si svolgono in un clima positivo, si percepisce la cattolicità della Chiesa, entrando in aula bisogna dimenticare la propria nazionalità altrimenti non ci si sintonizza con gli altri»

Qui ci troviamo di fronte ad un’inversione del principio di cattolicità. Essa infatti non implica la sintonia con un vago sentire comune, una pluralità indistinta, che prescinda dall’unità, ma l’adesione piena e previa ad una unità di pensiero e di vita, che prescinda da differenze geografico-logistiche. Quel che si avverte, invece, nelle parole del prelato, è una sorta di anelito alla scoperta del nuovo ampio respiro poliedrico, di cui il mondo sarebbe allegramente pieno, “bello perché vario”.

Tale visione implica la non consapevolezza che l’unità e la cattolicità siano due facce di una stessa medaglia; Uno è Cristo e a Lui tutto si conforma e tende. La Chiesa è Una in un solo Spirito, una sola dottrina, un solo sentire e vivere; e questa sua vita è talmente esuberante da essere universale, cioè capace di abbracciare tutti i popoli e nazioni, portandoli in Dio. È la verità che in sé racchiude e supera le esigenze dell’uomo, alzandone il livello verso Dio stesso, fonte della verità. Non è il contrario, cioè la verità non si costruisce dalla sommatoria delle diversità, quasi per suffragio universale, rimanendo pertanto sul piano orizzontale, ma è la purificazione degli errori, ascensione verso l’alto, tendenza verticale.

La sintonia quindi esiste già, per il fatto di essere tutti nella Chiesa, oppure non è.

D. Dalle sintesi degli interventi sembra che molti manifestino vicinanza e attenzione alle situazioni difficili. È così?
R. «La Chiesa non è estranea ai problemi che vivono uomini e donne del nostro tempo. Questo cammino è il frutto di decenni, è un atteggiamento che risale al Concilio Vaticano II, poi ripreso da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, il quale nell'enciclica "Redemptor hominis" ha detto la Chiesa nel cammino verso l'uomo non può essere fermata da niente e da nessuno. Francesco non fa che portare alle più immediate e visibili conseguenze quello che è il sentire della Chiesa. D'altra parte al responsabile del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione questo non può che allargare il cuore: l'evangelizzazione si gioca in una presenza dei cristiani là dove questi vivono».

Purtroppo dobbiamo ritenere offensivo il riferimento storico; offensivo nei confronti della Chiesa santa di Dio ed offensivo nei confronti di Gesù Cristo. Perché se le parole hanno un significato, siamo obbligati ad intendere la Chiesa prima del Vaticano II come estranea ai problemi delle persone, quindi lontana, non abbastanza comprensiva, incapace di divinizzare, quindi non Divina. La Chiesa perderebbe pertanto la connotazione di santità, che invece le appartiene. Il neomodernismo parte sempre da questo presupposto: prima del Vaticano II non si era capito granché. I Papi del passato, i grandi santi, ma alla fin fine anche gli apostoli e Gesù stesso (a ben vedere), tutti biechi latori di oscurantismo, privo di quella carità materna, cosa che si scopre solo faticosamente, dopo 1960 anni e più, destandosi dal torpore.

D. La dottrina sul matrimonio secondo lei sarà modificata dopo il percorso sinodale?
R. «Non ho ascoltato neanche un intervento in aula che mettesse in dubbio la dottrina sull'indissolubilità. Questo Sinodo è chiamato a dare delle prime risposte in vista del cammino che porterà al Sinodo ordinario, sullo stesso tema della famiglia, in programma per l'ottobre 2015. La vera preoccupazione è pastorale: come dare il segno dell'accoglienza, di una Chiesa che è chiamata a camminare accompagnando gli uomini e le donne di oggi, senza escludere nessuno, rimanendo nell'insegnamento di Gesù? Questa è la vera sfida. Tutti abbiamo chiara consapevolezza dei principi fondamentali, ma dobbiamo essere capaci di trovare dei linguaggi, delle forme, delle espressioni e dei comportamenti che siano più possibile segno di vicinanza della Chiesa e non di esclusione. Tutti percepiamo il grande divario che intercorre tra la proposta culturale maggioritaria presente nel mondo globalizzato di oggi, e la proposta cristiana sul matrimonio e la famiglia. Ci sono poi differenze notevoli nelle varie realtà ecclesiali e culturali: l'Europa non è l'Africa né America Latina».

La dottrina non si discute. Ma certamente! Questo è un “assopigliatutto” del modernismo; non si nega nulla, ma se ne riscrive il significato, riempendolo di “se” e di “ma”. In realtà la pastorale, di cui Fisichella si dice preoccupato, deve essere attuazione caritatevole della dottrina, senza possibilità di derogare ad essa; “chi non è con me, è contro di me…e chi non raccoglie con me, disperde” (Lc. 11, 23; Mt. 12, 30). Inutile fare giri di parole, la Chiesa ha già precisato tutto e chiaramente: peccato e grazia non possono convivere. La vera autentica e massimamente caritatevole pastorale toglie l’uomo dal peccato e lo innalza verso la vera Vita. Questo è l’atto di carità vero da cui non si può prescindere in ogni opera di evangelizzazione. I modi potranno pure essere differenti, ma se il fine non è portare alla Vita eterna, sono inutili. E, si ricordi, che il fine buono non giustifica mai il mezzo cattivo. Quindi tale avvicinamento deve passare necessariamente per una penitenza sacramentale di richiesta di perdono e di conseguente remissione dei peccati, che è cosa diversa dal “percorso penitenziale” di cui si sente parlare in giro tra i vescovi e che sarebbe capace di giustificare e tenere in piedi legittimamente più di un matrimonio!!!!

Del resto la Sacra Scrittura è già chiara: “e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati” (Luca 24, 47). Attenti alla sequenza logica, inevitabile. Non c’è perdono, senza conversione.
In cosa consiste quindi la pastorale? Nel presentare il perdono di Dio, fondandosi sulla verità del peccato e sull’efficacia della Grazia. Lo spiega bene Gesù: “Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane»” (Giovanni 9, 41).
Il permanere nella medesima condizione è indice del fatto che non c’è stato alcun movimento verso Dio… e se non c’è questo, tutto il resto non salva. Del resto l’opera di convincimento “quanto al peccato” è azione dello Spirito Santo; lo spirito dei tempi, di cui questi neomodernisti si riempiono la bocca, quello che la Chiesa dovrebbe ascoltare, non convince quanto al peccato. Esso sembra al contrario confermare in esso, accondiscendendo alla umana debolezza.
Ma che l’uomo sia debole non ce lo deve dire Fisichella. Gesù ci ammonisce nel santo Vangelo: “lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt. 26, 41); oltre a tale diagnostica constatazione, nello stesso versetto Cristo dà anche la salutare terapia: “vegliate e pregate”! Ecco la chiave della vera pastorale, della cosiddetta “nuova evangelizzazione”: annunziare la verità, palesare il peccato, offrire il perdono, per mezzo della conversione, ed indicare i mezzi che tutto questo rendano possibile, veglia (pertanto penitenza) e preghiera (e quindi vita sacramentale). Così facevano gli Apostoli, così si legge nello sprono delle loro lettere sacre; così hanno insegnato i santi e così ha da sempre confermato il Magistero perenne della Chiesa.

Cos’altro si vuole inventare?

Ma andiamo avanti.

Alla scottante domanda sulla riammissione alla santa Comunione dei divorziati risposati, ecco cosa risponde:
“…Tutti conosciamo purtroppo situazioni in cui la bellezza del matrimonio è stata ferita, adombrata. Io penso che il matrimonio abbia subito un eccesso di accentuazione canonistica, e quindi legale, cadendo molte volte nel legalismo, che ha adombrato invece la dimensione sacramentale. Un recupero di quest'ultima dimensione credo potrebbe favorire l'individuazione di soluzioni differenti, pur in continuità con la dottrina originaria. Qui allora torniamo al primato della coscienza, sulla quale niente e nessuno può intervenire. È ovvio però che deve essere una coscienza illuminata dalla parola di Dio, sostenuta, accompagnata, che si sottopone al discernimento, che accetta l'obbedienza di un cammino. Ovvio che non può essere una coscienza libertina.”

Solito tentennare titubante, che cerca di conciliare l’inconciliabile. Il legalismo avrebbe attanagliato la dimensione sacramentale! Ammesso e non concesso che sia vero, benissimo! Proprio la dimensione sacramentale vogliamo che venga esaltata, risplendendo della sua autentica bellezza; quindi, si abbandonino gli adulteri e le impudicizie di opere e pensieri di cui san Paolo e Gesù stesso ci avvisano portare alla perdizione. E che questa nuova luce non possa che venire dall’adeguamento della coscienza alla Luce divina è affermazione verissima, che, tuttavia, sembra contraddire il supposto “primato della coscienza” su cui non sia dato intervenire. Cosa se ne ricava? Un ossimoro di impossibile soluzione. Ma il teologo, una via di scampo l’ha trovata.

D. Come coniugare allora la dottrina e l'attenzione a certe situazioni? Come risponde il teologo Fischella?
R. «Avrei un'idea per uscire dall'impasse. Ci sono esempi nel Nuovo Testamento che non ho visto citati nel dibattito che ha preceduto questo Sinodo. Il primo è questo: Gesù dice che i peccati contro il Figlio dell'Uomo saranno perdonati, mentre non saranno perdonati quelli contro lo Spirito Santo. Credo che nel primo caso si tratti dei peccati di ignoranza, e dunque dovremmo capire quali siano questi peccati commessi senza rendersene conto, che potrebbero trovare un nuovo spazio nel confessionale. E poi c'è san Paolo: nella prima Lettera ai Corinzi aveva ordinato di cacciare dalla comunità una persona che viveva l'incesto, un peccato gravissimo. Ma poi, nella seconda Lettera ai Corinzi, l'apostolo ritorna sul caso e dice a quella comunità: voi lo dovete perdonare, lo dovete accogliere nuovamente, perché non abbia a soccombere sotto il peso della tristezza e perché noi non dobbiamo essere sopraffatti da Satana. Come fare per non essere sopraffatti da Satana, che è colui che divide? Non sappiamo quale sia stata la vita successiva di quest'uomo, ma san Paolo qui dà un ordine preciso e dice chiaramente che la comunità deve "consolare". Non potremmo trovare qui una dimensione utile come orientamento per coniugare i principi e la vita concreta delle comunità?».

Crediamo, ci scusi il lettore, che non sia possibile rinvenire una risposta seriamente argomentata dalle righe sopra riportate. Quale sarebbe la soluzione? L’ignoranza? Da sempre, perché il peccato sia grave, è necessaria la piena consapevolezza, purché, è chiaro, non si tratti di ignoranza “affettata”, colpevole. Dunque, qui cade la prima parte dell’originale soluzione del monsignore.

Veniamo alla lettera di san Paolo. Non ci appare corretto quello che afferma Fisichella “Non sappiamo quale sia stata la vita successiva di quest'uomo”; è vero san Paolo non lo dice, ma parla di un castigo e di una punizione abbattutasi su di lui; una situazione che è cambiata, proprio in vista di quel castigo; c’è stata riprensione ed ora quella persona, molto verosimilmente, ha cambiato vita. Si scorge tale realtà dalla tristezza che lo ha invaso; capire di aver sbagliato e voler tornare, mentre la comunità, in certo modo scottata, ancora resiste. Chi permane nell’errore non si rattrista di esso e non vuole cambiare. Parliamoci chiaro: la maggior parte dei cosiddetti “divorziati risposati” se ne infischia del Sacramento! Quei pochi a cui interessa, se non trovano un sacerdote debole e connivente, prendono in seria considerazione l’idea di cercare una soluzione che li avvicini a Cristo.

Perché la verità è questa: non esistono insolubili questioni, nel caso in cui si decida di abbandonare il peccato. Invece, quello che sembra dire il monsignore viaggia su un binario differente, partendo da una presunzione di impossibilità, addirittura per Dio stesso. Perfino nel caso estremo, quello, per esempio, di una coppia divorziata/risposata con figli (e che pertanto non possa apparentemente interrompere la convivenza), Dio non abbandonerebbe chi a Lui col cuore si apra alla sua Grazia. Questo ci dice la lettera di san Paolo, lungi dall’insegnare, al contrario, una possibile complicità/convivenza col male. E vogliamo provocare: se anche si interrompesse quella convivenza? Statene certi, se i genitori abbracciassero Cristo, i figli non ne subirebbero danni, ma ne sarebbero profondamente edificati.

Si tratta di fidarsi di Gesù e della sua Parola; tutto questo ciarlare di monsignori, teologi e generali ci svela in fondo in fondo il vero peccato del modernismo: non credere più a nulla.



ottobre 2014

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