LITURGIA E CANTO GREGORIANO
(con annesso raccontino della loro subitanea demolizione)
Pubblichiamo volentieri un breve
scritto, apparso sul Corriere della Sera a firma di Paolo Isotta,
e segnalatoci da un amico.
L'autore, che è un noto critico musicale, non
è nuovo a sottolineature del genere proprio sullo stesso argomento,
nonostante si schermisca all'inizio.
Lo scritto è particolarmente interessante soprattutto
perché è come l'eco di un sentire, grazie a Dio, oggi diffuso
in seno alla Chiesa (l'autore parla di “…angoscia donde le considerazioni
qui esposte scaturiscono.”), ma troppo spesso timidamente o pavidamente
inespresso, tanta è ancora la sudditanza cosiddetta “culturale”
nei confronti dei novatori che, armati della retorica e della manipolazione
del Concilio Vaticano II, hanno fatto strame della tradizionale liturgia
cattolica e dell'ispirato canto gregoriano, per tacere della dottrina.
L'occasione ci è parsa opportuna per riproporre
anche un breve scritto tratto da un libro del P.
Gargano, monaco benedettino, il quale racconta in che modo assolutamente
incredibile per degli uomini di Chiesa si giunse alla subitanea soppressione
del gregoriano e all'immediato stravolgimento della liturgia, proprio a
Roma, nel monastero benedettino di San Gregorio al Celio (che conserva,
oggi immeritatamente, la cattedra in marmo di San Gregorio Magno), e addirittura
prima ancora che fossero composti i nuovi libri liturgici.
Qualcuno potrebbe subito pensare che, allora, fosse davvero
tanta l'ansia di rinnovamento: in effetti si trattò, e per certi
versi ancora si tratta, di una sorta di possessione che spinse (e spinge)
tanti suggestionati a dar corso alla demolizione sistematica dei pilastri
del culto cattolico: la liturgia tradizionale e il canto gregoriano. Demolisci
la liturgia e così scomparirà il culto e sarà mutata
la dottrina.
Da allora siamo circondati dalle rovine, ma, a Dio piacendo,
siamo ancora in tempo a recuperare tanta parte di quanto è stato
sconsideratamente abbandonato in quarant'anni di postconcilio. |
Elzeviro di Paolo Isotta, pubblicato
su Il Corriere della Sera del 27 novembre 2005 (p. 35)
Se la Chiesa cambia musica
Caratteristica precipua dell'attuale sistema dei mezzi
di comunicazione di massa è che chiunque, posto il raro caso sia
titolare d'un mestiere o d'un sapere, venga richiesto di esprimersi su
altro e non su quello.
In ossequio a tale legge, scriverò di religione
cattolica e liturgia.
Sotto il pontificato polacco si è spinta all'estremo
una tendenza latente nella Chiesa e manifesta in particolar modo con Paolo
VI. Perduta alla religione cattolica, non ai varî cristianesimi da
circo equestre che vediamo negli Stati Uniti o ai sincretismi cristiano-animistici
dell'America Latina, tanto cari all'immenso Cuore Paterno di Giovanni Paolo
II, la gran parte delle nazioni civili; restata nell'ambito luterano e
calvinista quella porzione d'Europa che, sotto tutti gli altri versi, civile
poteva chiamarsi; degenerate queste due confessioni, già portatrici
d'originaria tabe, nel circo equestre americano suddetto; pronte esse peraltro,
grazie alla dottrina del «libero esame», a ogni appello dei
tempi attuali: preoccupazione costante di chi resse la Cattedra di Pietro,
non però di Giovanni XXIII, Pontefice incompreso e, o, falsificato,
fu quella di «evangelizzare», qual delicato eufemismo, il numero
maggiore di «anime».
Dovette giuocare al ribasso, la Chiesa, e cercarsele,
queste «anime», presso gli humiliores, i diseredati, i pauperes
spiritu. In ciò, si vide e vede un ritorno alla più pura
polla evangelica.
Il Messaggio di Salvezza, secondo gl'imperscrutabili
dettami della Provvidenza, si realizza tuttavia nella Storia. Il ritorno
alla polla evangelica è stato per troppo numerosi secoli oggetto
delle più appassionate dispute dottrinarie e pratiche, e mai è
avvenuto siccome fenomeno reazionario: il sublime insegnamento di san Francesco
lo mostra.
Altrimenti, le più alte menti teologiche dimostrano
tale «ritorno» inopportuno, non augurabile, impossibile.
Un sacerdote alla moda chiamerebbe utenza ciò che
si definiva «gregge» della Chiesa: quella attuale è
per la gran parte di qua dalla comprensione dei fondamenti catechistici,
non si dice delle basi teologiche del Cattolicesimo.
Il Pontefice polacco, con tutto il rispetto, si regolò
con saggezza aziendale: la vecchia, chiedo scusa, clientela l'abbiamo perduta,
dobbiamo trovarci un altro target. Pazienza se questo target costringe
ad abolire la lingua della Chiesa, il Latino, e a distruggere la liturgia:
quindi il suo stesso gheriglio, la romana cantilena, detto volgarmente
il «canto gregoriano».
Sorge qui il dubbio più angoscioso. Fino a qual
punto una religione rivelata può accettare il concetto d'un'evoluzione
al suo interno per adeguarsi ai tempi e alla nuova clientela?
La Chiesa Cattolica ha mostrato per millennî d'esser
in ciò maestra, mutando pelle e salvando la sostanza. Giunge un
punto estremo, l'attuale, quello che stiamo vivendo: ma più giusto
sarebbe dire che abbiamo già vissuto. Nel Diritto come nella Religione,
che anzi del Diritto è, almeno nel mondo indo-europeo, lontana madre,
è errato, e prima ancora inutile, tentar una distinzione tra Forma
e Sostanza. Giacché sono l'una e stessa cosa. La Liturgia è
la manifestazione del Dogma; se poi la Chiesa Cattolica vuol esser solo
un'assistenza sociale, del Dogma non necessita. Ma se il Dogma vuole preservare;
se quel Dogma vuole preservare, come farlo senza quella Liturgia?
Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, innanzi alla cultura
del quale ognuno deve inchinarsi, ebbe già a dichiarare, da pochissimo
intronizzato, il ripristino della Liturgia pre-Concilio Vaticano II «cosa
anacronistica». Mi permetto non considerar affatto anacronistica
l'angoscia donde le considerazioni qui esposte scaturiscono. Non vorrei
che la Chiesa, perduta una clientela, nella corsa al ribasso fosse per
perderle tutte.
Ha sede a Roma una Fondazione intitolata Pro musica e
arte sacra la quale organizza, fra l'altro, uno splendido festival di musica
sacra giunto alla seconda edizione. L'anima l'arcivescovo Angelo Comastri,
già titolare della sede lauretana e oggi Vicario Generale a Roma.
Piuttosto che ascoltare i Filarmonici di Vienna diretti
dal grande Seiji Ozawa (sabato), ho scelto la manifestazione inaugurale:
una Messa solenne, in San Pietro, celebrata da S.E. Comastri «con
canto gregoriano». L'iniziativa è tra le più lodevoli,
e il degnissimo Prelato, di certo destinato a portare entro breve croci
ben più pesanti che l'attuale, officia come da tempo, per proprietà
liturgica, non si vedeva. Poi forbitamente predica sull'intimo legame del
Sacrificio del Cristo con la Bellezza.
Miracolo sommo fu che la romana cantilena, centone delle
più varie origini, dalla sumera alla caldea alla ebraica alla siriaca,
sposatosi con la lingua latina tanto che il termine tecnico per definirla
è prosa, nacque per scopi affatto pratici, indi politici: di politica
culturale. Ma, nella gran parte del suo repertorio cosiddetto melismatico,
attinge la grande arte sì da esser fonte inesauribile d'ispirazione
anche per la musica moderna, la Polifonia del Quattrocento e oltre.
Mi costringo ora a una domanda ulteriore: ciò
che l'altra sera in San Pietro abbiamo ascoltato con amplificazione e fragorosissimo
organo e danzabili ritmi che cosa ha realmente da fare col Canto Gregoriano
siccome scaturito, dopo secoli di tradimenti, dalle cure centocinquantennali
di dottrina e insegnamento
dell'Ordine benedettino? Ignorantissimo, vorrei che nella
Basilica avesse preso posto l'Abate del monastero di Solesmes, sommo centro
mondiale per lo studio e l'insegnamento della romana cantilena; e mi avesse
spiegato che cosa pensare.
Brano tratto dal
libro di P. Guido Innocenzo Gargano, Camaldolesi nella spiritualità
italiana del Novecento - II (Edizioni Dehoniane, Bologna, 2001,
pagine 112-115)
Abbiamo tratto il brano dall'articolo di Sandro Magister pubblicato
nel suo sito http://www.chiesa.espressonline.it/
il 25.11.2003, col titolo: Canto gregoriano. Come perché
fu soffocato nella sua stessa culla, rintracciabile sotto l'indice
di Focus: Arte e musica (http://www.chiesa.espressonline.it/dettaglio.jsp?id=7051)
Quella notte a San Gregorio
[...] L´adozione della lingua volgare nella celebrazione
dell´ufficio divino arrivò nella comunità come una
bomba esplosiva.
L´ufficio divino, cantato in lingua volgare, significava
rottura irreparabile con una delle tradizioni più sacre custodite
per secoli dall´intero monachesimo latino occidentale: il canto gregoriano.
[...]
Il tutto fu innescato nella comunità camaldolese
dal dibattito accesissimo nell´aula conciliare, fra difensori del
latino e fautori del volgare. [...] I monaci più giovani non solo
avevano parteggiato ovviamente per l´introduzione della lingua italiana
della liturgia, ma erano anche impazienti al punto da non voler aspettare
che le novità già approvate nell´aula conciliare ricevessero
conferma con la pubblicazione ufficiale. Una volta riconosciuta l´assurdità
del latino, bisognava cambiare! [...]
I giovani cominciarono a sentirsi autorizzati a fare i
propri esperimenti in soffitta come i carbonari. Infatti non si trattava
solo di tradurre la preghiera liturgica dalla lingua latina all´italiano,
ma anche di tentare strade diverse sul piano musicale. E data l´intima
connessione del latino col canto gregoriano, i giovani decisero, senza
interpellare nessuno, che doveva essere messo da parte, almeno per il momento,
anche il sublime canto gregoriano.
Nella soffitta della chiesa di San Gregorio al Celio
si installò presto, dunque, all´insaputa dei superiori, una
vera e propria orchestra fatta di strumenti impropri, ma sufficientemente
adatti all´impresa cercata.
Dopo prove e riprove, tra arrabbiature a non finire con
maestri di cappella del tutto improvvisati, si decise che, nella domenica
di quinquagesima, il gruppo fosse sufficientemente maturo per venire allo
scoperto in una celebrazione liturgica semiufficiale completa di chitarre,
di tamburi e di canti inediti prodotti in italiano.
Il luogo prescelto fu la cappella Salviati, che è
situata alla sinistra della chiesa. il celebrante sarebbe stato un prete,
studente dell´Istituto Liturgico Anselmianum, ospite dell´attiguo
Hospitium Gregorianum.
Tutto si svolse con la massima serietà e la soddisfazione
di tutti. Nessuno però fece caso che proprio in quella domenica
era capitato, durante la celebrazione, un signore in visita turistica alla
cappella, che poi se ne era andato esterrefatto. Quell´estraneo corse
difilato in vicariato e denunziò lo scandalo.
Si mosse il cardinale [Angelo] Dell´Acqua, a quei
tempi vicario di Sua Santità per la diocesi di Roma. I fulmini caddero
a ciel sereno sull´ignaro [priore generale] p. Benedetto [Calati],
che venne a sapere nello stesso istante cosa avevano combinato i suoi giovani
monaci e la gravità delle conseguenze paventate.
Tutto concitato, p. Benedetto convocò il capitolo
conventuale. [...] I monaci ascoltarono la reprimenda in silenzio, con
gli occhi bassi, ma niente affatto convinti di aver commesso chissà
quale misfatto. E quando p. Benedetto costrinse uno per uno tutti a prender
posizione pubblica sul crimine commesso, sobbalzò sulla sedia nel
constatare la determinazione, di tutti e di ciascuno, a difendere il gruppo
degli "scapigliati" ? si chiamavano così in segreto quei birbanti
- insinuando la paura delle noie che inchiodavano invece i superiori alle
poltrone, impedendo loro di percorrere la via già chiaramente segnata
dai bellissimi dibattiti delle assemblee conciliari.
A questo punto p. Benedetto piantò tutti in asso
e si fiondò in cella. Rimanemmo tutti di sasso. Imbarazzati. In
silenzio.
A tarda sera, non vedendolo a tavola, né alla
celebrazione di compieta, spedirono me in avanscoperta per cercare una
mediazione possibile.
La risposta fu talmente "altra" che non parve vera.
"Bene", aveva risposto p. Benedetto, "faremo tutto come
avete detto. Da domani celebreremo la messa e l´intero ufficio in
italiano".
Dalle parole ai fatti. Qualcuno si scoprì all´improvviso
poeta, qualcun altro traduttore, e tutti divennero finissimi intenditori
di canti e di spartiti.
P. Benedetto, da parte sua, volle dare a tutti grande
dimostrazione di coraggio permettendo di spostare l´altare e costruirne
uno nuovo, rivolto verso il popolo. Ormai il dado era tratto. [...]
(30.11.2005)
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