L'altare e il santuario: ieri e oggi

 Di Mons. Klaus Gamber 
 

"…cosí nel santuario ti ho cercato, per contemplare la tua potenza e la tua gloria." (Salmi 63 (62), 3).
"…al risveglio mi sazierò della tua presenza." (Salmi (17 (16), 15).

Queste parole del salmista fanno ben comprendere quale fosse la partecipazione interiore dei fedeli dell’Antico Testamento che accedevano al Tempio di Gerusalemme; in definitiva esse non sono altro che la preghiera di Mosè che chiede a Dio di poter contemplare il suo volto (cfr. Esodo 33, 11-23). Ma, come Mosè non vide Yahweh che "di spalle", cosí il credente Israelita non vedeva che il santuario di Dio, di piú, se non apparteneva al rango dei sacerdoti, lo stesso santuario lo vedeva solo dall’esterno.

Il visitatore della casa di Dio (domus Dei) cristiana, dovrebbe esprimere lo stesso augurio del salmista: vedere "la gloria" di Dio e contemplare al sua "potenza", così come essa appare nel corso della messa, tramite i riti e le rappresentazioni. Noi contempliamo il Signore velato sotto le specie eucaristiche, poiché quaggiú non ci è permesso contemplare il volto di Dio senza morirne (cfr. Esodo 33, 20).

Origéne ricorda: "È certo che le potenze angeliche prendono parte all’assemblea dei fedeli e che la virtú del nostro Signore e Salvatore vi è presente, al pari degli spiriti dei santi" (2) . E il poeta siriano Balaï dichiara: "Affinché lo (il Signore) si possa trovare sulla terra si è costruito una casa fra i mortali e ha edificato degli altari… perché la Chiesa viva. Che nessuno si sbagli: è il Re che abita qui! andiamo nel tempio per contemplarlo" (3) .

Al fine di mirare un po’ "della potenza e della gloria" di Dio e viverne nella liturgia, gli uomini, nel corso dei secoli scorsi, hanno edificato delle chiese e delle cattedrali e le hanno sistemate come meglio potevano. Hanno convenuto che il loro tempio, in quanto dimora di Dio, fosse sontuoso, nonostante vivessero in misere capanne. Non era il loro santuario? Stava bene a tutti.

Mai si erano costruite tante nuove chiese come durante gli anni che seguirono la seconda guerra mondiale. La maggior parte di esse sono delle costruzioni puramente utilitaristiche, in cui si è volontariamente rinunciato a produrre delle opere d’arte, nonostante siano costate tanti milioni. Dal punto di vista tecnico non manca niente: hanno una buona acustica e una perfetta aerazione, sono ben illuminate e facili da scaldare. L’altare si può guardare da tutti i lati.

Tuttavia, queste chiese non sono delle case di Dio, nel vero senso della parola, non sono uno spazio sacro, un tempio del Signore ove si ama andare per adorare Dio e per esporgli i propri bisogni. Sono delle sale di riunione dove non si va piú al di fuori dei momenti dedicati agli offici. Degne compagne degli "alveari" e dei "depositi umani" quali sono i fabbricati delle periferie delle città, queste chiese, nel linguaggio popolare, sono talvolta chiamate "silos d’anime" o "depositi da pater noster".

Altre sono state espressamente concepite come delle opere d’arte: il loro modello è la cappella del pellegrinaggio di Ronchamp. Qui, il celebre architetto Le Corbusier, che era agnostico, è riuscito a produrre un’opera d’arte architettonica. E tuttavia non è diventata una chiesa, forse, al massimo, un luogo di preghiera adatto alla meditazione.
Da allora, il modello della cappella di Ronchamp venne imitato e la costruzione delle chiese divenne fattore di sperimentazione in cui si sbizzarrí il soggettivismo degli architetti. E la cosa divenne ancora piú facile dal momento che s’impose sempre e innanzi tutto il princípio secondo il quale non vi sono "spazi sacri" che si oppongono al "mondo profano".

I nuovi edifici divennero cosí dei simboli dei nostri tempi, e anche il segno di un dissolvimento delle norme esistenti, nonché l’immagine di ciò che è caotico nell’universo contemporaneo. Ora, uno spazio cultuale ha le sue leggi, che non sono sottomesse né alla moda né ai cambiamenti del tempo. Nel Tempio di Gerusalemme Dio abita in una maniera particolare, ed è in un luogo siffatto che si compie il culto reso a Dio.

C’è da aggiungere anche che, oggi, le basi spirituali e teologiche difettano; la vita pubblica è in gran parte secolarizzata; le Chiese cristiane non sono piú, sfortunatamente, la forza principale della società occidentale. E tuttavia gli architetti continuano a costruire, come se niente fosse cambiato, tanto il denaro in genere non manca: i giganteschi centri parrocchiali che si edificano nelle periferie darebbero l’impressione che la Chiesa continui ad essere la grande calamita che attira gli uomini.

In avvenire sarà meglio costruire solo degli edifici semplici, relativamente piccoli che, se non si distingueranno molto dall’esterno, presenteranno però all’interno una sistemazione di buon gusto, interamente orientata al suo fine cultuale. Allo stesso modo, la basilica della Chiesa delle origini, vista dalla strada, si distingueva solo poco come edificio; tuttavia, per la sontuosità dei suoi tendaggi e delle sue lampade, e soprattutto per l’arredo prezioso dell’altare e del santuario, il suo interno componeva un quadro degno del mistero che vi si svolgeva.

Nelle nuove chiese, la disposizione del santuario è oggetto di soluzioni differenti. Nelle chiese costruite fra le due guerre, per raggiungere l’altare si dovevano superare numerosi gradini, cosí che l’altare stesso si presentava su un piano sopra elevato; ai giorni nostri si piazza l’altare su un podio isolato, disposto il piú vicino possibile ai fedeli. 
Il centro di questo podio è costituito da una tavola d’altare (mensa), generalmente di grandi dimensioni e sprovvista di ogni ornamento. A fianco si trova un ambone, in pietra, come l’altare, e dietro tre o piú seggi (in capitonné), per il celebrante ed i suoi assistenti. Infine, isolato, in qualche parte contro il muro dell’abside, il tabernacolo. Il crocifisso, verso il quale fino ad oggi si volgevano gli sguardi di coloro che pregavano, manca per la maggior parte della giornata, oppure si trova, in miniatura, posato sull’altare. Su quest’ultimo, a fianco dell’immancabile mazzo di fiori, si trovano dei porta candela, riuniti insieme o, quando si tratta di candelabri, questi vengono disposti a terra, attorno all’altare.

In cambio, le chiese ortodosse d’Oriente vengono costruite, ancora oggi, alla stesso modo di mille anni fa, ornate di pitture e di icone. In questo caso si tratta di un’arte tipica, in cui l’architetto e l’artista sono legati ad un "tipos", ad un modello tradizionale, senza peraltro che questo abbia prodotto un’arte uniforme.

Anche in Occidente, sulla base della tradizione che si aveva in comune con l’Oriente, era essenziale che il santuario fosse separato dallo spazio riservato ai fedeli, come già a Gerusalemme, ove il santuario aveva un suo posto in mezzo alle costruzioni che componevano il Tempio. Il principio oggigiorno tanto decantato, secondo il quale "l’altare dev’essere al centro", è dunque falso, se ci si vuole riferire alla sua localizzazione.

L’altare è il centro dell’azione sacra: è su di esso che nel corso della celebrazione della messa riposa "…l’agnello, come immolato" dell’Apocalisse (5, 6). È per questo che sant’Ildegarda di Bingen la chiama: "la tavola dispensatrice della vita" e aggiunge: "Quando il prete… s’accosta all’altare per celebrare i santi misteri, un bagliore di luce scintillante appare subito nel cielo. Gli angeli scendono dal cielo, la luce avvolge l’altare… e gli spiriti celesti s’inchinano alla vista del servizio divino" (4).
 

La netta separazione fra il santuario e la navata apparve all’epoca in cui la gente decise di aderire in massa alla Chiesa, dunque, al piú tardi, dopo il 300. Allora vennero erette delle barriere intorno al coro e si apposero delle cortine, una attorno al baldacchino dell’altare, un’altra alla pergola delle barriere del coro; pergola che, nelle piccole chiese, si riduceva ad una semplice traversa di legno (fig. 1). Il tutto perché si riteneva che il mistero celebrato sull’altare dovesse essere preservato, e quindi non lo si esponeva direttamente agli sguardi degli uomini.

L’iconostàsi bizantina non è altro che un’estensione di queste barriere del coro (cancelli) della chiesa delle origini. L’iconòstasi ha abitualmente tre porte, come i cancelli costruiti sotto l’imperatore Giustiniano (+565) nella chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, la quale era già dotata, come accadrà in genere nei secoli seguenti, di raffigurazioni di Cristo e di Maria, degli angeli, dei profeti e degli Apostoli. 

Fig. 1 - Veliko Tirnovo (Bulgaria), VI sec. Altare e barriera 
del coro (ricostruzione). La pergola non è raffigurata

La celebre icona di Cristo del monastero del monte Sinai, data della stessa epoca, e viste le sue dimensioni - 84 cm. d’altezza - deve provenire da una di queste antiche iconòstasi. Si fissavano, e si fissano ancora, le icone, parte fra le colonne della pergola e parte sopra di essa, come nel caso della deisis (Cristo fra Maria e Giovanni Battista).
Nella Chiesa d’Occidente, le cortine (vela), che originariamente facevano parte dell’ornamento dell’altare e delle barriere del coro, sono state definitivamente dismesse nelle chiese di epoca barocca, ove tutto era predisposto in funzione della visuale e della intelligibilità. Questo spiega perché nel sacramentario di Angoulême (800 ca.), alla fine delle formule di consacrazione di una chiesa, si ritrova ancora la seguente rúbrica: "Poi si ricoprono gli altari (con dei panni) e si dispongono i tendaggi del tempio (vela templi)" (5) . Lo stesso dicasi per il rito di consacrazione delle chiese prescritto nel sacramentario di Drogon (IX sec.), in cui si prevede un velum sospeso fra la navata e l’altare (inter ædem et altare) (5).

Ma ciò che piú importa è che reimpariamo ad avere rispetto per l’altare.

Nella Chiesa d’Oriente, come in quella d’Occidente, è d’uso che il sacerdote che si accosta all’altare vi s’inchini profondamente dinnanzi; nel libro dell’Esodo (29, 37), a proposito dell’altare del  tabernacolo, sta scritto: "Tutto ciò che lo tocca sarà santificato". Anche Gesú dichiara che è "l’altare che rende sacra l’offerta" (cfr. Matteo 23, 18) e che non vi si deve presentare l’offerta se prima non ci si è riconciliati col proprio fratello (Cfr. Matteo, 5, 23).
Al momento dell’offerta del sacrificio del Nuovo Testamento, l’altare diviene il trono di Dio. È per questo che San Giovanni Crisostomo previene i suoi uditori dicendo: "Pensa a colui che si accinge ad entrare qui. Trema già all’accostarsi. Poiché colui che appena scorge il trono (vuoto) del re, freme nel suo cuore all’attesa del suo arrivo" (6).

Nella Chiesa delle origini, e anche in seguito, dal baldacchino dell’altare, oltre al lampadario circolare, pendeva un vaso d’oro o d’argento, raffigurante spesso una colomba, e in cui si conservava l’eucaristia (per la comunione dei malati). A questo scopo si utilizzò molto presto anche uno scrigno, il quale, al pari dell’Arca dell’Alleanza dell’Antico Testamento (arca), era in legno d’acacia ricoperto di lamine d’oro (cfr. Esodo 37, 1-9). A Coira se ne conserva un bell’esemplare dell’VIII sec. Il ciborio dorato dell’imperatore Arnulfo, che si trovava prima a Sant’Emmeran di Ratisbona e che adesso si trova a Monaco, è del IX sec.; con le sue quattro colonnine esso somiglia molto all’artophorion (tabernacolo) che si trova oggi sull’altare delle chiese bizantine.
Questi contenitori erano sempre poggiati sull’altare o in una nicchia praticata sul suo lato posteriore. È da essi che trae origine il tabernacolo d’altare, metallico, dei tempi moderni. Ancora nel XIII sec., Guillaume Durand, nel suo Rationale divinorumofficiorum, parla dell’installazione di un’arca (tabernacolo) sull’altare, nella quale "si depongono insieme il corpo del Signore e le reliquie dei santi) (7). Di contro, la conservazione del pane eucaristico in un tabernacolo fissato nel muro sinistro del coro è di data piú recente, e fu abituale soprattutto all’epoca gotica. In ogni caso, la conservazione del tabernacolo sull’altare è del tutto saggia. Tuttavia, non v’è niente da obiettare alla conservazione della santa eucaristia in un altro posto nella chiesa, purché sia degnamente idoneo.
 

Fino al V sec., come attestato da Nilo d’Ancira (+430) (8), l’àbside, ove si trovavano il trono del vescovo e i seggi dei sacerdoti, nella sua parte superiore portava solamente la croce, oppure, come si vede ancora in certi mosaici romani, oltre alla croce, il Cristo docente, attorniato dagli Apostoli; piú tardi, un po’ dappertutto in Occidente fino all’epoca gotica, nella parte superiore dell’àbside il Cristo in trono in una mandorla, sull’arcobaleno, attorniato dai quattro animali dell’Apocalisse (4, 8 e ss.) e dagli angeli, e nel registro inferiore, la Madre di Dio, gli Apostoli e altri santi a rappresentare l’assemblea celeste.
Al momento della celebrazione dell’eucaristia, i fedeli, contemplando l’immagine di Cristo sul suo trono celeste, lo sentivano presente fra loro, ugualmente in trono. E in effetti non ci si può accontentare di ricordare la parola del Signore: " …dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Matteo 18, 20), occorre esprimerla anche in maniera sensibile, e precisamente con le immagini.

Un tempo, un muro d’àbside nudo, come si trova oggi in tante chiese moderne, era inconcepibile. Quando si ultimava una nuova costruzione, era proprio questo muro ad essere ornato per primo con pitture o mosaici, e solo dopo si pensava a decorare i muri rimasti. Ricordiamo qui i magnifici mosaici della basilica di Ravenna e delle cattedrali di Venezia, di Torcello e di Parenzo (fig. 2).
Mentre le pitture dell’àbside, come abbiamo visto, avevano innanzi tutto un carattere cultuale, evocando la presenza del Signore in trono al di sopra dell’assemblea, le pitture dei muri della navata, con le loro scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento, avevano come scopo primario quello didattico, almeno secondo il pensiero occidentale. Erano destinate ad istruire i fedeli circa le realtà divine.

L’Oriente bizantino, invece, considera queste raffigurazioni come un’attualizzazione dei misteri della salvezza, mentre i numerosi ritratti di santi lungo i pilastri ed i muri laterali simboleggiano la presenza dell’assemblea celeste o il fatto di ritrovarsi uniti ad essa (cfr. Ebrei 12, 22).
È per questo che l’interno della chiesa ortodossa diviene il luogo ove il passato, il presente e il futuro si ricongiungono, ove si rende visibile l’eternità (hodie - l’oggi, termine con cui iniziano numerosi canti solenni); ove il cielo e la terra si uniscono (fig. 3).

Nelle chiese d’Occidente, come abbiamo visto, lo sguardo dei partecipanti era un tempo diretto verso la raffigurazione del Figlio di Dio trasfigurato, oppure verso la croce, segno della nostra salvezza. E la croce era innanzi tutto considerata come un segno di vittoria, come il segno del Figlio dell’uomo che ritorna alla fine dei tempi (cfr. Matteo 24, 30); e per questo essa era ornata d’oro e di pietre preziose. Essa era posta dietro l’altare e, fino all’epoca romana, il corpo di Cristo non vi figurava.

Fig. 2 - Santuario (parte superiore) della cattedrale di Parenzo 
(Istria), VI sec. (Disegno di Jupp Palm)


Fig. 3 - Chiesa del convento di Nerezi, vicino Skopie (Macedonia)

È solo piú tardi che si instaurò l’uso di dipingervi sopra l’immagine del Crocifisso o di fissarvela sotto forma di raffigurazione su smalto, ma, anche allora, non tanto come Cristo doloroso o morente fra atroci sofferenze, quanto come vincitore della morte o sommo sacerdote. La raffigurazione plastica del corpo suppliziato, come in seguito è divenuta abituale in Occidente, l’Oriente la rigetta per principio, perché si ritiene che sottolinei troppo l’aspetto umano, fisico.

Dal momento che, secondo la concezione tradizionale, la raffigurazione sull’àbside del Figlio di Dio in gloria e la croce poggiata o al di sopra dell’altare, sono gli elementi essenziali dell’addobbo del santuario, non si è mai messo in dubbio che lo sguardo del sacerdote celebrante, al momento dell’offerta del sacrificio, debba essere diretto verso Oriente, verso la croce e la raffigurazione di Cristo trasfigurato, e non verso i fedeli che partecipano alla celebrazione, come è il caso oggi nella celebrazione versus populum (verso il popolo).
Tuttavia, poche chiese moderne hanno ancora un tale punto di riferimento; sembra anzi che in generale gli artisti moderni temano di introdurre delle opere plastiche nelle chiese. Cosa dovuta ai conflitti interiori che lacerano l’uomo moderno e lo mettono nell’impossibilità di creare un’arte sacra. In definitiva, ciò che manca è la tradizione che, nelle chiese d’Oriente, non ha cessato di impregnare, fino ai nostri giorni, lo svolgimento del culto, l’architettura della chiesa e l’arte liturgica.

Nell’ortodossia, l’artista ha come prima missione, quella di raffigurare il mistero della salvezza, come esso è descritto nella Sacra Scrittura e trasmesso dalla Tradizione; delimitazione, questa, che lo preserva dall’arbitrio molto spesso eccessivo che possiamo riscontrare nell’arte sacra contemporanea, pur senza limitarlo oltremodo nella sua realizzazione artistica.

Dopo che in Occidente, contrariamente a quanto avvenuto in Oriente, la disposizione del santuario e degli altari ha subíto, a piú riprese, diversi cambiamenti nel corso dei secoli , oggi non si può negare che, in seguito al concilio Vaticano II, si sia prodotto un cambiamento d’ordine fondamentale. In molti ambienti, subito dopo il Concilio, si è giunti a sopprimere il banco della comunione, quanto rimaneva cioè dell’antica barriera del coro, e si è installato - davanti all’esistente altar maggiore - un altare destinato alla celebrazione verso il popolo. Dappertutto microfoni! sull’altare, sui seggi, sull’ambone; e la cattedra? mai piú utilizzata. E queste nuove disposizioni del santuario sono state attuate in tutti i continenti, con un coralismo straordinario. Mentre nelle chiese antiche l’altare (nuovo) verso il popolo, i seggi e l’ambone sono stati concepiti, per molto tempo, come oggetti mobili, che si potevano rimuovere in qualsiasi momento, negli edifici nuovi o rinnovati essi sono stati ordinati in maniera definitiva, in funzione di questa nuova organizzazione che si ritiene "moderna". L’eucaristia si conserva in un tabernacolo murale (in mezzo al muro di fondo o sul muro laterale sinistro). Il nuovo altare verso il popolo è in pietra e spesso posto in maniera da permettere solo la celebrazione versus populum, i seggi sono talvolta due, anch’essi in pietra, come l’ambone, di aspetto massiccio e in uno stile sovente equivoco, in ogni caso non in linea con la tradizione!

Ora, addentrandoci nei secoli passati, vi sono veramente tantissimi modelli in grado di fornirci delle idee circa la sistemazione in particolare dell’altare.

E. A. Lengeling ha esposto le Tendenzen des deutschen katholischen Kirchenbaus aufgrund der Beschlüsse des 2. Vatikanischen Konzils (Tendenze della costruzione delle chiese cattoliche in Germania in base alle decisioni del concilio Vaticano II), in un articolo apparso con questo titolo nella Liturgisches Jahrbuch del 1967. Le esigenze che vi sono riportate, nel frattempo, si sono largamente imposte; ma non ci si è seriamente preoccupati di fondare storicamente questa nuova sistemazione, fatto salvo lo studio di Otto Nussbaum di cui parleremo dopo.

Per finire, ancora poche parole sulle celebrazioni eucaristiche in massa, all’aria aperta. Al cospetto di queste celebrazioni, molti provano un certo disagio, soprattutto in relazione al modo con cui si svolge la comunione in massa. 

Non dimentichiamolo: vero è che Gesú Cristo ha predicato alle grandi folle che, spesso, erano composte da diverse migliaia di persone (cfr. Matteo 14,21), tuttavia non ha istituito la Santa Eucaristia in presenza di masse d’uomini, bensì nella cerchia ristretta dei suoi apostoli. L’intera cristianità è stata sempre dell’avviso che la messa, questo sacrificio che unisce il cielo e la terra, non poteva essere celebrata che in locali sacri, destinati allo scopo. Si sa anche che lo stesso agnello pasquale ebraico non poteva essere consumato che all’interno e non all’aria aperta (cfr. Esodo 12, 46). Occorre tener presente, inoltre, il fatto che la preparazione e la consacrazione delle ostie necessarie alla comunione di diverse migliaia di persone, addirittura fino a un milione di persone, comporta delle difficoltà enormi.
Sembra, però, che per questioni di princípio non si voglia rinunciare ad una partecipazione dei fedeli alla comunione - benché questa sarebbe stata la soluzione piú semplice - perché, partendo dall’idea che la messa ha il carattere di un pasto, si pensa, a torto, che l’assunzione della comunione faccia necessariamente parte di ogni messa.
Ma la cosa del tutto incomprensibile è che si celebrino delle messe all’aria aperta anche quando si dispone di chiese spaziose. Questo è in contrasto con una tradizione della Chiesa che risale a quasi 2000 anni e, per di piú, è in contrasto con la natura della santa messa che è stata sempre considerata come un sacrificio e come il compimento di un mistero.
È per questo che per celebrare il "mistero della fede" dobbiamo condurci fin dentro le mura delle nostre chiese, protettrici del mistero. La santità del luogo indurrà ad assumere la migliore attitudine al cospetto del sacro, il quale si svela solo a colui che gli si accosta con rispetto.
 

(tratto da MONS. KLAUS GAMBER, Tournés vers le Seigneur!,  Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux, F, pp. 5-18 - 
La traduzione è nostra)

NOTE:
(2) - La priére, 31, n° 5, trad. di A. G. Hamman (DDB, 1977), p. 120.  (torna al testo)
(3) - Bibliothek der Kirchenväter, p. 64.  (torna al testo)
(4) - Scivias, II, vis. 6.  (torna al testo)
(5) - Mons. Duchesne, Origines du culte chrétien, 3a ed., pp. 485-488.  (torna al testo)
(6) - Migne, PG 61, 313.  (torna al testo)
(7) - I, 2 De l'autel, n° 5.  (torna al testo)
(8) - Migne, PG 79, 577-580.  (torna al testo)
 





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