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L'altare rivolto verso il popolo Domande e risposte
Di Mons. Klaus Gamber
"Poi venne un altro angelo e si fermò all’altare, reggendo un incensiere d’oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi bruciandoli sull’altare d’oro, posto davanti al trono" (Apocalisse 8, 3). Secondo la concezione dell’epistola agli Ebrei, il tempio
terreno di Gerusalemme e il suo altare erano l’immagine del santuario che
è in cielo ed in cui il Cristo, eterno sacerdote, è entrato
(9, 24).
Queste osservazioni preliminari erano necessarie per far comprendere a che punto siano cambiate le concezioni attuali circa l’altare. Questo cambiamento non è stato effettuato brutalmente, ma poco la volta; si è cominciato diversi anni fa, prima del Concilio Vaticano II. Nella Richtlinien für die Gestaltung des Gotteshauses aus dem Geist der römischen Liturgie (Istruzioni per la sistemazione delle chiese nello spirito della liturgia romana), del 1949, Theodor Klauser sostiene che: "Certi segni fanno intravedere che, nella Chiesa futura, il prete si terrà come un tempo dietro l’altare e celebrerà col viso volto verso il popolo, come si fa ancora oggi in certe basiliche romane; l’augurio, che si solleva dappertutto, di veder piú chiaramente espressa la comunione al tavolo eucaristico, sembra esigere questa soluzione" (n° 8). Ciò che Klauser presentava allora come augurabile, come si sa, nel frattempo è divenuto quasi dappertutto la norma. Si pensa di aver fatto rivivere così un uso della cristianità delle origini. Ora, come dimostreranno chiaramente le spiegazioni che seguono, si può provare con certezza che non si è mai avuta, né nella Chiesa d’Oriente né in quella d’Occidente, alcuna celebrazione versus populum (verso il popolo), ma che, al contrario, per pregare tutti si volgevano sempre ad Oriente, ad Dominum (verso il Signore). L’idea di un “faccia a faccia” tra il sacerdote e l’assemblea, nel corso della messa, risale piuttosto a Martin Lutero, il quale, nel suo piccolo libro Deutsche Messe und Ordnung des Gottesdienstes (La messa tedesca e l’ordinazione del culto divino), del 1526, all’inizio del capitolo Della domenica per i laici, cosí scrive: "Noi conserveremo gli ornamenti sacerdotali, l’altare, le luci fino all’esaurimento o fino a quando non riterremo di cambiarle. Lasceremo, tuttavia, che altri possano fare diversamente; ma nella vera messa, fra veri cristiani, occorrerebbe che l’altare non restasse com’è adesso e che il prete si volgesse sempre verso il popolo, come senza alcun dubbio Cristo ha fatto al momento della Cena. Ma questo può attendere." Ed ecco che il momento atteso è arrivato… Per giustificare il cambiamento di posizione del celebrante
in rapporto all’altare, il Riformatore si riferiva al comportamento di
Cristo all’Ultima Cena. In effetti egli aveva davanti agli occhi le abituali
raffigurazioni dei suoi tempi: Gesú in piedi o seduto a metà
di una gran tavola, con gli Apostoli alla sua destra ed alla sua sinistra.
Questa disposizione dei posti la ritroviamo, in maniera
costante, nelle raffigurazioni piú antiche della Cena di Gesú,
fino a metà del Medio Evo. Il Signore è sempre allungato
o seduto dalla parte destra della tavola (fig. 4). È solo verso
il XIII sec. che si incomincia ad imporre un nuovo tipo di raffigurazione:
ed allora Gesú è posto dietro la tavola, in mezzo agli Apostoli
che lo circondano. È questa l’immagine che Lutero aveva davanti
agli occhi.
Prima domanda
Qui è opportuno distinguere tra celebrazione dell’àgape
- il pasto fraterno - e celebrazione dell’eucaristia, che all’inizio seguiva
l’àgape e piú tardi la precedette. Io ho già trattato
a fondo la questione nel mio studio: Beracha.
Ora, mentre per i pasti in comune, le àgapi, si
stava seduti a delle tavole, per la celebrazione dell’eucaristia ci si
alzava e ci si andava a porre dietro il celebrante, che stava all’altare,
come prescrive espressamente la Didascalia degli Apostoli, una istruzione
del II-III sec., che esigeva che ci si volgesse
esattamente verso Oriente (10).
Seconda domanda
Nella Costituzione conciliare sulla sacra liturgia, promulgata dal Concilio Vaticano II, si cercherà invano una prescrizione che imponga di celebrare la santa messa volti verso il popolo. Ancora nel 1947, papa Pio XII, nella su enciclica Mediator Dei (n° 49), sottolineava come si sbagliassero coloro che volessero ridare all’altare la sua antica forma di mensa (tavola). Fino al Concilio la celebrazione verso il popolo non era autorizzata *, tuttavia essa era tacitamente tollerata da numerosi vescovi, soprattutto per le messe dei giovani. Da noi, in Germania, la nuova posizione del sacerdote
fece la sua apparizione con la Jugendbewegung (movimento della giovinezza),
negli anni venti, allorché si incominciò a celebrare l’eucaristia
per dei piccoli gruppi; a questo proposito, Romano Guardini aveva svolto
il ruolo di precursore, con le sue messe al castello di Rothenfels. Il
movimento liturgico diffuse quest’uso, soprattutto Pius Parsch, che sistemò
in questo senso, per la sua "parrocchia liturgica", una piccola chiesa
romana (Santa Gertrude) a Klosterneuburg, vicino Vienna.
Sfortunatamente, è esatto che i nuovi altari verso il popolo siano stati installati dovunque nel mondo - almeno per quanto riguarda l’area di diffusione della Chiesa cattolica. Ma, a rigore, essi non sono prescritti. Nelle chiese ortodosse d’Oriente - ove, dopo tutto, vi sono alcune centinaia di milioni di cristiani - si continua a rispettare l’uso della Chiesa delle origini, secondo cui il sacerdote che celebra il Santo Sacrificio è girato, insieme con i fedeli, verso l’àbside. Questo vale sia per le Chiese di rito bizantino (greca, russa, bulgara, serba, ecc.) sia per le Chiese dette di rito orientale antico (armena, siriana, copta). Che l’altare debba essere scostato dal muro "perché
si possa facilmente girarvi attorno", è un’altra questione. Questa
esigenza della Congregazione dei Riti si accorda perfettamente con la tradizione
** .
Per sottolineare la santità dell’altare, questo - almeno nelle grandi chiese - era generalmente sormontato da un baldacchino in materiale prezioso, poggiante su quattro colonne. Ai quattro lati erano fissate delle cortine; certo in riferimento alla tenda del Tempio di Gerusalemme, che separava il Santo dei Santi (Sancta Sanctorum) dal santuario, come Dio aveva prescritto a Mosè: "Farai il velo di porpora viola, di porpora rossa, di scarlatto… Lo appenderai a quattro colonne di acacia, rivestite d’oro… Collocherai il velo sotto le fibbie e là, nell’interno oltre il velo, introdurrai l’arca della Testimonianza. Il velo sarà per voi la separazione tra il Santo e il Santo dei santi" (Esodo 26, 31-33). Come abbiamo già detto, nel rito bizantino è l’iconostàsi che attua la separazione, ma, secondo la concezione ortodossa, essa rappresenta anche, insieme alle icone, l’Ecclesia cślestis (la Chiesa del Cielo) che celebra di concerto con i fedeli, tanto che essa dev’essere considerata, da quelli che partecipano alla celebrazione, non solo come una separazione, ma anche come un oggetto di contemplazione. In altri riti orientali non bizantini, l’iconostàsi manca; al suo posto vi sono, come presso gli Armeni, due tende: una piccola davanti all’altare e una grande che, in certi momenti della liturgia della messa, nasconde tutto il coro agli occhi dei fedeli. E a questo proposito san Giovanni Crisostomo dice: "Quando vedi chiudere le tende, pensa che in quel momento il cielo si apre lassú in alto e ne discendono gli angeli" (11). Secondo la testimonianza di Guillaume Durand, queste tende furono anche usate in Occidente, fino a metà del Medio Evo. Egli parla di tre vela: uno che ricopre le offerte del sacrificio, il secondo intorno all’altare e il terzo sospeso davanti al coro (12). Mentre la Chiesa delle origini dissimulava l’altare come
poteva, ornandolo con tessuti preziosi e con pendoni, ecco che oggigiorno
questo stesso altare si trova posto, nudo, in mezzo alla chiesa, esposto
a tutti gli sguardi. La sua santità, in quanto luogo delle offerte
del sacrificio, si ritrova così meglio evidenziata? Certamente no.
A meno che non si voglia prendere in considerazione - contro tutte le tradizioni
- la sua funzione di tavola da pasto e la si voglia rendere manifesta in
tal modo.
Terza domanda
Ciò è esatto nella misura in cui, nelle
chiese cattedrali e nei monasteri, vi era in genere, da dopo la fine dell’epoca
romana, un altare destinato al popolo, posto davanti al jubé;
quest’ultimo era una specie di chiusura del coro, un po’ piú alta
di quella delle chiese antiche, con due entrate che davano sul coro dei
canonici o dei monaci, i quali, in tal modo, si trovavano separati dal
resto della chiesa. A causa della croce posta al di sopra di quest’altare,
o piú esattamente sul jubé, l’altare stesso veniva chiamato
"altare della croce".
Come allora si procedette a delle importanti modifiche
architettoniche all’interno delle chiese - per far sí che i fedeli
potessero guardare direttamente l’altar maggiore - cosí oggi, in
seguito al Concilio, quasi tutte le chiese antiche sono state ritoccate
con dei lavori di "aggiornamento".
Allorché le considerazioni artistiche lo hanno
permesso, l’altar maggiore è stato totalmente soppresso, e l’eucaristia
viene conservata in un tabernacolo murale laterale; ed allora sorge subito
il problema di come occupare lo spazio così liberato dell’àbside.
Le soluzioni adottate sono le piú diverse. Spesso vi si è
installato l’organo, con la sua cassa decorativa, oppure, per la maggior
parte del tempo, la corale parrocchiale, oppure si è semplicemente
appeso al muro dell’àbside l’antica pala d’altare o un pendone di
valore, come fossero degli ornamenti.
La cosa assume un’evidenza impressionante nelle grandi
chiese, come per esempio nella cattedrale di Spira, ove lo sguardo di coloro
che vi entrano si posa subito sull’antico altar maggiore sormontato dal
suo baldacchino. Oggi quest’altare sembra fluttuare nel vuoto: la tavola
d’altare installata nel coro, malgrado le sue dimensioni, si nota appena
in questo spazio tutto volto in altezza, mentre l’altare verso il popolo,
alcuni gradini piú in basso, non costituisce affatto un "centro
di gravità spaziale".
Quarta domanda
La cosa esatta è che nei primi secoli, i seggi
dei vescovi e dei sacerdoti erano posti lungo il muro dell’àbside
e non ai lati dell’altare; in ambito greco essi erano spesso nettamente
rialzati su diversi scalini, di modo che il vescovo, assiso sul trono,
potesse esser visto da tutti e meglio ascoltato al momento del suo sermone,
che un tempo pronunciava dal suo seggio. Il seggio centrale era sempre
riservato al vescovo, come accade ancora oggi in Oriente.
Gli altari di grande dimensione erano rari nei tempi antichi, eppure, al pari degli altri che abbiamo citato, anch’essi erano riccamente ornati di stoffe preziose che cadevano dai quattro lati fino a terra, di modo che le tavole che ricoprivano non si presentavano come tali. Piú tardi, in molti posti, si dispose sul lato anteriore degli altari un pendone di stoffa, di legno e di metallo riccamente ornato. Cosí che non si può affermare che il carattere di pasto della messa sia stato sottolineato dagli altari a forma di tavola. Parleremo dopo piú a fondo della posizione del
sacerdote all’altare ai tempi della Chiesa delle origini. Qui ricordiamo
solo quanto scriveva sulla rivista Der Seelsorger, nel 1967, quindi
poco dopo il Concilio, il P. Josef A. Jungmann, autore di un lavoro celebre,
Missarum
sollemnia: "L’affermazione spesso ripetuta che l’altare della Chiesa
delle origini supponesse sempre che il prete fosse rivolto verso il popolo,
si rivela essere una leggenda". Inoltre, Jungmann mette in guardia contro
il pericolo che, auspicando l’adozione dell’altare verso il popolo, "se
ne faccia un’esigenza assoluta e, alla fine, una moda alla quale ci si
sottometta senza riflettere". Secondo lui, la ragione principale di questa
raccomandazione di celebrare rivolti verso il popolo è la seguente:
"Vi è qui, innanzi tutto, l’accento esclusivo che oggigiorno si
ama tanto mettere sul carattere di pasto dell’eucaristia".
Quinta domanda
Sembrerebbe esatto che l’idea di un altare centrale isolato
su un podio sia, in qualche modo, già prefigurata nella chiesa barocca
di San Pietro (certo non nella chiesa costantiniana che l’ha preceduta):
l’altare papale, leggermente sopraelevato, si trova isolato nel mezzo della
chiesa, proprio al di sotto della cupola centrale, posta esattamente sopra
la confessione con la tomba del Principe degli Apostoli; esso è
facilmente visibile da ogni parte, sia dalla navata sia dai due bracci
del transetto.
In realtà si tratta, come abbiamo visto, dell’orientamento nella preghiera: la chiesa di San Pietro, a differenza delle chiese antiche, non ha l’àbside ad Est, bensí ad Ovest. Tuttavia, come dimostrano le foto scattate prima dell’elevazione al Soglio di Paolo VI, che intraprese la trasformazione dell’altare papale, i fedeli presenti potevano appena intravedere il papa, a causa dell’enorme dimensione dei candelieri e della croce, posti sull’altare. Non è dunque possibile, a stretto rigore, parlare di celebrazione versus populum. Non si trattava di un privilegio papale, come talvolta è stato affermato. Infatti vi sono a Roma delle altre chiese il cui àbside è posto ad Occidente e non ad Oriente e in cui il celebrante è ugualmente posto dietro l’altare. Nelle chiese moderne, costruite dopo il Concilio, si trova
spesso, come a San Pietro, un altare isolato su un podio, ma ad esso manca
il coronamento del primo: il baldacchino. Siccome si tratta di un podio
isolato in mezzo alla chiesa, e dunque sprovvisto di ogni orientamento
- e circondato dalle fila di sedie dei fedeli - è difficile trovare
un posto adeguato per la croce dell’altare, di cui abbiamo esposto prima
la funzione di punto di riferimento, croce che tuttavia continua ad essere
richiesta dalle nuove regole liturgiche. Nell’Institutio generalis
del nuovo messale, si prescrive: "Del pari, sull’altare o in prossimità
di esso, vi sarà una croce, ben visibile dall’assemblea" (n°
270).
Sesta domanda
Allorché si pone davanti all’altare, il sacerdote
non prega in direzione di un muro, ma, insieme a tutti coloro che sono
presenti, prega in direzione del Signore. Tanto piú che fino ad
adesso la cosa che piú importava non era tanto di realizzare una
qualche comunione, bensí di rendere il culto a Dio, tramite la mediazione
del sacerdote, che rappresentava i partecipanti ed era unito ad essi.
Possiamo ricordare qui le parole di san Paolo. Conscio
che "finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore,
camminiamo nella fede e non ancora in visione" egli preferisce essere "in
esilio dal corpo ed abitare presso il Signore" (ad Dominum) (2 Corinti
5, 6-8).
Nella sua opera fondamentale, Sol salutis (1920),
Joseph Dölger si dice convinto che la risposta del popolo: "Habemus
ad Dominum" (Sono rivolti al Signore), al richiamo del sacerdote: "Sursum
corda" (In alto i nostri cuori!), significasse anche che ci si volgeva
verso Oriente, verso il Signore (p. 256). A questo proposito, Dölger
fa osservare che certe liturgie orientali prevedono espressamente questo
invito, con un appello espresso dal diacono prima della preghiera eucaristica
(anaphora) (p. 251). È il caso dell’anàfora copta di san
Basilio, che comincia: "Accostatevi, voi uomini, mantenetevi rispettosi
e guardate ad Oriente!", ed anche dell’anàfora di san Marco, in
cui lo stesso appello (Guardate ad Oriente!) viene espresso nel mezzo della
preghiera eucaristica, prima del passaggio che conduce al Sanctus.
L’uso della preghiera in direzione del sol levante è
da tempo immemorabile, come ha dimostrato anche Dölger; lo si ritrova
presso i Giudei e presso i Romani. Vitruvio, nel suo lavoro sull’architettura,
scrive: "I templi degli dei devono essere posizionati in modo tale che…
l’immagine che è nel tempio guardi verso ponente, affinché
coloro che andranno a sacrificare siano rivolti verso Oriente
e verso l’immagine, di modo che, nel pregare, guardino sia il tempio sia
la parte del cielo che è a levante, mentre le statue sembrano levarsi
insieme al sole per guardare coloro che le pregano nei sacrifici" (20).
Settima domanda
Nel suo studio di grande respiro, Der Standort des
Liturgen am christlichen Altar (Il posto del liturgo all’altare cristiano),
apparso nel 1965, Nussbaum scrive: "Quando comparvero gli edifici cultuali
propriamente detti, non vi erano delle regole precise che fissavano da
che parte dell’altare dovesse mettersi il liturgo. Egli poteva rimanere
sia davanti che dietro l’altare" (p. 408). Egli ritiene che la celebrazione
versus
populum sia stata preferita fino al VI secolo.
L’entrata ad Oriente (basiliche costantiniane) imitava
la disposizione del Tempio di Gerusalemme (cfr. Ezechiele 8, 16), come
di altri templi antichi, le cui porte aperte lasciavano entrare la luce
del sol levante, che faceva scintillare all’interno la statua del dio.
Per il fatto che in certe basiliche con l’àbside
ad Est vi fosse posto dietro l’altare anche per il celebrante, si è
dedotto a volte che quest’ultimo si ponesse da questo lato, volgendosi
cosí verso il popolo; specialmente quando nell’àbside vi
era anche un banco per i sacerdoti, con un trono per il vescovo. Ora, si
tratta di una conclusione chiaramente errata - adottata
peraltro da Nussbaum - come si dimostra, in maniera irrefutabile, con l’aiuto
degli scavi archeologici (23). Se cosí non fosse,
per quale motivo si sarebbero costruite queste chiese esattamente orientate
ad Est?
Ottava domanda
Al di là della particolare venerazione per il sol levante che aveva il costruttore di queste basiliche, l’imperatore Costantino, certamente ha avuto la sua influenza questo passo del profeta Ezechiele (43, 1-2): "Mi condusse allora verso la porta che guarda a Oriente, ed ecco che la gloria del Dio di Israele giungeva dalla via orientale…". In tal modo, con le porte della basilica aperte sull’Oriente, ci si aspettava che il Cristo venisse a partecipare alla celebrazione dell’eucaristia, come dopo la sua resurrezione era apparso piú volte ai suoi discepoli durante il pasto (cfr. Luca 24, 36-49; Giovanni 21; Atti 1, 4). All’origine i fedeli - donne e uomini separati - non stavano
nella navata centrale, ma in quelle laterali *****, cosa questa che implicava
che, nelle chiese antiche, il numero delle navate laterali potesse arrivare
fino a sei (quelle del Laterano e di San Pietro, a Roma, ne hanno solo
quattro). In definitiva, questo modo di prender posto nelle navate laterali
corrispondeva all’abitudine di fermarsi lungo i muri laterali delle piccole
chiese della cristianità delle origini. Tale abitudine è
ancora oggi in atto nelle chiese d’Oriente: la navata o lo spazio centrale
sotto la cupola rimangono liberi per le funzioni. I fedeli anziani prendono
posto su delle sedie (stasidien) lungo i muri della chiesa e nelle
navate laterali, gli altri assistono alla messa in piedi. In Oriente, la
posizione del corpo piú conveniente per la partecipazione liturgica,
è quella in piedi, e non l’inginocchiarsi, com’era da noi una volta;
tale posizione esige una grande disciplina fisica, soprattutto nel corso
di offici che si prolungano.
Nelle basiliche a navate multiple e con l’àbside
orientato, i partecipanti alla messa si disponevano in piedi lungo le navate
laterali e in fondo alla navata centrale. In tal modo formavano una sorta
di semicerchio aperto verso Oriente; il celebrante si veniva a trovare
cosí nel punto di convergenza di questo semicerchio (al centro del
cerchio virtuale).
Quando, piú tardi, i fedeli finirono con l’occupare l’intera navata centrale, disponendosi in colonna, si venne a creare qualcosa di dinamico, che somigliava alla colonna del popolo di Dio in marcia nel deserto, in direzione della terra promessa: come se la posizione verso Est indicasse anche la meta della colonna: il Paradiso perduto che si cercava ad Est (cfr. Genesi 2, 8). Il celebrante e i suoi assistenti formavano la testa della colonna. La disposizione iniziale, quella che componeva un semicerchio, si presentava invece come composta secondo un princípio statico: l’attesa del Signore che era asceso in cielo verso Oriente (cfr. Salmi 67, 34; Zaccaria 14, 4) e da lí sarebbe ritornato (cfr. Matteo 24, 27; Atti 1, 11); come quando si riceve una personalità eminente, e si arretra, a formare un semicerchio, per accogliere in mezzo l’ospite d’onore. San Giovanni Damasceno scrive: "Al momento della sua Ascensione, egli salí verso Oriente, è cosí che l’adorarono gli Apostoli, ed è cosí che ritornerà, allo stesso modo in cui lo videro salire in cielo, come ha detto il Signore stesso: “Come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, cosí sarà la venuta del Figlio dell’uomo” (Matteo 24, 27). Ecco perché l’attendiamo e l’adoriamo rivolti ad Oriente: è una tradizione non scritta degli Apostoli" (26). Sulla base di questa concezione, a partire dal VI secolo circa, in numerose chiese - come si vede nelle pitture dell’epoca a Bawit, in Egitto - si raffigurava l’Ascensione del Signore sotto la volta principale dell’àbside: in alto il Cristo glorioso condotto da due angeli, al di sotto Maria, che rappresentava la Chiesa, in preghiera con le mani volte al cielo, alla sua destra ed alla sua sinistra gli Apostoli. Questa raffigurazione rappresentava sia la glorificazione di Gesú in cielo sia la sua seconda venuta, secondo le parole rivolte dai due angeli agli Apostoli al momento dell’Ascensione: "Questo Gesú che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo" (Atti 1, 11) (27). Piú tardi, nei dipinti delle àbsidi in Occidente, il Cristo in trono nella mandorla fu tratto da queste antiche raffigurazioni, e, come Majestas Domini circondata dai simboli dei quattro evangelisti, divenne il tipico dipinto delle àbsidi dell’arte romana. Nell’Oriente bizantino il Signore che ascende in cielo venne dipinto sia sotto la volta principale dell’àbside, come Pantocrate, sia sotto la cupola che sovrastava l’altare insieme al complesso dell’Ascensione; in quasi tutti i casi, però, la Madre di Dio non vi figurava piú perché la sua immagine era riservata alla decorazione dell’àbside (fig. 2). Il posto centrale attribuito a Maria nell’àbside
si deve sicuramente ad un passo dell’Apocalisse: "Allora si aprì
il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l’arca dell’alleanza…
Nel cielo apparve poi un segno grandioso: un donna vestita di sole, con
la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle"
(Apocalisse 11, 19; 12, 1).
L’apostolo Paolo scrive: "Ora vediamo come in uno specchio,
in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia" (I Corinti 13,
12). Guardare ad Est non significa solo guardare al Signore trasfigurato
in cielo e atteso alla fine dei tempi, ma esprime anche il desiderio della
manifestazione ultima, della rivelazione della gloria futura.
Decima domanda
Il fatto è che in questo caso si tratta di chiese edificate su del materiale da costruzione risalente all’Antichità, oppure di chiese che le condizioni locali non permettevano che venissero perfettamente orientate. Tuttavia, questo non impediva che il sacerdote ed i fedeli si volgessero insieme verso l’Oriente per la preghiera e il sacrificio, come voleva l’uso cristiano abituale. Cosí, per esempio, la celebre chiesa di San Clemente, a Roma, che è stata edificata su delle antiche fondazioni, ha l’entrata a sud-est: ecco perché il celebrante si dispone dietro l’altare; d’altronde, una celebrazione davanti l’altare non sarebbe assolutamente possibile, data la disposizione dei luoghi. Per guardare verso Oriente, al momento del Santo Sacrificio, al sacerdote basta girare leggermente il corpo; lo stesso dicasi per i fedeli disposti nelle navate laterali (a San Clemente la navata centrale serve per la schola, in essa si trovano anche i due amboni per la lettura dell’epistola, del graduale e del Vangelo). Nel suo libro, Le rite et l’homme, Louis Bouyer scrive: "L’idea che la basilica romana sarebbe la forma ideale della chiesa cristiana, perché permetterebbe una celebrazione in cui il prete e i fedeli si disporrebbero faccia a faccia, è un completo controsenso. È l’ultima delle cose a cui gli antichi avrebbero pensato" (p. 241). Ad ogni modo, come abbiamo già visto, il preciso orientamento delle chiese, come lo si riscontra a partire dal IV-V secolo, non avrebbe avuto senso se non fosse stato in stretta relazione con l’orientamento nella preghiera. A sostegno dell’opinione secondo la quale l’altare propriamente detto (e la croce che lo sovrasta) sarebbe il punto di riferimento verso il quale si volgono i fedeli e che, idealmente, dovrebbero attorniare, si ama citare, a mo’ d’esempio, l’espressione del memento dei vivi, del canone della messa: "… et omnium circumstantium…" (… e di tutti i circostanti…). Occorre precisare che, nel suo significato filologico, il termine circumstantes contenuto in questa espressione designa globalmente "le persone presenti" e non solo "quelli che si trovano in cerchio intorno a…"; tant’è che, dagli scritti dell’epoca, non si ha notizia di casi di fedeli che si sarebbero disposti in cerchio attorno all’altare durante la celebrazione della messa. D’altronde, non avrebbero potuto farlo, se non altro perché i laici, come ancora oggi in Oriente, non avevano il diritto di penetrare nel santuario. Il rispetto si sviluppa quando è incoraggiato dai comportamenti esteriori e, se è il caso, dalle interdizioni destinate ad evitare le profanazioni. Quando, per esempio, un sagrestano può poggiare sull’altare, senza il minimo scrupolo, una sedia o una scala per sistemare dietro l’altare, in alto, dei candelieri o dei fiori, la santità di questo altare ne resta rozzamente offesa. Cosa inimmaginabile in una chiesa d’Oriente! Di contro, possiamo dire che l’espressione "… et omnium
circumstantium…" può far pensare alla buona abitudine che dovrebbero
prendere i fedeli durante l’offerta del Santo Sacrificio: in piedi, pieni
di rispetto (fig. 9). Ma, ai giorni nostri, queste "persone presenti" si
trasformano facilmente in "persone sedute" (in modo confortevole) su delle
sedie, anche a causa della presenza di queste ultime nelle chiese attuali,
le quali invitano a prender posto.
Undicesima domanda
Anche se l’uomo moderno non presta piú attenzione alla direzione esatta verso cui prega - anche se i musulmani continuano a volgersi verso la Mecca e i giudei verso Gerusalemme - tuttavia non dovrebbe avere difficoltà a comprendere il significato che riveste il fatto che il sacerdote e i fedeli preghino insieme nella stessa direzione. Ad ogni modo, l’uso che tutti i presenti siano insieme orientati "verso il Signore" è qualcosa di atemporale e conserva anche oggi tutto il suo significato. A fianco dell’aspetto teologico relativo al faccia a faccia
tra il sacerdote ed i fedeli al momento della celebrazione del sacrificio
eucaristico, è il caso di richiamare anche i problemi di ordine
sociologico, che appartengono anch’essi alla messa in risalto della "comunione
della mensa eucaristica".
Anche K. G. Rey, nel suo libro Pubertätserscheinungen in der katholischen Kirche (Manifestazioni pubertarie nella Chiesa cattolica), dichiara: "Mentre fino a ieri il prete offriva il sacrificio in quanto intermediario anonimo, in quanto capo della comunità, rivolto a Dio e non al popolo, in nome di tutti e con tutti; mentre fino a ieri pronunciava delle preghiere… che gli erano state prescritte, oggi questo prete ci viene incontro in quanto uomo, con le sue particolarità umane, col suo stile di vita personale, il viso rivolto a noi. Per molti preti diviene forte la tentazione di prostituire la propria persona, tentazione contro la quale non hanno la statura per lottare. Alcuni molto astutamente, ed altri con meno astuzia, volgono la situazione a proprio vantaggio. Le loro attitudini, la loro mimica, i loro gesti, tutto il loro comportamento attira gli sguardi che si fissano su di loro, per le loro ripetute osservazioni, le loro direttive, le parole d’accoglienza o d’addio… In tal modo, il successo dei loro suggerimenti costituisce, in cuor loro, la misura del loro potere e, quindi, la norma della loro sicurezza" (p. 25). A proposito dell’augurio espresso da Klauser, e che abbiamo
riportato prima, “di veder piú chiaramente espressa la comunione
al tavolo eucaristico”, grazie alla celebrazione versus populum,
lo stesso Siebel, nel suo libro citato, dichiara: "L’augurata riunione
dell’assemblea attorno al tavolo della Cena, non può certo contribuire
al rafforzamento della coscienza comunitaria. In effetti, solo il prete
sta vicino al tavolo, e per di piú in piedi; gli altri partecipanti
al pasto sono seduti piú o meno lontani, nella sala del teatro".
Ed allora, possiamo dire che il sacerdote posto dietro l’altare, con lo sguardo rivolto al popolo, diviene, dal punto di vista sociologico, sia un attore interamente dipendente dal suo pubblico, sia un venditore che ha qualcosa da proporre. Nel suo libro, che abbiamo già citato, Das Konzil der Buchhalter, Alfred Lorenzer richiama ancora altri punti di vista, in particolare d’ordine estetico: "Non solo il microfono rivela ogni respiro, ogni rumore occasionale, ma la scena che si svolge assomiglia molto piú alla presentazione televisiva di certe ricette di cucina, che alle forme liturgiche delle Chiese riformate. Mentre in queste ultime l’azione sacra è stata emarginata - ridotta al massimo di semplicità e brevità - nella riforma liturgica cattolica essa conserva il suo posto principale: privata dei suoi ornamenti gestuali essa conserva minuziosamente tutta la complessità del suo svolgimento, ed è ormai presentata agli occhi di tutti in una pseduo-trasparenza che confonde la percezione sensibile delle manipolazioni con la trasparenza del mito, manipolazioni che sono eseguite in maniera tale che ogni dettaglio di questo rituale alimentare finisce con l’essere esibito sempre con poca discrezione; si vede un uomo rompere con difficoltà un’ostia che resiste, si vede com’egli se la ficca in bocca, si diviene testimoni di abitudini masticatorie personali, non sempre molto belle, di modi con cui ingoiare del pane secco, di tecniche usate per far girare il calice da purificare e di sistemi piú o meno abili per asciugarlo" (p. 192). Queste sono le conseguenze sociologiche della posizione del celebrante di fronte all’assemblea. Certo, le cose stanno diversamente al momento della proclamazione della parola di Dio. Questa presuppone proprio il faccia a faccia tra il prete e il popolo, come è stato sempre scontato che il predicatore si volgesse verso i fedeli, al pari del diacono che cantava il Vangelo. Ma, come abbiamo ripetuto, è cosa diversa la celebrazione del vero e proprio sacrificio eucaristico: in questo caso la liturgia non si concretizza in una "offerta" ai fedeli, come nel caso della liturgia della Parola, si tratta bensí di un avvenimento sacro nel corso del quale il cielo e la terra si uniscono e il Dio della grazia si inclina verso di noi. Solo al momento della comunione, del pasto eucaristico vero e proprio, si ritorna al faccia a faccia tra il prete e i comunicandi. E questi cambiamenti di posizione del celebrante nei confronti dell’altare hanno un preciso significato simbolico e sociologico: quando il celebrante prega e sacrifica ha, al pari dei fedeli, gli occhi rivolti a Dio, mentre quando proclama la parola di Dio e distribuisce l’eucaristia si volge verso il popolo. Come abbiamo visto, il volgersi verso l’Est è così
antico che la Chiesa ha fatto di questa attitudine un uso che non può
essere modificato. "Si cerca" costantemente "con gli occhi il luogo ove
è posto il Signore" (J. Kunstmann) o, come dice Origéne nel
suo libro sulla preghiera (cap. 32), il volgersi ad Oriente è "un
simbolo, quello dell’anima che guarda verso il sorgere della vera luce",
nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del
nostro grande Dio e Salvatore Gesú Cristo" (Tito 2, 13).
Dodicesima domanda
La domanda può essere ribaltata: dal momento che
gli specialisti sanno molto bene che esaltare "l’altare rivolto al popolo"
non significa richiamarsi ad una pratica della Chiesa delle origini, perché
non ne traggono le inevitabili conseguenze? Perché non sopprimono
i "tavoli da pranzo" eretti con una sorprendente coralità nel mondo
intero?
Non ci si mette dietro l’altare del sacrificio, ci si mette davanti; già il sacrificatore pagano faceva cosí, il suo sguardo era diretto verso la raffigurazione della divinità a cui si offriva il sacrificio; anche nel Tempio di Gerusalemme si faceva cosí: il sacerdote incaricato di offrire la vittima stava davanti alla "tavola del Signore", come si chiamava il grande altare dell’olocausto nel cuore del Tempio (cfr. Malachia 1, 12), e questa "tavola del Signore" era collocata di fronte al tempio interno ov’era custodita l’Arca dell’Alleanza, il Santo dei Santi, il luogo in cui dimorava l’Altissimo (cfr. Salmi 16, 15). Un pranzo si consuma con il padre di famiglia che presiede, in seno alla cerchia famigliare; mentre invece, in tutte le religioni, esiste una apposita liturgia per il compimento del sacrificio, liturgia che prevede che il sacrificio si compia all’interno o davanti ad un santuario (che può essere anche un albero sacro): il liturgo è separato dalla folla, sta davanti ai presenti, di fronte all’altare, rivolto alla divinità. In tutti i tempi, gli uomini che hanno offerto un sacrificio si sono sempre rivolti verso colui al quale il sacrificio era diretto e non verso i partecipanti alla cerimonia. Nel suo commento al libro dei Numeri (10, 27), Origéne si fa interprete della concezione della Chiesa delle origini: "Colui che si pone dinanzi all’altare dimostra con ciò di svolgere le funzioni sacerdotali. Ora, la funzione del prete consiste nell’intercedere per i peccati del popolo". Ai giorni nostri, in cui il senso del peccato sparisce sempre piú, la concezione espressa da Origéne sembra essersi largamente perduta. Lutero, lo si sa, ha negato il carattere sacrificale della
messa: egli non vi vedeva altro che la proclamazione della parola di Dio,
seguita da una celebrazione della Cena; da qui la sua preoccupazione di
vedere il liturgo rivolto verso l’assemblea.
Solo l’eliminazione della tavola da pranzo e il ritorno
alla celebrazione all’"altar maggiore" potranno condurre ad un cambiamento
nella concezione della messa e dell’eucaristia, e cioè alla messa
intesa come atto d’adorazione e di venerazione di Dio, come atto d’azione
di grazia per i suoi benefici, per la nostra salvezza e la nostra vocazione
al regno celeste, e come rappresentazione mistica del sacrificio della
croce del Signore.
Visto che durante il nostro pellegrinaggio terreno non
ci è possibile contemplare tutta la grandezza del mistero celebrato,
e ancor meno lo stesso Cristo, né l’"assemblea celeste", non basta
parlare ininterrottamente di ciò che il sacrificio della messa ha
di sublime, bisogna invece fare di tutto per mettere in evidenza, agli
occhi degli uomini, la grandezza di questo sacrificio, per mezzo della
stessa celebrazione e della sistemazione artistica della casa del Signore,
in particolar modo dell’altare.
(tratto da MONS. KLAUS GAMBER, Tournés vers le Seigneur!,
Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux, F, pp. 19-55 -
NOTE:
pp. 22-55 (torna al testo)
(10) - II, 57, 2-58, 6 (Paderborn, 1906), ed. Funk.
(torna al testo)
(11) - Migne, PG 62, 29. (torna al testo) (12) - Rational, I, 3, n° 35. (torna al testo) (13) - Sull'argomento cfr. l'articolo di K. Gamber in Das Münster, 1985. (torna al testo) (14) - Das Konzil der Buchhalter (Il concilio dei contabili), p. 200. (torna al testo) (15) - Cfr. K. Gamber, Ecclesia Reginensis, pp. 49-66. (torna al testo) (16) - Cfr. Entretiens sur la foi, Fayard, 1975, p. 158. (torna al testo) (17) - Migne, PL, 34, 1277. (torna al testo) (18) - Cap. 57, 14, ed. Funk, p. 165. (torna al testo) (19) - Cap. 12, 2, ed. Funk, p. 494. (torna al testo) (20) - I, libro 4, cap. 5, ed. E. Tardieu et A. Cousin fils, p. 173. (torna al testo) (21) - Cfr. E. C. Conte Corti, Vie, mort et résurrection d'Herculanum et de Pompéi, fig. 29. (torna al testo) (22) - Ep. 32, 13 (Migne, PL 61, 337). (torna al testo) (23) - Cfr. K. Gamber, Liturgie und kirchenbau (Liturgia e costruzione delle chiese), pp. 16-18. (torna al testo) (24) - Migne, PG 62, 204. (torna al testo) (25) - Cfr. K. Gamber, Liturgie und kirchenbau (Liturgia e costruzione delle chiese), pp. 132-136. (torna al testo) (26) - Migne, PG 94, 1136. (torna al testo) (27) - Cfr. K. Gamber, Sancta sanctorum, pp. 31-34. (torna al testo) (torna su)
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