Perché siamo tradizionali
Considerazioni sulla pratica religiosa e sulla
liturgia moderne
Domanda
Salve, mi chiamo …, ho visto il vostro sito e
l'ho trovato veramente simpatico.
Naturalmente sono cattolico, della Santa Romana
Chiesa Cattolica ed Apostolica. Sono anche studente alla Facoltà teologica
… e sto preparando la tesi ….
Sono d'accordo su alcune vostre posizioni, circa
l'uso della Messa tradizionale preconciliare, credo che sia ugualmente bella,
anche se non l'ho mai vista, ho soltanto un piccolo libretto di mia nonna
che spiega i vari momenti della liturgia.
Non so cosa scrivere ancora, però mi siete
simpaticissimi.
Faccio anche ecumenismo in diocesi, ve lo dico per
correttezza, sarei felice un giorno di vedere rientrare lo scisma Lefebvre.
Una domanda: Ma se uno partecipa alla Messa Tradizionale,
amministrata da un prete di Mons. Lefebvre, ipso facto, incorre nella scumunica?
…
Scusate se vi ho rubato del tempo prezioso, la mia
e-mail era una risposta alla visione del vostro sito che reputo simpatico,
l'unica pecca è il tono aspro e polemico, che qua e là ho riscontrato.
un saluto in Cristo
…
Risposta
Egr Sig …
grazie a Dio, riceviamo molte lettere come la sua.
A Lei grazie per gli apprezzamenti e per la condivisone.
La nostra posizione sulla liturgia si fonda su argomentazioni
complesse, che è difficile sintetizzare in poche righe.
Uno degli elementi più importanti è la
coerenza tra liturgia e dottrina, fra loro inscindibili e che significa l’essere
cattolici.
I cambiamenti intervenuti a partire dal Concilio Vaticano
II si sono dimostrati più deleterii che fruttuosi, e questo è
un giudizio ormai condiviso da tanti uomini di chiesa, compresi quelli che
si mossero con un certo entusiasmo al tempo del Concilio. Per tutti valga
l’esempio del Card. Ratzinger.
Sembrerebbe che noi siamo contro il Concilio, ma
è necessario tenere presente che i nostri distinguo e le nostre critiche,
pur muovendo dagli stessi documenti conciliari, soprattutto in forza della
loro equivocità, sono dettati soprattutto da quelli che si possono
definire i frutti del Concilio.
Fin dall’inizio sono stati in molti a paventare la
possibilità dell’attuale deriva, sia liturgica sia dottrinale.
Il nostro è un mondo che si regge soprattutto
sulla prassi, quindi, quando si esprimono dei giudizii non si può
prescindere dalla combinazione tra l’enunciato e la sua applicazione.
Dopo quasi quarant’anni dal Concilio nessuno può
mettere in dubbio che ogni buona intenzione di allora si è tradotta
in un fallimento.
Né il numero dei praticanti è aumentato,
né si è ampliata la consapevolezza religiosa di quelli rimasti.
L’incidenza della Chiesa sullo svolgimento della vita quotidiana si è
ridotto ad un mero flatus vocis.
Le vocazioni sono drasticamente e continuamente
in calo, il sentire dei fedeli ha finito con l’essere circoscritto nell’àmbito
delle opinioni.
Il cosiddetto dialogo tra la Chiesa e il mondo ha permesso
al mondo di considerare la Chiesa alla stessa stregua di una fazione umana
qualsiasi, e questo atteggiamento mentale è stato fatto proprio da
molti uomini di Chiesa, col risultato che non è più la Chiesa
a indirizzare il mondo, ma il mondo a bacchettare la Chiesa quando non si
esprime in coerenza con i convincimenti mondani correnti.
Siamo giunti al punto che ogni qual volta il Papa appare
in forte contrasto col mondo, è proprio in seno al mondo cattolico
che si manifestano i primi distinguo.
I nostri preti sono più preoccupati della
vita e dei corpi dei loro fedeli, piuttosto che del destino delle loro ànime.
Questo incredibile attaccamento alle preoccupazioni
sociali e al progresso materiale ha trasformato i nostri preti in assistenti
sociali, e proprio in un mondo in cui tutti si dicono volenterosamente disposti
ad aiutare gli altri.
Le nostre chiese sono più dei centri d’accoglienza,
non si sa bene di chi o di che cosa, che dei luoghi in cui si rende a
Dio il culto dovutoGli.
Che il Cristianesimo sia la religione dell’amore
e della misericordia, è un dato scontato, ma non è altrettanto
scontato che cosa si intenda per amore e misericordia.
Ama il tuo prossimo: ma questo è un imperativo
che si può ritrovare in qualsiasi consesso umano. Non si può
pensare che oggi esista al mondo un àmbito serio in cui non si senta
aleggiare questo imperativo. Tutti sono disposti ad amare gli altri: dagli
uomini, agli animali, alle piante. Ma questo amore, tutto umano e solo umano,
è causa ed effetto di tutte le distorsioni e di tutti contrasti.
Prima si insegnava che occorre prima amare Dio,
con tutto sé stesso, e quindi, per amore di Dio, amare il prossimo.
Oggi si crede che basti amare il prossimo per amare
Dio: e, nei fatti, si finisce col dare agli altri ciò che non
si ha in sé stessi: e quindi niente.
E anche quando si riesce a dare qualcosa di ciò
che si è giunti ad acquisire per sé, ecco che la si dà
a chiunque, avendo scambiato il prossimo per l’altro, come si usa dire
oggi.
Chi è il mio prossimo? Il mio prossimo
è, inevitabilmente, l’uomo, in quanto creatura di Dio; ma non l’uomo
inteso in maniera indifferenziata, bensì l’uomo che ogni singolo fedele
è in grado di riuscire a comprendere e a valutare.
Il mio prossimo è prima di tutto mio padre e
mia madre, mio fratello, mio cugino, il mio vicino di casa, e questo in perfetta
coerenza col contesto che fa di mio padre e del mio vicino di casa un mio
simile: uno che è come me, che mi assomiglia, che mi è solidale,
con cui vado gomito a gomito: il che significa che vive e sente come me, soprattutto
il senso della vita, della morte e della speranza eterna.
Amo questo prossimo per amore di Dio, esattamente
come questo prossimo mi ama sempre per amore di Dio. Così il nostro
amore è una cosa sola, che si sostanzia negli atti simili della vita
quotidiana, nell’unica pratica della vita religiosa, nella medesima speranza
nella vita futura.
Diversamente non si tratterebbe più del prossimo,
ma del lontano.
Questo amore per il prossimo, una volta consolidato,
radicato nel nostro ànimo, può tradursi in misericordia e amore
per tutti gli altri uomini, visti come creature di Dio che si vorrebbe tutti
volti alla Sua adorazione, per il bene delle loro stesse ànime.
Dio ha amato così tanto gli uomini che ha dato
il Suo Figlio per la loro salvezza.
Ma per la loro salvezza, non per la loro sopravvivenza
vitale, tout court.
La semplice esistenza umana può considerarsi
come l’atto d’amore di Dio? Se così fosse, a che pro il Suo Figlio?
L’amore di Dio per l’uomo è una cosa sola
dell’amore di Dio per la sua salvezza.
Parimenti, l’amore per il prossimo è una
cosa sola dell’amore per la salvezza del prossimo.
Già Nostro Signore lo ha detto: se
non vi accolgono, uscite da quella casa e scuotete la polvere dai vostri
piedi.
E San Giovanni, nel prologo del suo Vangelo, ricorda
che solo a quanti lo accolsero, ai credenti nel Suo Nome, diede il potere
di diventare figli di Dio: i quali, non da sangue, né da volere
di carne, né da volere di uomini, ma da Dio sono nati.
Ed è solo a questo punto che San Giovanni aggiunge
subito: E il Verbo si fece carne, e abitò in mezzo a noi, e
noi abbiamo contemplato la sua gloria.
Tutti gli altri che rimangono non sono da disprezzare
o da odiare, ma vengono solo dopo: e l’amore per loro coincide con la misericordia
(pietà del cuore) per il loro stato di discosti da Dio.
E se il Signore è venuto per i peccatori
e non per i giusti: è venuto perché si convertissero, non per
consolarli e coccolarli mentre si compiacciono nel loro essere discosti da
Dio.
E cosa significa essere diventati figli di Dio?
Può solo significare che si dispone tutta la
propria vita in adorazione di Dio, in attesa di giungere, nell’altra, alla
contemplazione eterna di Dio.
Se questo è il credo dei figli di Dio, ad
esso dovrà corrispondere una liturgia coerente, in cui il fedele,
tutti i fedeli, si dispongono ad adorarlo e ad agognare la sua Grazia.
Liturgia che la Chiesa ha usato per duemila anni.
Si comprende subito che, in tal modo, si tratta
di una dottrina e di un culto che pongono al centro Dio nella dottrina e
Nostro Signore nella liturgia.
Dio tre volte Santo ai piedi del quale ci si prostra
umili e peccatori, per implorare la Sua Grazia;
Nostro Signore ai piedi del quale ci si pone muti e
sbigottiti per il Suo Sacrificio consumato ogni giorno sull’altare a riscatto
dei nostri peccati, perché, per i suoi meriti, Dio Padre ci accolga
fra i suoi.
Oggi si professa una dottrina secondo la quale
il centro della liturgia è l’uomo stesso, il fedele che rende lode
a Dio per la sua Misericordia e per il suo Amore.
E sarebbe in forza di questo stare insieme entro una
chiesa, in un dato momento, che il Signore si renderebbe presente in mezzo
a noi.
Per questo si sono girati gli altari, per centrare
l’attenzione dei fedeli e del celebrante sugli uomini.
E quando si dice che il Signore si rende presente,
si enuncia una mera petizione di principio. Nessuno sa
bene dove il Signore sia: è in mezzo a noi.
Eppure si continua a ripetere: Ecco l’Agnello
di Dio.
Ma nessuno dei fedeli, neanche il celebrante, sente
veramente che in quell’Ostia è presente Gesù, in carne, sangue,
ànima e divinità. Prova ne sia che nessuno cade subito in ginocchio
al cospetto del Signore e al cospetto del Mistero che si compie con la Transustanziazione.
Qualcuno è ancora convinto intellettualmente
di questa verità, ma essa non viene più vissuta come un fatto
reale, tanto più reale per quanto più incomprensibile.
Se mancano i nostri gesti, i nostri atteggiamenti,
manca il nostro vero sentire, la nostra vera partecipazione interiore, il
nostro essere coinvolti realmente e interamente nel Mistero della morte sacrificale
del Figlio di Dio.
Cambiata la liturgia, mutata la preghiera, variato
il sentire religioso, ecco che si ritrova mutata la dottrina.
Da una dottrina teocentrica si è passati
ad una dottrina antropocentrica.
Questa è la vera causa che ha trasformato
i nostri preti in assistenti sociali: la loro prima preoccupazione è
per l’uomo, non per Dio.
Ne poteva conseguire solo che l’uomo religioso moderno
ponesse in cima ai suoi pensieri il benessere materiale dell’uomo, le sue
esigenze vitali.
Tanto: Dio è così buono che comprende
tutto e perdona tutto.
E i fedeli, seguendo l’andazzo, pongono
in cima ai loro pensieri loro stessi, i loro bisogni per l’essere a questo
mondo, e quando credono di seguire le leggi di Dio si ricordano solo di amare
gli altri uomini avendo ancora in vista i loro bisogni mondani.
Tutto il resto: l’amore per Dio, il culto per Dio,
la preoccupazione per il destino della propria ànima e di quella del
proprio prossimo, diventano conseguenze, collateralità, automatismi,
per i quali ci si affida alla Misericordia di Dio.
E ci si dimentica, con troppa facilità, che
Dio non è solo Amore e Misericordia, ma è anche Rigore e Giustizia:
la Misericordia di Dio è tutt’uno con la
Sua Giustizia: ad ognuno verrà dato secondo i suoi meriti. L’Amore
di Dio è tutt’uno col Suo Rigore: alla sua destra verranno posti
i giusti, alla sua sinistra i peccatori.
Se non fossi venuto, avrebbero delle scuse,
ma sono venuto e non hanno più scuse, dice il Signore.
Lei dice che la liturgia tradizionale dovrebbe essere
altrettanto bella.
Veda, non si tratta di questo.
Certo, in genere si può dire che essa è
sicuramente più bella di quella moderna.
Come è ugualmente possibile che qualcuno la
trovi anche meno bella.
Ma la differenza sta innanzi tutto nel suo svolgimento
e nei suoi contenuti.
Lei che frequenta la facoltà teologica: legga,
semplicemente legga, le preghiere, le sequenze, le posture, della S. Messa
tradizionale e della S. Messa moderna. Legga, e si soffermi su come il celebrante
si debba disporre nella prima e su come si dispone adesso, e si accorgerà
della differenza profonda che, soprattutto nei fatti (nella prassi), vi è
tra la S. Messa tradizionale e la S. Messa moderna.
La prima volta essenzialmente a guardare a Dio,
la seconda preoccupata di ridurre al minimo la preghiera continua del celebrante
e di ampliare al massimo il rapporto dialogico e razionale tra il celebrante
e i fedeli.
La prima intrisa di preoccupazione per richiamare
la Misericordia di Dio su noi poveri peccatori, la seconda solo preoccupata
di far comprendere ai fedeli il significato dell’incomprensibile, preoccupata
cioè dell’impossibile.
La prima derivata da migliaia di anni di culto e
di devozione, la seconda derivata dalle certezze di un certo numero di
specialisti che si sono autoconvinti di potersi inventare una liturgia nuova.
La prima maturata a partire dall’insegnamento degli
Apostoli, la seconda scaturita dall’esegesi moderna, della psicanalisi,
della sociologia, della comunicazione di massa.
La prima che dà primazia ai gesti, alle posture,
ai segni, ai simboli, la seconda in cui primeggia il
discorso razionale, la delucidazione intellettuale
ad ogni costo.
La prima che si preoccupa di rendere la celebrazione
del mistero un momento trascinante, in grado di rapire il fedele verso
la comunione con la liturgia celeste, la seconda che si preoccupa di rendere
la celebrazione un fatto principalmente umano, ove la razionalità del
fedele dovrebbe aver ragione del mistero.
La prima che lascia attoniti i più sensibili,
la seconda che lascia indifferenti tutti.
Se la S. Messa è cosa del tutto comprensibile,
diviene altrettanto comprensibile che il fedele non vi trovi più alcun
interesse particolare: vive già in un mondo dove tutto sembra essere
più che comprensibile.
La funzione religiosa della Domenica diventa allora
un fatto mondano al pari di tanti altri.
Non si entra più in chiesa per trovarsi quasi
in un mondo diverso, in un àmbito staccato dal mondo (il luogo
sacro, appunto), ma si va in chiesa per ritrovarsi ancora in mezzo al mondo:
e la cosa, in verità, non si vede come possa avere anche solo un minimo
di attrattiva.
Tra l’altro, oggi il mondo è in grado di sbalordire,
se non altro, illusoriamente, con gli effetti speciali, e in chiesa c’è
ben poco di tutto questo: quasi quasi ci si annoia.
Recarsi a Messa dalla Fraternità San Pio
X non comporta nessuna scomunica, nemmeno latae sententiae; né
mai vi sono stati, in questi anni, dei pronunciamenti in tal senso.
Qualcuno, strumentalmente, si permette di affermare
che la communicatio in sacris con gli scomunicati comporti una pari
scomunica, ma nessuno ha avuto mai la bontà di spiegarci perché
la communicatio in sacris con la Fraternità porterebbe
alla scomunica latae sententiae, mentre la stessa communicatio
in sacris con altri veri scomunicati e con gli eretici
non la comporterebbe.
Insomma se prendo la Comunione in una cappella della
Fraternità potrei dannarmi l’ànima, se la prendo invece in un
luogo di culto cattolico o non cattolico ove non si amministra neanche la
Comunione, perché nessuno ci crede, vado certo in paradiso. Siamo alla
follia pura.
Ma questo, si dice, è ecumenismo, mentre
andare alla Fraternità significa sostenere i ribelli al Papa.
Come dire che: se mi comunico con chi non ci crede,
ma col permesso del Papa, mi salvo; se invece mi comunico con chi ci crede,
ma senza il permesso del Papa, mi danno.
Una nuova teologia: la teologia dell’antropologia,
dove il discrimine non passa più per l’adesione a Nostro Signore,
ma per il conformismo umanitario che ha invaso financo la Gerarchia.
Piuttosto ci scriva senza riserve, saremo lieti
di risponderLe.
In nomine Domini
IMUV
settembre 2007
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