LA “QUESTIONE TRADIZIONALE”

qualche riflessione


Perché “Questione tradizionale"
L'Amministrazione Apostolica di Campos
La “Tradizione vivente”
La Tradizione scambiata per conservazione
Desistenza dell'Autorità ed effettiva pratica della fede

 

PERCHÉ “QUESTIONE TRADIZIONALE”?

Perché “questione tradizionale”? 
Perché oggi non si può più parlare solo di gruppi di fedeli che si sentono legati a “forme” particolari di espressione della fede; oggi la necessità di un ritorno alla Tradizione è una esigenza molto più diffusa di quanto si possa immaginare, anche se vissuta in maniera più o meno conscia; e questa necessità del ritorno alla Tradizione non riguarda più questo o quell’aspetto della professione della fede, ma l’intera professione della fede.
Di fronte alla crisi crescente che interessa tutta la Chiesa, sono sempre di più coloro che si rendono conto che l’unico rimedio possibile passa per il ritorno alla Tradizione.
Si rende necessario, quindi, riflettere attentamente sugli aspetti più importanti di questa “questione tradizionale”, partendo dalla considerazione di cui sono oggetto i fedeli che apertamente si dichiarano “legati alla Tradizione” dottrinale e liturgica della Santa Chiesa.

Nel riferirsi a questi fedeli, spesso si è fatta passare l’idea che si tratterebbe di fedeli «che si sentono legati alla tradizione liturgica latina» (Motu Proprio Ecclesia Dei), «che amano la Messa secondo il precedente rito” (Intervista del Card. Castrillon a Il Giornale, 31 maggio 2004), che hanno «una visione cristiana dinamica della vita di fede e di devozione» (Intervista del Card. Castrillon a Il Giornale, 31 maggio 2004), che «si sforzano, …, di mantenere vivi il fervore e la devozione della fede cattolica attraverso l’espressione di un particolare attaccamento alle forme liturgiche e devozionali dell’antica Tradizione» (Intervista del Card. Castrillon a The Latin Mass, 6 maggio 2004).

Ci limitiamo, ovviamente, alle dichiarazioni più autorevoli e più recenti, ma pensiamo che possano bastare per comprendere come la maggiore attenzione sia rivolta agli aspetti più appariscenti e, per certi versi, più umani della questione. Come se tutto si limitasse a fattori di sensibilità individuale e di preferenze personali. 
Peraltro, non si può non notare come questo tipo di approccio sia del tutto conforme al modo di pensare che si è affermato nella Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II: la dottrina e la  liturgia debbono seguire e debbono adattarsi alla sensibilità dei fedeli.

Ora, se le cose stessero davvero così ci sarebbe da chiedersi se i fedeli legati alla Tradizione non siano, in fondo, solo degli eccentrici, se non addirittura dei capricciosi figli della Chiesa che non possono fare a meno di trastullarsi con certi elementi estetici e formali che essi stessi considerano importanti per la loro santificazione. Ma ancor più si rimarrebbe stupiti nel considerare che essi continuerebbero ad aumentare di numero solo sulla base di questa giustificazione. Senza contare la stessa attenzione che nei loro confronti verrebbe manifestata dalla Santa Sede solo sulla base di una giustificazione siffatta.
In effetti, se questa fosse la sola giustificazione, questi fedeli non ne avrebbero oggettivamente alcuna, poiché il basarsi sulle personali preferenze dimostrerebbe una intrinseca incoerenza con la stessa Tradizione a cui dichiarano di voler rimanere ancorati. E la Santa Sede, da parte sua, dimostrerebbe una leggerezza inaccettabile nel sostenerli sostenendo la loro superficialità e la loro incoerenza.

È possibile che le cose stiano così?
Pensiamo che nessuno possa seriamente sostenere una tesi siffatta.

Lungi dal preoccuparsi esclusivamente delle forme espressive della dottrina e della liturgia, i fedeli legati alla Tradizione sentono con forza la debolezza e, a volte, l’ambiguità del Magistero postconciliare, assistono con sofferenza alla umanizzazione e alla mondanizzazione della liturgia, reagiscono con stupore e con indignazione alla moderna pastorale che li vorrebbe omologare ai non credenti.
Il loro attaccamento alla Tradizione non è basato sulla preferenza per certe forme liturgiche piuttosto che per certe altre ad esse equivalenti (ammessa e non concessa una tale equivalenza), ma è fondato sulla necessità di mantenere fermi quegli insegnamenti e quella liturgia che sole corrispondono alla dottrina tradizionale della Chiesa e che sole permettono la vera santificazione di tutti i fedeli, e non solo di questo o di quel gruppo.
Se si vuole davvero venire incontro alle loro esigenze, è necessario che ci si renda conto appieno della portata di tali esigenze; e soprattutto ci si renda conto che il loro richiamo alla Tradizione non dev’essere considerato come la preoccupazione di un gruppo, ma come un’esigenza diffusa in tutta la Chiesa, corrispondente al bene stesso della Chiesa, e dai fedeli legati alla Tradizione semplicemente interpretata ed espressa.
Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
(Gv, 17, 14-16)

D’altronde, se questi fedeli non avessero in vista primariamente il bene stesso della Chiesa, non sarebbero altro che una piccola setta, non solo da trascurare, ma innanzi tutto da condannare, perché sarebbe inammissibile che si lasciasse loro lo spazio necessario per coltivare il loro ingiustificato “sentimento particolare”.

Se si parla con questi fedeli, e se si parla soprattutto con alcuni di loro che vestono l’abito talare o religioso, ci si rende subito conto che non condividono certi insegnamenti del Magistero moderno e non condividono, quindi, molte delle attuali pratiche liturgiche e molte delle iniziative pastorali moderne. Essi si differenziano non per l’attaccamento a certe “forme”, ma per la preoccupazione circa la coerenza e la tenuta della dottrina e della fede. E in questo sono anche confortati dai frutti che la nuova liturgia e la nuova pastorale hanno prodotto. Quei frutti che sono stigmatizzati dagli stessi documenti vaticani (o in alcuni di essi), ivi compresa l’ultima enciclica papale Ecclesia de Eucharistia.
Non v’è dubbio allora che “la questione tradizionale” è tutt’uno con i problemi posti dal nuovo magistero dottrinale e liturgico.

Ora, sembrerebbe che, posta così la questione, si debba inevitabilmente giungere ad una sorta di contrapposizione tra il magistero moderno e le posizioni dei fedeli legati alla Tradizione, ed è quello che in fondo sostengono i promotori dell’ammodernamento della Chiesa: i fedeli legati alla Tradizione ? essi dicono - sarebbero mossi essenzialmente dal rifiuto del Magistero, quindi, sarebbero da considerare “fuori dalla Chiesa”.
Le cose non stanno affatto così!

Ciò che fonda la posizione dei fedeli legati alla Tradizione non è il confronto tra il Magistero moderno e le loro posizioni, bensì il confronto tra il Magistero moderno e il Magistero bimillenario della Chiesa. 
Sarebbe un atto di mera presunzione e un rinnegamento della fede il pretendere di confrontare il Magistero con i propri punti di vista e le proprie vedute. Ma è un atto di perfetta coerenza con la fede valutare se certi insegnamenti moderni corrispondano appieno con ciò che la Chiesa ha sempre insegnato e che i fedeli hanno sempre e ovunque creduto.

In questo vale il famoso richiamo di san Vincenzo di Lerino: a cosa corrisponde il vero insegnamento della Chiesa? 
Quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est.
A quello che fu creduto dappertutto, sempre, da tutti.


Per cercare di mettere a fuoco questo problema, sarà utile riferirsi ad un esempio concreto.
 

L’AMMINISTRAZIONE APOSTOLICA DI CAMPOS 

Ce ne dà la possibilità la costituzione della Amministrazione Apostolica Personale San Giovanni Maria Vianney, in quel di Campos, in Brasile, e cioè la costituzione, abbastanza recente, di una vera e propria Chiesa particolare a norma di diritto canonico equivalente in tutto ad una Diocesi.

Il decreto di erezione di questa Amministrazione Apostolica ha stabilito che essa debba praticare esclusivamente la liturgia e la disciplina liturgica in vigore nel 1962, prima del Concilio, ed è direttamente connesso con la dichiarazione ufficiale rilasciata in forma solenne, a Campos, dal nuovo Amministratore Apostolico in uno con tutti i sacerdoti dell’Amministrazione Apostolica, e in cui è detto:
"Riconosciamo il Concilio Vaticano II come uno dei Concili Ecumenici della Chiesa Cattolica, accettandolo  alla luce della Santa Tradizione. Riconosciamo la validità del Novus Ordo Missae, promulgato dal Papa Paolo VI, sempre che sia celebrato  correttamente e con l’intenzione di offrire il vero Sacrificio della Santa Messa."

Come si vede, non v’è alcun contrasto formale tra l’esistenza ufficiale di una Diocesi interamente ed esclusivamente “legata alla Tradizione” e l’Autorità della Santa Sede, compreso il suo Magistero. Infatti, così facendo, la Chiesa ha dichiarato ufficialmente che si può essere interamente ed esclusivamente cattolici “legati alla Tradizione” senza essere in contrasto con Roma, anzi, continuando a rimanere in piena comunione col Soglio di Pietro. Non solo, ma ha sancito ufficialmente che il magistero dottrinale e liturgico sopraggiunto col Concilio è legittimamente accettato dai cattolici legati alla Tradizione solo “alla luce della Tradizione” stessa.
Tutto questo è stato voluto espressamente dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, il quale ha così dimostrato di ritenere interamente legittima la ricezione del suo stesso Magistero solo “alla luce della Tradizione”.

È quindi inequivocabile che la posizione dei fedeli legati alla Tradizione, consistente nel rifiuto di tutto ciò che contrasti con questa stessa Tradizione, non solo è giustificata, ma è del tutto legittima e come tale riconosciuta dall’Autorità.
Questa constatazione, però, lungi dal risolvere la "questione tradizionale", apre una problematica di non poco conto, perché pone tutta una serie di interrogativi circa la pratica di quanto constatato teoricamente.

Non sfugge infatti la enorme difficoltà di intendere con correttezza in che cosa consista l’accettazione del magistero dottrinale e liturgico “alla luce della Tradizione”. Soprattutto ove si pensi che la stessa dizione o altre ad essa equivalenti sono riscontrabili in quegli stessi documenti dottrinali e liturgici prodottisi a partire dal Concilio e oggetto di critica.
Se ci trovassimo al cospetto di una perfetta identità tra la “luce della Tradizione” richiamata dai documenti conciliari e post-conciliari e quella richiamata nella costituzione dell’Amministrazione Apostolica, ne risulterebbe che questa stessa costituzione sarebbe del tutto ingiustificata ed inutile. Mentre invece tale costituzione è del tutto giustificata e sommamente utile proprio perché vi è una differenza sostanziale e di notevole rilevanza tra la “luce della Tradizione” richiamata dai documenti moderni e quella richiamata dai fedeli legati alla Tradizione (1).

Come è possibile, allora, raccapezzarsi in questa situazione ingarbugliata dove una medesima espressione lessicale lascia spazio a due diverse concezioni dell’oggetto in questione, tali che possano essere perfino in contrasto tra di loro?

Cercheremo di cogliere il bandolo della matassa, facendo riferimento alla esplicite dichiarazioni dell’attuale Amministratore Apostolico di Campos.
 

Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo! 
(Gv, 16, 33)

Dopo la morte di Mons. Licinio Rangel, la cura dell’Amministrazione Apostolica Personale San Giovanni Maria Vianney è passata nelle mani del suo Coadiutore, Mons. Fernando Rifan (in data 5 gennaio 2003). Allo stato attuale, Mons. Rifan è l’unico vescovo della Chiesa Cattolica che formalmente e canonicamente segue esclusivamente la liturgia e la disciplina liturgica tradizionali, nonché interpreta il magistero dottrinale e liturgico moderno “alla luce della Tradizione”.
Questa sua posizione rende le sue dichiarazioni particolarmente importanti per comprendere i termini di quella che abbiamo chiamata “la questione tradizionale”.
D’altronde, è lo stesso Mons. Rifan che riconosce la particolarità della sua posizione proprio in questa chiave. 
Nell’intervista rilasciata a L’homme nouveau (n° 1288) il 20 ottobre 2002, egli afferma esplicitamente: "il nostro ruolo è molto importante nei confronti di tutta la Chiesa Cattolica. Questa consacrazione [Si tratta della sua consacrazione a Vescovo, effettuata il 18 agosto 2002 col rito di San Pio V] non riguarda solo l’Amministrazione Apostolica, ma tutta la Chiesa. Forse è un nuovo passo, una esperienza che si irradierà in tutta la Chiesa."

Peraltro, fin dalla sua ordinazione episcopale, Mons. Rifan ha dimostrato di voler tessere una vasta rete di contatti, mirando ad una visibilità che, in fondo, poco ha a che vedere con la sua funzione di Amministratore Apostolico di Campos.
Qualcuno dice che questo attivismo sia sollecitato, vuoi in alto loco, vuoi da certi ambienti fino ad oggi legati all’Ecclesia Dei  e della cui ingerenza vorrebbero francamente sbarazzarsi; qualcun altro insinua che si tratti di una forma di entusiasmo proprio del nuovo Vescovo. Comunque stiano le cose, non è questo che ci interessa, quanto il fatto che proprio questo attivismo, si voglia o no, accresce l’importanza delle dichiarazioni del nuovo Amministratore Apostolico.

Non appena consacrato Vescovo, Mons. Rifan ha dichiarato: "Occorre riflettere sulla posizione teologico-dottrinale in cui ci si trova. Vi sono due grandi valori nella Chiesa: la fede e il governo. E due grossi pericoli: l’eresia e lo scisma. Talvolta, per evitare un problema dottrinale eretico, si cade nello scisma. O per paura di cadere nello scisma, si accetta l’errore dottrinale. No, occorre mantenere entrambi i parametri, entrambi questi punti di riferimento. Occorre conservare la fede e il rispetto per le autorità. Bisogna essere cattolici mantenendo queste due grandi colonne della Chiesa: l’unità di fede e l’unità di governo." (Intervista a Present, 17 ottobre 2002).

In un’altra occasione, egli ha tenuto a sottolineare che: "Nonostante conservi i principi che ho sempre difeso e denunci gli errori che ho sempre combattuto, si sono rivelati necessari un certo esame di coscienza e la correzione di certi comportamenti, perché fossero più conformi ai principi che difendiamo. È una questione di coerenza. … Se vi sono delle critiche da fare, esse devono tenere conto dell’autorità del Magistero ed essere rispettose e costruttive, per non peccare contro l’indefettibilità della Chiesa. Dio, che permette queste crisi nella Chiesa, in questa stessa Chiesa ci dà, per mezzo del suo Magistero, i mezzi per risolverle." (Intervista a La Nef, maggio 2003).

Ancora nel gennaio 2004 egli precisava: "Noi conserviamo la stessa posizione cattolica, la nostra posizione di sempre. Siamo per la regalità sociale di Cristo Re, siamo contro la libertà religiosa in quanto relativismo dottrinale, laicismo dello Stato, indifferentismo e sincretismo religioso, uguaglianza di tutte le religioni davanti alla legge; in una parola siamo contro la libertà religiosa condannata da Gregorio XVI, Pio IX e Pio XII. Noi siamo contro l’ecumenismo di complementarietà, o l’irenismo, e siamo per il ritorno o la conversione dei separati. Siamo contro la democratizzazione della Chiesa a tutti i livelli. Evidentemente, noi abbiamo il diritto di criticare gli errori e di presentare le nostre critiche costruttive, nel rispetto delle persone, alle autorità della Chiesa!" (Intervista a ITEM, 14 gennaio 2004)

In queste dichiarazioni è detto che non si può essere seriamente dei cattolici se non sottomessi alla Gerarchia, e allorché sorgono dei problemi di coscienza circa certe questioni dottrinali, presto o tardi bisognerà rimettersi all’autorità del Magistero. Ogni situazione eccezionale non può durare all’infinito, pena lo scisma. D’altronde, non potendosi accettare l’errore dottrinale, occorre che si giunga ad una qualche soluzione che permetta di isolare l’errore, tenendolo e tenendovisi lontano, e per far questo è necessario rimettersi all’autorità del Magistero.
Ora, questo ragionamento sembra avere una sua intrinseca coerenza teorica, soprattutto in relazione all’autorità del Magistero, ma è indubbio che implica non poche difficoltà allorché ci si trovi a doverlo mettere in pratica.
 

Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi. 
(Gv, 14, 16-17)

La prima cosa che salta all’occhio è che i problemi dottrinali di cui si parla rimangono comunque poco definiti, soprattutto in relazione alle cause e alle responsabilità che li determinano.
Quando Mons. Rifan afferma che "siamo contro la libertà religiosa condannata da Gregorio XVI, Pio IX e Pio XII. Noi siamo contro l’ecumenismo di complementarietà, o l’irenismo, e siamo per il ritorno o la conversione dei separati. Siamo contro la democratizzazione della Chiesa a tutti i livelli."; egli non afferma altro che “siamo contro il Magistero postconciliare”, o quantomeno contro una parte del Magistero postconciliare. Ed è evidente che questa constatazione trova una risposta del tutto inefficace nella proposizione di “tenere conto dell’autorità del Magistero” che sarebbe il solo mezzo che Dio ci offre per risolvere la crisi della Chiesa. 

In realtà, ricorrere al Magistero della Chiesa per criticare costruttivamente questo stesso Magistero, e affidarsi all’autorità del Magistero per correggere questo stesso Magistero, ci sembra essere una cosa facile da enunciare, ma parecchio difficile da praticare.
Vero è che non esiste nella Chiesa alcuna autorità al di sopra dell’autorità del Magistero, che corrisponde alla garanzia dell’unità di fede e dell’unità di governo, ma diventa incomprensibile come questa autorità possa contraddire sé stessa: possa cioè sancire, da un lato, la correttezza dei suoi enunciati ufficiali e formali e, dall’altro, la correttezza del rifiuto di questi stessi enunciati.
D’altronde, le critiche e i rifiuti circa i pronunciamenti del Magistero sui punti elencati da Mons. Rifan, non sono di oggi, e lo stesso Mons. Rifan li ha praticati e predicati per più di vent’anni, senza che da parte del Magistero sia mai giunta una qualche correzione soddisfacente: come risolvere allora i problemi da essi sollevati facendo ricorso a questo stesso Magistero?

Certo, ci si può rifare ad alcune dichiarazioni magisteriali che sembrano apportare una certa maggior chiarezza o una qualche precisazione correttiva: pensiamo, per esempio, alla Dominus Iesus o alla Ecclesia de Eucharistia, ma riteniamo che documenti come questi non risolvono la problematica che ci interessa, per diversi motivi, e primo fra tutti per il fatto che essi non scaturiscono dall’esame della critica mossa a quegli enunciati magisteriali che si discostano dalla Tradizione. Piuttosto essi intendono apportare chiarezza in ordine all’applicazione di questi stessi enunciati magisteriali, senza mettere minimamente in discussione tutte quelle parti degli enunciati stessi che non risultano essere coerenti con la Tradizione, anzi ne ribadiscono la correttezza dottrinale disconoscendo così le critiche di cui parla Mons. Rifan.
Non è difficile cogliere, qua e là, tra i documenti del Magistero di questi ultimi quarant’anni, richiami sul vero significato della Messa, distinguo su come debba veramente essere intesa la libertà religiosa, precisazioni sul significato dell’ecumenismo che non deve contraddire l’insegnamento dell’unicità della Chiesa di Cristo, ma è altrettanto facile, spesso molto più facile, leggere in altri documenti dello stesso Magistero enunciazioni e direttive che si muovono in una direzione opposta.

Ecco, questo è il primo dato che va sottolineato: i pronunciamenti del Magistero sono spesso ambigui, a volte persino contraddittorii, in genere polivalenti, tanto che da essi sia possibile giungere a delle conclusioni perfino contrastanti, eppure tutte formalmente legittime. D’altronde, questa caratteristica la si incontra già nei documenti del Concilio, anzi sono proprio questi ultimi documenti che hanno instaurato questo nuovo modo di esprimersi del Magistero.
 
 

Gesù allora disse: “Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”.
(Gv, 9, 39)

 

LA “TRADIZIONE VIVENTE”

Ma il dato su cui occorre soffermarsi è quello relativo alla coerenza del Magistero conciliare e post-conciliare con il Magistero bimillenario della Chiesa, poiché spesso accade che si contesti la constatazione di una qualche contraddizione tra i due sulla base di ciò che si è usi chiamare “magistero vivente”.
Nel Motu Proprio Ecclesia Dei, S. S. Giovanni Paolo II, nel condannare la decisione di Mons. Lefébvre di ordinare dei nuovi vescovi per la Fraternità San Pio X, dedica un intero paragrafo (n° 4) a questa questione, ribadendo il concetto di “Tradizione vivente”. 
"La radice di questo atto scismatico è individuabile in una incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della Tradizione, “che - come ha insegnato chiaramente il Concilio Vaticano II - trae origine dagli Apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo: infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità (Conc. Vaticano II, Cost. Dei Verbum, n. 8, Cfr. Conc. Vaticano I, Cost. Dei Filius, cap. 4: DS 3020.).”"

Qui il papa Giovanni Paolo II, rifacendosi all’ “insegnamento del Concilio Vaticano II”, afferma che si può parlare di “nozione completa di Tradizione” solo se si tiene conto del “carattere vivo” di questa stessa Tradizione, il quale consisterebbe nel fatto che la Tradizione “progredisce nella Chiesa” perché la “comprensione delle cose e delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti, (…) sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro…”.

Come si vede, queste espressioni combaciano perfettamente con le diffuse credenze moderne, così che è possibile affermare che la comprensione della Tradizione è strettamente connessa con l’idea di “progresso”; il che, tradotto in parole povere, significa che la comprensione di ieri è sempre da considerarsi ridotta rispetto alla comprensione di oggi, la quale a sua volta si deve già considerare manchevole rispetto a quella di domani. Come dire che, nonostante tutto, non v’è nulla di certo, se non l’incerto.
Si tratta, in tutta evidenza, dell’applicazione del pregiudizio modernista nei confronti del passato, considerato di per sé “il meno” rispetto al presente, che a sua volta è ancora “il meno” rispetto al futuro che, per definizione, sarebbe “il più”. E si può notare con estrema facilità che in questo modo si stravolge il concetto di “traditio”, che non corrisponderebbe più alla “trasmissione” di una cosa data, ma piuttosto alla continua rielaborazione di questa stessa cosa, rielaborazione che verrebbe condotta sulla base della riflessione, dello studio e della profonda intelligenza praticate dai credenti… con l’ausilio della predicazione di coloro… e che inevitabilmente finisce con condurre alla trasformazione della cosa data in qualcosa d’altro.

Ci rendiamo conto che l’argomento richiederebbe un più idoneo approfondimento, ma pensiamo che per adesso possa bastare qualche esempio.
Secondo questa moderna concezione della Tradizione, la formulazione dogmatica della Immacolata Concezione sarebbe il risultato della progressione cognitiva dei credenti e quindi della Chiesa. 
Le cose però non stanno affatto così.
La consapevolezza della Immacolata Concezione di Maria è un dato che appartiene alla Chiesa da sempre, essa fa parte della Tradizione della Chiesa e del suo insegnamento, e in quanto “dato tradizionale” è stato trasmesso nei secoli da una generazione all’altra. Solo quando tale consapevolezza è incominciata a venir meno, solo quando essa è stata messa in discussione dalla “riflessione”, dallo “studio” e dalla “profonda intelligenza” dei credenti, solo quando è divenuta un problema anche per “coloro” che dovevano custodire e trasmettere la Tradizione: solo allora S. S. Pio IX si vide costretto a formulare dogmaticamente l’Immacolata Concezione di Maria.
 

LA TRADIZIONE SCAMBIATA PER CONSERVAZIONE

Un altro esempio di questa stravolta concezione della Tradizione lo possiamo trovare in un articolo pubblicato qualche tempo fa dalla rivista La Civiltà Cattolica (quaderno 3691 del 3 aprile 2004, pp. 18-25), Considerazioni sul Tradizionalismo Cattolico, di Giandomenico Mucci, S. I.
In questo articolo si vuole dimostrare che le basi su cui poggiano le esigenze dei fedeli legati alla Tradizione non sono altro che forme ottuse di conservatorismo.
A onor del vero, non è facile comprendere quale sia il reale pensiero di Padre Mucci poiché sulle otto pagine che compongono il suo articolo ben sei sono costituite da citazioni. Certo, è inevitabile concludere che egli condivida le citazioni riportate, purtroppo però queste citazioni non hanno nulla a che vedere col tradizionalismo cattolico.
Per esempio, citando H. De Lubac, apprendiamo che “noi non possiamo rifugiarci a nostro piacimento, sia pure senza intenzioni negatrici, in un’epoca storica diversa dalla nostra. Siamo legati al nostro tempo. … Non possiamo ritrovare, trascurando le esplicitazioni successive, la fede di un’età anteriore nel suo esatto tenore e nella fecondità. Un simile tentativo, anche se lo si suppone legittimo, sarebbe pur sempre una grande illusione. Quando non produce fiori e frutti, il ramo al quale ci illudiamo ancora di aderire non è più che un ramo secco. Il tempo è irreversibile. (H. De Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Milano, ed. Paoline, 1963).”

La citazione è ancora più lunga, ma si resta perplessi nel constatare che Padre Mucci vorrebbe farci credere che il tradizionalismo cattolico non è altro che una forma di superstizioso attaccamento a certe forme del passato, generato da una incapacità di rendersi conto del fluire e del mutare del tempo e delle condizioni d’esistenza ad esso connesse. Il Padre Mucci confonde il tradizionalismo cattolico con il conservatorismo culturale, e siccome sa bene che si tratta di una confusione inaccettabile è evidente che egli la propone ad arte perché la sua vera intenzione è una presentazione grottesca di questo stesso tradizionalismo.
Peraltro, nella stessa citazione di De Lubac, è detto che: “Quando non produce fiori e frutti, il ramo al quale ci illudiamo ancora di aderire non è più che un ramo secco.”. 
E ci viene da ridere quando pensiamo ai fiori e ai frutti prodottisi in questi ultimi quarant’anni di Concilio e di postconcilio in seno alla compagine cattolica: altro che ramo secco, qui davvero siamo in presenza di qualcosa di pernicioso, da destinare al fuoco della Geenna. 
Tranne che non si volesse sostenere che in questi quarant’anni si sia prodotta l’esplosione della consapevolezza “del senso genuinamente soprannaturale del messaggio cristiano”, come suggerisce in un altro passo il Padre Mucci.

Dopo di ciò, Padre Mucci chiama in causa Manzoni, facendo spiegare a lui (Osservazioni sulla morale cattolica, anno 1819) in che cosa consista il tradizionalismo cattolico odierno. Troviamo così riportate considerazioni come questa: “Finalmente alcuni di quelli che difendono la religione possono o per ignoranza o per fini particolari sconoscere lo spirito della religione, presentare come conseguenza della sua dottrina il loro spirito particolare e creare essi una opposizione chimerica”.

A cosa mira questo Padre gesuita?
Egli stesso precisa che "Con l’espressione “tradizionalismo cattolico” intendiamo quella mentalità, affermatasi dopo il Concilio Vaticano II e talvolta organizzata in movimenti, che contesta e rifiuta l’apertura al mondo voluta dal Concilio.
Egli ammette che vi sono anche delle critiche serie, ma queste non li fa rientrare nel tradizionalismo, perché non gli conviene, perché deve sostenere che il tradizionalismo cattolico è quello "che ha  totalmente frainteso, e combatte, quell’apertura al mondo che è implicita nel dinamismo stesso della fede cristiana…"
È incredibile, ma Padre Mucci vorrebbe farci credere che essere seguaci di Cristo dovrebbe equivalere ad aprirsi al mondo, a condividere col mondo…, a seguire il mondo, dimentichi della condanna del mondo contenuta nei Vangeli (Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Gv 15, 19).

In realtà il Padre Mucci non ha alcuna comprensione per il tradizionalismo cattolico perché è convinto della bontà di certe tesi eterodosse, che cita: "Questo tradizionalismo cattolico … misconosce “quel grandioso processo di autonomia del profano che è stata la civiltà moderna”, il quale, “esonerando la Chiesa da ogni compito surrogatorio o temporalistico, ha lasciato libero lo spazio per lo svelarsi del senso genuinamente soprannaturale del messaggio cristiano” (citazione di P. Prini, Il cristiano e il potere. Essere per il futuro. Roma, Studium, 1993, 70 s.), ossia del suo carattere escatologico."

Ed è proprio questo il punto: oggi tanti cattolici in buona fede, laici e chierici, ignoranti e studiosi, non hanno saputo resistere alla chimera della civiltà moderna che si presenta come il non plus ultra del giusto e del bello, ed hanno abbracciato l’idea contraddittoria e blasfema che l’autoproclamazione dell’autonomia dal divino di questa società moderna corrisponda alla migliore aderenza agli insegnamenti divini.
Siamo alla perdita della fede e alla proclamazione, come fosse un valore, della emarginazione della Chiesa e del suo insegnamento, perché così, dice Padre Mucci, si potrà svelare il “senso genuinamente soprannaturale del messaggio cristiano”.
Ci chiediamo, ma in questi duemila anni la Chiesa ha allora nascosto questo senso soprannaturale e forse ne ha fatto intravedere solo qualche parte contraffatta e falsificata!
Cosa dire?
Che Padre Mucci critica pesantemente il tradizionalismo perché egli critica di fatto l’insegnamento tradizionale della Chiesa. La sua critica a chi difende la dottrina e la liturgia tradizionali non è altro che la critica alla dottrina e alla liturgia tradizionali della Chiesa. E sembra voler dire: è finita la Chiesa di un tempo, oggi vi è un’altra Chiesa. Come se da qui alla Parusia non dovesse esistere una sola ed unica Chiesa, ma più chiese mutanti a seconda del tempo, del luogo e della piacevolezza dei fedeli.


DESISTENZA DELL’AUTORITÀ ED EFFETTIVA PRATICA DELLA FEDE

A questo punto pensiamo sia necessario mettere a fuoco un altro aspetto importantissimo relativo alla lettura e all’ossequio del Magistero odierno.
Quando si parla di Magistero della Chiesa è fuori dubbio che ci si riferisce ai documenti ufficiali della Chiesa: i pronunciamenti papali e i pronunciamenti gerarchici.
Ora, anche a non voler mettere in conto il numero sterminato di documenti di questo genere che è stato prodotto in questi ultimi quarant’anni, e anche a voler trascurare il tenore di questi stessi documenti che risultano quasi tutti formulati in maniera ambigua (se a volte non singolarmente, molto spesso se comparati tra di loro), non può trascurarsi, ai giorni nostri, il valore catechetico ed educativo della “pratica” della religione.
La liturgia e la pastorale espresse dalla pratica quotidiana della religione cattolica oggi rivestono una importanza maggiore degli stessi documenti. Perfino l’esposizione pubblica dei prelati e del Papa è oggi un fattore di catechesi ben più importante del Catechismo della Chiesa Cattolica.
Oggi, che viviamo immersi nell’ “informazione” la vera catechesi cattolica, i veri insegnamenti cattolici, la vera dottrina della Chiesa, la vera pratica religiosa, per i fedeli e non, finiscono col coincidere con quello che essi sentono alla radio e alla televisione, con quello che essi leggono dai giornali, con quello che essi sentono predicare e soprattutto vedono praticare intorno alle parrocchie. Per dirla con altre parole, mentre una volta era facile affermare “fai ciò che ti dice il prete, e non quello che il prete fa”, oggi è quasi impossibile evitare che il fedele finisca con l’identificare la verità di fede e la morale con ciò che il prete fa. 
A questo occorre poi aggiungere che, proprio perché abbiamo a che fare con una società che si regge su una realtà immaginaria, che è quella dell’ “informazione”, ciò che più colpisce i fedeli è quanto viene maggiormente gridato o esaltato dalle immagini.
Orbene, cosa rimane dei documenti ufficiali, se non un riferimento per gli addetti ai lavori, e per gli addetti di alto rango? 
Già, perché oggi neanche i preti hanno la possibilità oggettiva di leggersi i documenti della Chiesa, senza contare quando addirittura non li critichino per quello che di essi hanno sentito dire in televisione o letto nei giornali.

Questa situazione pone il problema dell’esercizio dell’autorità del Magistero.
Fin dallo stesso Concilio si è determinata una situazione che è una novità nella vita della Chiesa, ed è caratterizzata da una vistosa dicotomia tra contenuto dei documenti e applicazione degli stessi. Si potrebbero fare centinaia di esempii, ma per tutti basti l’esame comparativo tra gli enunciati della costituzione sulla liturgia licenziata dal Concilio (Sacrosanctum Concilium) e i contenuti dei nuovi libri liturgici promulgati dai Papi dopo il Concilio.
Non solo, ma il contenuto di questi libri liturgici, del tutto difformi da quanto stabilito dallo stesso Concilio, non viene rispettato se non da un numero ridotto di chierici, anche per l’enorme discrezionalità e “creatività” che viene lasciata ai celebranti, ai consigli parrocchiali, agli animatori liturgici e a chiunque in qualche maniera si dà da fare nelle sagrestie.
È evidente che la Gerarchia cattolica ha rinunciato ad esercitare ogni forma di autorità, salvo qualche caso sporadico o salvo i casi in cui si debba contrastare il tradizionalismo cattolico. 
In tale situazione quale peso reale ha il Magistero della Chiesa quando esso di fatto è confinato negli scaffali delle biblioteche?

E allorché si sentisse la necessità di muovere delle critiche, seppur costruttive, a certi pronunciamenti magisteriali, si dovrà necessariamente tenere conto, oltre che dei documenti, della loro effettiva applicazione e della pratica ordinaria da essi derivata.
Per capire meglio questa necessità odierna di guardare alla pratica religiosa prima ancora che ai documenti ufficiali, facciamo un esempio che si riferisce ancora a Mons. Rifan, e precisamente all’increscioso incidente in cui è incorso, forse anche suo malgrado, lo scorso 8 settembre 2004.
Quel giorno si è svolta una solenne concelebrazione eucaristica nel santuario nazionale di Nossa Senhora Aparecida, nella città mariana di Aparecida in Brasile. Si tratta del più importante santuario mariano del Brasile, dove si venera una statua della Madonna che fu rinvenuta da tre pescatori nel 1717.
Questa solenne concelebrazione eucaristica si è svolta,  ovviamente, secondo il Novus Ordo e quindi con l’ampio utilizzo dell’ormai abituale corredo di “creatività” che inevitabilmente ha visto coinvolti, e consenzienti, tutti i prelati presenti, compresi l’inviato speciale del Papa, il cardinale Eugênio de Araújo Sales, arcivescovo emerito di São Sebastião di Rio de Janeiro (celebrante), l’arcivescovo Lorenzo Baldisseri, Nunzio Apostolico in Brasile e mons. Raymundo Damasceno Assis, Arcivescovo di Aparecida (concelebranti). 

L’uso di tale “creatività” ha permesso di violare un bel po’ di regole previste nel nuovo Messale: senza contare le licenze nei paludamenti pseduo-arcaici dei componenti della sfilata pseduo-storica. Si sono visti dei laici in costume pseudo-folkloristico condurre la statua della Madonna nel presbiterio all’inizio della Messa; si è vista una donna che “custodiva” la statua della Madonna sedersi in presbiterio con i cardinali e i vescovi per poi presentare la statua stessa al cardinale Araújo Sales per l’incoronazione e successivamente a tutti gli astanti; si sono visti due laici versare il vino nel calice al momento dell’offertorio, e altri laici, uomini e donne, distribuire la comunione anche ai preti inutilmente paludati con tanto di abito liturgico.
Come era prevedibile, la presenza di Mons. Rifan ha fatto notizia, anche perché è stato detto che egli abbia “concelebrato”.
In realtà, lo stesso Mons. Rifan ha decisamente negato di aver “concelebrato”, ma non ha potuto certo negare la sua presenza. 
Unico vescovo cattolico con la facoltà di seguire la liturgia e la disciplina liturgiche preconciliari, unico vescovo cattolico autorizzato dal Santo Padre a guardare alla dottrina e alla liturgia moderne “alla luce della Tradizione”, unico vescovo cattolico autorizzato dal Santo Padre a muovere le critiche alle pratiche liturgiche moderne che si discostano dalla Tradizione, egli con la sua presenza ha di fatto avallato tutti gli abusi che sono stati commessi in quella occasione, anche lui suggerendo ai fedeli l’idea che la nuova Messa con la sua “creatività” sarebbe perfettamente coerente con la Tradizione, tanto da essere accettata dai tradizionalisti che vi partecipano senza riserve.
Ora, se mons. Rifan volesse ancora mettere i puntini sulle “i” circa la celebrazione col Novus Ordo, a cosa si dovrebbe riferire: ai documenti ufficiali o alla celebrazione pubblica della S. Messa con tanto di cardinali, inviati e nunzi del Papa, Amministratori Apostolici, ecc?
Se ritenesse di potersi riferire ai soli documenti commetterebbe una grave leggerezza, perché trascurerebbe colpevolmente l’aspetto della trasgressione ingiustificata agli stessi documenti di riferimento, trasgressione che è diventata la prassi ordinaria nella vita della Chiesa moderna. Se ritenesse invece non potersi esimere dal valutare la prassi ordinaria della Chiesa moderna, dovrebbe prima spiegare perché fosse presente anche lui nel corso di una celebrazione che non ha certo lesinato le irregolarità e le trasgressioni.
Una situazione davvero imbarazzante: dove l’imbarazzo è connesso direttamente con le stesse affermazioni di Mons. Rifan: quando dice che si può criticare il Magistero solo ricorrendo al Magistero.

Perché si intenda bene ciò che vogliamo dire, precisiamo che secondo noi Mons. Rifan quel giorno ha perso una buona occasione per andare a celebrare un S. Messa tradizionale a Parigi, per esempio.

Per concludere, dobbiamo subito far notare che quanto esposto fin qui ha solo la pretesa di presentare certi spunti di riflessione circa alcun aspetti che in genere rischiano di essere fraintesi o trascurati. 
Chi cercasse tra le nostre riflessioni una qualche facile soluzione rimarrebbe deluso.
La nostra non è una posizione che sfugge all’esigenza di prospettive costruttive, come fosse asfitticamente limitata da una eccessiva vis polemica, ma è il risultato di una semplice constatazione: oggi noi viviamo in un contesto e in un momento storico di una eccezionalità unica, lo stato odierno del mondo e della Chiesa non è paragonabile a quello di nessun altro periodo storico, e proprio per questo non abbiamo elementi di riferimento certi che ci aiutino a intravedere concretamente una qualche soluzione praticabile. È questo il grande dramma che affligge il mondo tradizionale. 

Non possiamo riferirci al Magistero attuale perché esso si rifiuta di affrontare seriamente l’argomento; non possiamo riferirci al Magistero passato perché in esso, comprensibilmente, non è neanche ipotizzata una situazione come quella che viviamo adesso. Certo, molti richiami del passato ci aiutano ad orientarci, ma la maggior parte dei rimedi che sembrerebbero potersi adattare a questo o quel problema risultano essere del tutto inadeguati per affrontare la questione attuale nella sua globalità. 
Purtroppo, anche in àmbito tradizionale, fino ad ora, difettano le riflessioni che affrontino la problematica odierna nella sua globalità attraverso l’esame delle cause profonde di questo deplorevole stato di cose, e di conseguenza certe soluzioni proposte rivelano fortemente i propri limiti col rifugiarsi spesso dietro delle mere petizioni di principio. In particolare sembra essere parecchio diffuso il convincimento (non sempre seriamente fondato e chiaramente esposto, peraltro) che questa situazione attuale sia destinata a cambiare, come se gli enormi scompensi del pre-concilio e di disastri del post-concilio potessero semplicemente rappresentare una brutta parentesi, un incidente, e come se tutto quello che è accaduto in seno alla Chiesa non fosse strettamente connesso con l’andamento di un mondo che nel breve volgere di un secolo (per limitarci agli ultimi anni) ha prodotto una rivoluzione così profonda del modo di pensare e di vivere che non ha uguali nella storia dell’umanità.

Certo, la Chiesa è destinata a vivere fino alla Parusia, ma in seno ad un mondo che si allontanerà fino al limite massimo possibile da Dio, e quindi in seno ad un mondo che sempre più rifiuterà la Chiesa e i suoi insegnamenti: in questa prospettiva non v’è dubbio che la prima riflessione seria che occorre fare è relativa al tipo di Chiesa che si prospetta in avvenire, una Chiesa difficilmente paragonabile con quella che hanno ancora in mente molti nostri amici legati alla Tradizione, con quella le cui ultime vestigia hanno accompagnato ancora i più anziani di noi. 

In attesa che si produca, inevitabilmente e con l’aiuto dello Spirito Santo, un nuovo orientamento comportamentale meglio definito e più rispondente alla reale condizione in cui viviamo, oggi rimaniamo come in sospeso, a volte in balia di noi stessi. È per questo che in certi casi alcuni di noi, bisognosi di un qualche punto fermo qui e adesso, finiscono con l’assumere posizioni scomposte, che magari li aiutano a “mettersi il cuore in pace”, ma che non modificano minimamente lo stato di incertezza in cui tutti ci troviamo.

Che fare?

Fidare nel compimento del Piano della Divina Provvidenza, senza avere alcuna pretesa se non quella propria del fedele di Cristo: Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. (Mt, 16, 24).

Guardarsi dalle fughe in avanti e dalla voglia di attivismo, che spesso conducono lì dove non saremmo mai voluti andare. 

Guardarsi dalla tentazione della salvazione universale, che non spetta a noi, ma alla giustizia di Dio.

Ricordarsi che l’incrollabilità della Chiesa non riguarda la sua connotazione quantitativa, bensì quella qualitativa.

Ricordarsi che a noi spetta fare quanto in coscienza sentiamo sia nostro dovere, in base alle nostre possibilità, alle nostre capacità e al nostro stato, senza aspettarci mai alcun risultato e alcun riconoscimento.

Pregare perché il Signore ci aiuti a rimanere fermi lungo le Sue vie.

Pregare perché il Signore preservi la sua Chiesa dagli errori degli uomini di chiesa.

Giovanni Servodio
Nota
1 - Nel “Rogito” tumulato insieme al corpo di Giovanni Paolo II, si legge: Egli ha promulgato il Catechismo della Chiesa Cattolica, alla luce della Tradizione, autorevolmente interpretata dal Concilio Vaticano II
Come si può vedere, “la luce della Tradizione autorevolmente interpretata dal Concilio Vaticano II” non è la stessa cosa dell’accettazione di questo stesso Concilio “alla luce della Santa Tradizione”, sostenuta dai componenti dell’Amministrazione Apostolica San Giovanni Maria Vianney e dai fedeli legati alla tradizione. (torna al testo)
 
 


(giugno 2005)


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