I  FRUTTI  DEL  POST-CONCILIO

L'àbito ecclesiastico





Nel numero di maggio 2004 de Il Bollettino Salesiano (fondato da S. Giovanni Bosco nel 1877) tra le “Lettere al Direttore” ve n’è una che chiede come mai i preti non portino più l’abito ecclesiastico prescritto dal Codice di Diritto Canonico.
Sembrerà incredibile, ma il Direttore, dichiarando di condividere totalmente il diffuso abuso del rifiuto dell’abito, fornisce una risposta lunghissima, comprensiva dei risultati di una specie di inchiesta da lui condotta personalmente, ma non spiega assolutamente come mai i preti, che sono degli ordinati e non degli impiegati della parrocchia e che hanno fatto anche voto di ubbidienza e non una opzione intercambiabile in discoteca, … come mai i preti se ne infischiano del Codice di Diritto Canonico e dei richiami della Gerarchia e del Papa … e come mai la Gerarchia e il Papa fanno finta di niente avallando un comportamento che contraddice sostanzialmente l’ordinazione sacerdotale.

Ma andiamo con ordine.
Alla domanda ben precisa del lettore, che tra l’altro sembra rimpiangere i tempi in cui i preti si riconoscevano subito per strada, il Direttore risponde innanzi tutto proponendogli “…qualche riflessione sulla ‘vexata quaestio’ della veste dei preti…”.
"Storicamente alcuni cambiamenti sono avvenuti “nonostante tutto”. Voglio dire nonostante le leggi, nonostante i richiami, nonostante gli ostacoli, nonostante le punizioni… Nell’incessante evolvere del tempo giunge il momento in cui alcune evoluzioni, o mutamenti, o metamorfosi ? li chiami come vuole ? si presentano sulla scena della storia con una carica verso il cambiamento più forte delle norme, più forte del “potere”."

Sappiamo bene che tanti dei nostri amici si metteranno a ridere per una disquisizione del genere: roba da comune sessantottina! Certo, ma questo non toglie nulla alla gravità di affermazioni come queste fatte da un prete: sia perché rivelano una mentalità da provincialismo intellettuale di infima categoria, sia perché sottintendono una limitata capacità di comprensione del lettore che viene considerato come uno che può ingoiare qualsiasi fesseria, sia e soprattutto perché dal punto di vista storico ? quello che dice di assumere lo stesso Direttore ? queste affermazioni sono false.

A chi è pratico di terminologia specialistica salta subito all’occhio quel “potere” virgolettato secondo lo stile dei demagoghi della rivoluzione comunista. Intendiamoci, certa terminologia è stata poi adottata da tanti, e il nostro Direttore ce ne dà un bell’esempio, ma questo non toglie che sempre di terminologia ateo-rivoluzionaria si tratta!  In questo caso applicata bellamente alla Santa Sede che questo Direttore identifica evidentemente col mero “potere”!
L’aspetto ridicolo è costituito dal fatto che, come molti sanno, ai giorni nostri l’abuso di certa terminologia è in parte venuto meno perfino tra le fila di coloro che si professano ancora “atei e rivoluzionari”, mentre invece continua ad essere molto di moda tra le fila dei preti modernisti, che credono di fare i primi della classe adottando termini e comportamenti ormai passati di moda.
È triste, certo, ma è così che stanno le cose.

Quando poi il Nostro parla di “incessante evolvere del tempo” è come se confessasse di essere convinto che i lettori de Il Bollettino Salesiano sono, in fondo, dei poveracci che non conoscono tante cose e quelle poche che conoscono le hanno apprese proprio dalle Lettere al Direttore.
Non s’è mai visto, a memoria d’uomo, che i grandi cambiamenti si siano verificati per un moto spontaneo in questo o in quel gruppo umano. Non v’è periodo della storia dell’umanità o della storia della Chiesa che abbia conosciuto dei cambiamenti “spontanei” e “irresistibili” come quelli immaginati dal nostro Direttore. Gruppi più o meno grandi di “innovatori” hanno sempre manovrato, nel bene e nel male, per produrre situazioni diverse da quelle esistenti, imponendo poi la loro volontà minoritaria con la forza, vuoi materiale, vuoi psicologica.
Gli unici cambiamenti che hanno l’apparenza di essere spontanei sono quelli che si muovono con la spinta dell’intervento divino: e certo non si vorrebbe sostenere che i preti che rifiutano di indossare l’abito ecclesiastico siano mossi dall’intervento divino!

La bugia propalata dal Direttore diventa poi macroscopica ove si pensi che nel caso in questione non si tratta neanche di cambiamento, bensì di una semplice moda: di una moda mondana, di una scopiazzatura dell’uso ordinario dei protestanti, di un atteggiamento un po’ originalizzante (per la Chiesa) e un po’ “démodé” (per i non credenti). 
Per quanto riguarda i fedeli c’è poco da dire: essi non contano nulla per il Direttore, perché quello che conta è l’opinione dei vari preti interpellati.

Veniamo allora alle opinioni dai preti interpellati dal Direttore e da lui riportate nella risposta. 
A leggerle ci sarebbe da rimanere indignati, se non fosse che i preti modernisti ci hanno ormai abituati a ben altro che alle pochezze qui espresse.

Ce n’è uno che dichiara: Mah, non ti so dire. Così… Mi pare una cosa naturale; non mi sono posto il problema.
E subito si capisce che in realtà il povero prete non ne ha davvero colpa, perché è così che gli hanno insegnato in seminario. Anzi, per dirla tutta, non è la prima volta che si sente dire di certi seminaristi che hanno subito ampie vessazioni, e talvolta anche la minaccia del rifiuto dell’ordinazione, per aver osato indossare la talare. 
Direttore, Lei non ne sa niente?! 
Sarebbe questa la sua famosa spontanea “carica verso il cambiamento più forte delle norme, più forte del potere”?
 
Un altro afferma: Che problema c’è? Al supermercato, dal dottore, all’ufficio postale, per la strada, e perfino all’aeroporto mi sento interpellare con l’appellativo di Padre, e non ho alcun segno distintivo! Si vede che ce l’ho scritto in fronte! Dunque non è poi così indispensabile indossare la talare.
E subito si capisce che questo è un prete mentitore o troppo pieno di sé.
Insomma, tutti riconoscono in questo tizio un prete, comunque egli si presenti: perché evidentemente possiede già una visibile aureola che permette a tutti di riconoscerlo immediatamente come un sant’uomo. 
Si badi! Costui non apre nemmeno bocca ed ecco che il primo che lo incontra lo interpella: Padre!
Siamo alla megalomania galoppante!
 
Un terzo sentenzia: Mi piace così; siamo entrati nel cuore del mondo, non siamo più dei separati: prima eravamo lontani, su uno scalino e molti ci odiavano, altri magari ci invidiavano, altri ancora giravano alla larga ogni volta che vedevano una veste nera, e alcuni facevano anche di peggio, certi gesti, diciamo, esorcizzanti… mi capisce?…
Che dire? A lui piace così!
Povera gente, verrebbe da dire, se non fosse che non possiamo fare a meno di esclamare: povera Chiesa!
A lui piace così! Perché oggi fare il proprio dovere in base all’ordinazione liberamente richiesta … fare il proprio dovere di prete … corrispondere agli obblighi liberamente assunti con la vestizione e l’ordinazione … non si riduce ad altro che al proprio piacere!
A lui piace così! Lui è entrato nel cuore del mondo (povero illuso!) e non è più un separato. È un amalgamato, esattamente come sta scritto nel Vangelo: amalgamatevi col mondo, adottate i costumi del mondo, vivete secondo il vostro piacere!
No, … non è il Vangelo di Nostro Signore … è il vangelo del Direttore de Il Bollettino Salesiano e dei suoi amici preti modernisti.
 
Non possiamo riportare tutte le risposte, ma questa è davvero simpatica: Mi voglio sentire tra la gente, con la gente, per la gente, ma anche come la gente. Questo, caro lei, non è nascondersi, ma inculturarsi! (le sottolineature sono nel testo)
Questo tizio, cioè, si vuol sentire nei modi e nelle maniere più diverse, tranne che come un prete!
Ma che diavolo è andato a fare in seminario, allora?! Certo, la colpa maggiore è di chi lo ha ordinato prete  ben sapendo che egli tutto voleva tranne che essere prete!
E si giustifica pure! 
Mi confondo con gli altri ? egli dice ? non per nascondermi, ma per inculturarmi!
Incredibile. Vero è che siamo sommersi dai più strampalati neologismi, tanto che spesso capita di non capirci più niente, ma che uno si “inculturi” non l’avevamo ancora sentito!
Questo nuovo prete della nuova chiesa invece lo fa tutti i giorni: si incultura! Chissà di che diavoleria si tratta!??
Apriamo un vocabolario di italiano: … inculturare,  … inculturarsi, … inculturato, … non esistono.
Esiste: Incultura = mancanza di cultura. Ma certo non sarà questo il caso???!!!
Esiste: Inculturazione = assimilazione che l’individuo compie della cultura del proprio gruppo durante il processo di socializzazione.
Forse è di questo che intende parlare questo prete moderno. Ma questo allora significa che nonostante gli studi in seminario e la pratica in parrocchia costui non ha ancora assimilato la cultura del gruppo a cui appartiene. E ci viene il dubbio che ancora non sappia neanche a quale gruppo appartiene: appartiene alla Chiesa o appartiene allo Stato? Appartiene a Gesù Cristo o appartiene a Satana? Appartiene alla religione o appartiene all’ateismo?
Ma che diavolo sarà mai questo tizio?
Lasciamogli finire il processo di socializzazione e vedremo poi dove andrà a parare!
 
Dulcis in fundo, ecco la risposta che più piace al nostro Direttore (è lui che lo sottolinea): Voglio io stesso essere un distintivo… Mi devono riconoscere da come parlo, da come guardo, da come cammino, da come vesto vestendo i loro panni, da come saluto, perfino da come mangio… Questo tipo di pedigree non ha bisogno di alcun distintivo esterno di stoffa, o di metallo, o di plastica!
Noi conosciamo tanti preti, se non altro perché siamo soliti frequentare le chiese, e la maggior parte li conosciamo poco, soprattutto da come esercitano il loro ministero sacerdotale, e dobbiamo confessare che è davvero raro il caso di un prete che abbia un’aura pia. Non si offendano i nostri amici sacerdoti, perché noi troviamo del tutto normale questa situazione. È solo in pochi casi che subito appare chiaro, dal semplice gesto o dalle poche parole, di trovarsi al cospetto di un sacerdote. Per il resto i preti li riconosciamo perché li vediamo celebrare o amministrare un Sacramento, li riconosciamo perché li vediamo vestiti da preti, li riconosciamo perché si preoccupano di comportarsi da prete. In tutti gli altri casi non riusciamo a distinguere un prete da un laico qualsiasi.
Come non augurarsi allora di conoscere al più presto questo campione della distinzione istintivamente irresistibile? 
Costui si permette di affermare che lo “devono” riconoscere perfino da come mangia: evidentemente lui mangia dalla nuca non dalla bocca! 
Lo “devono” riconoscere da come guarda: chissà che sguardo irresistibile avrà!
Lo “devono” riconoscere da come veste vestendo come gli altri: e qui siamo già al più difficile, quasi fossimo al circo equestre!
Insomma costui dev’essere veramente un portento, un mostro: e non si può fare a meno di chiedersi in che cosa possa consistere questa sua straordinaria proprietà.
Ovviamente dobbiamo escludere che si tratti minimamente di santità, poiché se così fosse non smetterebbe mai di indossare l’abito ecclesiastico come disposto dalla Chiesa e come impostosi da sé medesimo con l’assunzione dell’obbligo dell’obbedienza.
In che cosa consisterà questa sua proprietà?
Ce lo spiega lui stesso ? bontà sua: è un individuo dotato di pedigree! 
Dobbiamo confessare che siamo rimasti un po’ confusi quando l’abbiamo letto e per toglierci ogni dubbio siamo andati a consultare subito un vocabolario.
Pedigree: vocabolo inglese derivato dal francese arcaico pied de grue. Usato per indicare l’elenco degli ascendenti di un animale di razza, specie di cavalli e cani.
Eureka! Trovato e capito! Caspita … ecco perché tutti lo “devono” riconoscere subito per quello che è: con un pedigree così come si fa a scambiarlo per un prete!

Ora, se fin qui abbiamo anche scherzato un po’, sarà opportuno ricordare che l’obbligo dell’uso dell’abito ecclesiastico non è una fisima conservatrice o reazionaria, né tampoco una esasperazione dei fedeli legati alla Tradizione. 
Il Codice di Diritto Canonico vigente (1983), quasi ricalcando quanto stabilito nel Codice del 1917, al canone 284 così recita: 
I chierici portino un abito ecclesiastico decoroso secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale e secondo le legittime consuetudini locali.

In questo senso, la Conferenza Episcopale Italiana, con delibera n° 12 del 23 dicembre 1983 ha stabilito che: 
Salve le prescrizioni per le celebrazioni liturgiche, il clero in pubblico deve indossare l’abito talare o il clergyman.
Per quanto riguarda i religiosi, lo stesso obbligo è stabilito dal canone 669: 
§ 1 I religiosi portino l’abito dell’istituto fatto a norma del diritto proprio, quale segno della loro consacrazione e testimonianza di povertà. 
§ 2 I religiosi chierici di un istituto che non ha abito proprio adottino l’abito clericale  a norma del canone 284.

La Congregazione per il Clero, in data 31 gennaio 1994, ha emanato il Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, il quale, al n° 66, così recita:
In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero - uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri - sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l’abito che porta, come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico. Il presbitero dev’essere riconoscibile anzitutto per il suo comportamento, ma anche per il suo vestire in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo, la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa. 
Per questa ragione, il chierico deve portare “un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza episcopale e secondo le legittime consuetudini locali”. Ciò significa che tale abito, quando non è quello talare, deve essere diverso dalla maniera di vestire dei laici, e conforme alla dignità e alla sacralità del ministero. La foggia e il colore debbono essere stabiliti dalla Conferenza dei Vescovi, sempre in armonia con le disposizioni del diritto universale. 
Per la loro incoerenza con lo spirito di tale disciplina, le prassi contrarie non si possono considerare legittime consuetudini e devono essere rimosse dalla competente autorità.
Fatte salve situazioni del tutto eccezionali, il non uso dell’abito ecclesiastico da parte del chierico può manifestare un debole senso della propria identità di pastore interamente dedicato al servizio della Chiesa.

Il 22 ottobre del 1994, il Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi, ha emanata una precisazione circa il valore vincolante del n° 66 che abbiamo riportato prima, nella quale, fra l’altro, si afferma che: 
7. In ossequio al prescritto del can. 32, queste disposizioni dell’art. 66 del “ Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri ” obbligano tutti quelli che sono tenuti alla norma universale del can. 284, vale a dire i Vescovi e i presbiteri, non invece i diaconi permanenti (cfr. can. 288). I Vescovi diocesani costituiscono, inoltre, l’autorità competente per sollecitare l’obbedienza alla predetta disciplina e per rimuovere le eventuali prassi contrarie all’uso dell’abito ecclesiastico (cfr. can. 392, § 2). Alle Conferenze episcopali corrisponde di facilitare ai singoli Vescovi diocesani l’adempimento di questo loro dovere.
(Vedi: Communicationes, 27 [1995] 192-194)
 

Abbiamo voluto riportare per intero questi richiami perché si comprenda chiaramente che il mancato uso dell’abito ecclesiastico non è qualcosa che attiene alle disquisizioni più o meno puerili di questo o di quel prete, ma attiene alla plateale disubbidienza di preti che se ne infischiano della Chiesa e delle sue leggi. Ma, cosa ancora più grave, attiene anche alla ormai acclarata desistenza dell’Autorità: né i vescovi né la Santa Sede si preoccupano minimamente di rendere il comportamento dei preti coerente con gli obblighi da essi stessi liberamente assunti, avallando di fatto una situazione che suggerisce a chiunque l’idea che la Chiesa, in fondo, non è altro che una qualsiasi “repubblica”.
Ora, se nella Chiesa ognuno può fare come gli pare, e per primi i preti, come si potrà mai pretendere che i fedeli rimangano fedeli, appunto, alle leggi del Signore?
E se i preti possono fare quello che più loro aggrada, come potranno mai pretendere di essere ascoltati con un minimo di autorevolezza quando predicano dai pulpiti?

Come è facile capire, non si può pensare che il Direttore de Il Bollettino Salesiano non sia a conoscenza delle summenzionate disposizioni della Chiesa, né possa ignorare il significato delle disposizioni stesse e lo spirito che le ha dettate, né tampoco possa essere così male informato sul significato dell’abito ecclesiastico, ed allora com’è possibile che avalli il rifiuto dell’abito?

La spiegazione è alquanto articolata, ma si può dire che poggia su due pilastri fondamentali. 
Il primo è la tendenza a democraticizzare la Chiesa: tanti preti, religiosi e prelati moderni pensano che la conduzione della Chiesa debba assomigliare alla conduzione di un qualsiasi organismo laico, spronati  in questo dallo straparlare che si fa in seno alla Chiesa stessa della democrazia e delle sue impareggiabili virtù. 
Il secondo è la smania di sentirsi parte del mondo: molti preti, religiosi e prelati si sono convinti che la loro missione consista nel salvare la bellezza dei corpi e nel perseguire il maggior benessere possibile su questa terra, spronati in questo dallo straparlare che si fa in seno alla Chiesa stessa di vitalismo, di pace terrena, di fratellanza universale e di congresso delle religioni.
In un contesto siffatto si comprende benissimo che il prete non ha nessun interesse a distinguersi come tale dagli altri uomini, anzi egli tende ad omologare i suoi gesti e i suoi comportamenti a quelli degli altri, magari indossando un bell’abito da sera nelle dovute occasioni, non più preoccupato di rivestire l’abito distintivo della sua appartenenza a Cristo: perché ultimamente è al mondo che obbedisce, non a Dio.

Non si offendano tanti preti, ma noi non possiamo impedirci di confessare che in questa situazione scorgiamo più delle enormi debolezze e delle macroscopiche povertà interiori che delle ponderate decisioni, sia pure assurde e anticattoliche. I preti non vogliono più farsi riconoscere, non per nascondersi, come diceva quello che abbiamo citato prima, ma perché non sanno come giustificare eventualmente il loro abito: essi non sanno perché sono preti, anche perché nessuno glielo ha veramente insegnato. La più profonda delle motivazioni che conoscono è quella filantropica.

Per ultimo segnaliamo che sull’argomento è stato pubblicato ultimamente il lavoro svolto dal Rev. Don Michele De Santi, L’abito ecclesiastico. Sua valenza e storia, Edizioni Carismatici Francescani, Ravenna,  2004, del quale parliamo qui nella nostra rubrica “abbiamo ricevuto”.

Belvecchio

 


(giugno 2005)


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