Non è un libro “nuovo”, quello di LORENZO BIANCHI, Liturgia, Memoria o istruzioni per l’uso?, anzi è una semplice raccolta di articoli già pubblicati sulla rivista mensile 30 Giorni dal 1992 al 1999. Ma è nuovo, sicuramente, l’interesse che va crescendo intorno alla triste questione della riforma liturgica post-conciliare. La rivista 30 Giorni, pregevole per certi versi, è pur sempre una rivista “interna” al mondo cattolico piú attento alle problematiche della Santa Chiesa; gli articoli da essa pubblicati  non hanno potuto avere quella diffusione che avrebbero meritato. L’averli raccolti in volume è indice, da un lato della accresciuta preoccupazione di far conoscere certe cose ad un pubblico piú vasto, e dall’altro della certezza che oggi, diversamente da ieri, vale la pena pubblicarli tramite una casa editrice a grande diffusione, perché il pubblico dei potenziali compratori oggi è sicuramente molto piú vasto di ieri.
Il volume si apre con un articolo che, nel 1992, venne pubblicato sul settimanale Il Sabato, una testata purtroppo scomparsa, ma che a quel tempo riscosse un certo successo. In esso si pone l’accento su un particolare aspetto dei testi liturgici riformati e delle loro traduzioni: quello della tendenza a sfumare la figura di Gesú Cristo, fino a farlo apparire come una sorta di riferimento ideale, intellettuale. E già Il Sabato parlava di tendenze gnostiche, lasciando intendere che un certo gnosticismo strisciante era ormai penetrato fin nella liturgia, e quindi in ciò che si dava a credere ai fedeli; ne nacque un acceso dibattito, ma poi la cosa finí lí.
Gli articoli pubblicati poi su 30 Giorni, affrontano, con una piú complessa analisi dei testi, il problema della trasformazione linguistica nei testi liturgici, che è rivelatrice, come dice l’autore, di "Un atteggiamento culturale che si manifesta evidente se si ripercorre… la storia del Messale di san Pio V e delle scelte dei riformatori, compiute quanto meno senza percepire che cosa fosse realmente l’inimmaginabile scristianizzazione moderna, favorendo l’illusione, poi rivelatasi distruttiva, che bastasse cambiare parole e riti per attirare gli uomini di oggi al cristianesimo" (p. 9).
Il testo è corredato da diverse tavole sinottiche che mettono a confronto i testi latini del Messale tradizionale e del nuovo Messale, accompagnati dalla traduzione in italiano.
Sono cosí messi in evidenza i profondi cambiamenti che spesso si riscontrano, e che, ovviamente, pur se attengono alla forma e alle espressioni usate, sono indicatori di un previo cambiamento di mentalità; il quale, in questo specifico argomento, può solo corrispondere ad un cambiamento della concezione religiosa dei redattori. Una nuova liturgia che scaturisce da una nuova dottrina.
Inutile dire che tutto il lavoro di sconvolgimento dei testi liturgici non aveva alcuna giustificazione seria fondata sui disposti del Concilio Vaticano II. Si trattò di una revisione totale che prese solo le mosse dai dettati conciliari, ma che intese condurre e condusse in una direzione che il Concilio non aveva mai voluta, né preparata. 
E questa continua ad essere la vessata questio. Se il Concilio non ha mai voluto rivoluzionare la liturgia, né ha mai parlato della abolizione del Messale di San V, come è stato possibile che ciò sia avvenuto? Nessuno, sano di mente, potrebbe affermare che la cosa sia avvenuta senza che alcuno se ne sia accorto. I Vescovi che prepararono i nuovi testi, il Papa che li promulgò, i Vescovi che li applicarono, erano tutti Padri Conciliari: quegli stessi che non avevano mai voluto quello che essi stessi stavano praticando.
Sembrerebbe una semplificazione, la nostra, ma si tratta semplicemente di un fatto. Al quale nessuno, fino ad oggi, ha saputo o voluto dare una spiegazione convincente.
Gli stessi articoli pubblicati a suo tempo su 30 Giorni, invece di sollevare uno scandalo in seno alla Chiesa, hanno finito col rientrare in una supposta logica “dialettica” entro la quale ci si compiace di ridurre la questione: il Concilio è stato male applicato! Ma da chi? Se non dallo stesso Concilio?
Leggendo questo libro ci si stupisce ancora delle cose che vi sono scritte.
"L’aspetto piú evidente di questa rielaborazione è la quasi totale soppressione delle espressioni relative al peccato e al male, e di quelle relative alla necessità di redenzione e di perdono" (p.59). "Appare chiaro da tutto questo il passaggio da una realtà di grazia e di peccato… ad un altro tipo di attesa che… si esprime ormai in uno spunto di impegno e nel tentativo di valorizzazione delle proprie capacità".
Il che, detto in termini piú semplici, sta a significare che la nuova dottrina che è alla base di questa nuova liturgia non crede piú nella condizione dell’uomo peccatore che può essere salvato dalla Grazia divina, ma è convinta della capacità dell’uomo, cosí com’è, di salvare sé stesso.
Nel libro, ovviamente, viene anche ampiamente trattato il problema delle traduzioni in volgare del testo “tipico” latino. Ed è proprio da queste traduzioni che si comprende piú facilmente come fu fin dal testo latino che si volle cambiare la dottrina e la liturgia. Il testo latino poteva anche conservare certe espressioni e certi richiami, tanto non sarebbe stato usato mai piú (né tampoco mai piú compreso, perché dal 1970 il latino non si pratica piú nei seminarii). Il testo in volgare, invece, in ragione della sua facile comprensione “doveva” essere piú esplicito, tradendo spesse volte lo stesso testo latino elaborato dai medesimi “liturgisti”.
Da nobis, quaesumus, Domine, ut et mundi cursus pacifico nobis tuo ordine dirigatur, et Ecclesia tua tranquilla devotione laetetur. Concedi, ti preghiamo, Signore, che il mondo segua per noi il suo corso secondo il tuo ordine di pace, e che la tua Chiesa possa gioire nel dedicarsi in tranquillità al tuo servizio. (p. 105)
Dove il "gioisca in tranquilla obbedienza" del latino, diventa "possa gioire nel dedicarsi in tranquillità al tuo servizio".
Perché è sparita la “gioia dell’obbedienza”? Lo spiega il testo italiano: perché la gioia (della Chiesa, e quindi dei fedeli) non consiste piú nell’obbedire a Dio e alle sue leggi, ma nel dedicarsi con tranquillità ad un non meglio precisato servizio, e cioè ad una attività comunitaria che procuri gioia a noi che la facciamo e a coloro a cui è rivolta. Certo una concezione del tutto nuova della religione cattolica, una concezione che è, non solo non piú cattolica, ma, per molti versi, neanche piú religiosa.
Per quanto riguarda la incredibile degenerazione che si è prodotta nella liturgia, e quindi nella dottrina, a causa del prevalere della “prassi” liturgica, il libro si limita ad accennarne, qua e là. E sarebbe stato interessante se, con lo stesso impegno, si fosse approfondito anche quest’aspetto. Si sarebbe messo in evidenza, infatti, che lo spazio concesso al celebrante circa la “presentazione” o la “spiegazione” dei diversi passi liturgici, e circa la possibilità di “scelta” tra passi diversi, doveva condurre necessariamente ad una interpretazione individualistica e del tutto legata alla contingenza dell’ora e del luogo, allontanando la liturgia da quella funzione primaria che le è propria: strumento per rendere a Dio il culto dovutogli.
Resta comunque la validità di un lavoro come questo, espressione di un àmbito ecclesiale (quello di 30 Giorni) che non può certo dirsi “polemico” nei confronti del Concilio e del post-Concilio, ed a cui si può solo rimproverare lo scarso impegno perché si addivenga al piú presto a quella “riforma della riforma” già auspicata dal Card. Ratzinger e ormai non piú procrastinabile.

LORENZO BIANCHI, Liturgia, Memoria o istruzioni per l’uso? Studi sulla trasformazione della lingua dei testi liturgici nell’attuazione della riforma, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 2002, pp. 202, Euro 11,90.
 

(3/2003)


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