Il prof. MICHELE VALLARO, docente di lingua e letteratura araba all'Università di Torino, ha pubblicato recentemente un curioso e simpatico libretto circa le difficoltà d'apprendimento della lingua araba (Parliamo arabo? Profilo (dal vero) di uno spauracchio linguistico).
Lo scopo dell'Autore, sia pure nella brevità dello scritto, è quello di suggerire che la lingua araba non è poi piú difficile da apprendere di una qualunque altra lingua.
L'argomento, di per sé, sembrerebbe distante dai nostri interessi, se non fosse che la stessa esposizione dell'Autore ci ha indotto a considerare che, istintivamente, anche per noi l'arabo è veramente “arabo”. Come mai una cosí “istintiva” diffidenza?
Oggi, quando si parla dell'arabo, viene subito in mente il personaggio cosiddetto “extracomunitario”: un mondo lontano, un mondo diverso; o si evocano addirittura vecchie esperienze, come il famoso: “mamma! li turchi!” di secolare memoria.
In un mondo che si compiace di discettare di “mondialismo” e simili, sembra proprio anacronistica una tendenza del genere, cosí che in cambio ritroviamo tante persone dedite all'“accoglienza”, alla “condivisione”, alla comprensione dell'“altro”; come fossero dei nuovi valori da coltivare e da affermare in seno a questa nuova società che si vuole “evoluta”. I piú “colti” parlano di “incontro culturale”, come base per la comprensione reciproca e per l'auspicata “convivenza”.
Non è nostra intenzione entrare in questi aspetti del problema, ma la lettura del libro dell'amico Vallaro, ci ha fatto riflettere circa il senso di certa modernità che si pretende abbia fatto dei giganteschi passi avanti in ordine alla comprensione fra i popoli.
Ci è venuto in mente che la “retrograda” Cristianità, fin dal Medioevo, sapeva molto di piú degli arabi, della loro lingua e della loro cultura, di quanto si sia soliti immaginare. Non solo, ma tale conoscenza era tutt'altro che esteriore, era addirittura basata su principi di condivisione e di apprezzamento che il mondo moderno è ben lungi perfino dall'immaginare.
Tralasciamo il fatto ben noto, ma mal compreso, della nostra notazione numerica che si effettua con i numeri “arabi” (anche se in realtà si tratta della notazione indiana); non ci addentriamo nelle implicazioni culturali dell'uso dell'ogiva “araba” nell'architettura degli edifici sacri del Medioevo; sorvoliamo sugli spunti “arabi” contenuti in quell'opera formidabile di allegoria cristiana che è la Divina Commedia di Dante Alighieri, cosí attentamente rilevati dal Padre Asin Palacios fin dai primi del secolo. Ma come non riflettere sul fatto che tutta la nostra algebra ci viene dagli Arabi, al pari della chimica, discipline di cui abbiamo conservato perfino i nomi arabi, come accade ancora per tanti termini dell'astronomia?
Il tanto bistrattato Medioevo e la tanto condannata Cristianità, che si vorrebbero oppressive e discriminanti, alla luce di interrogativi come questi si dimostrano essere stati molto piú aperti e molto piú disponibili nei confronti della cultura dell'“altro” di quanto lo sia oggi il moderno libero pensiero e la tanto declamata apertura culturale.
Quando parliamo di Tradizione, noi pensiamo anche a cose come queste: ad un mondo, ad una forma mentale, ad un modo d'essere che, pur nel rispetto rigoroso della propria specificità, possedeva un'ampiezza di vedute veramente universale e cattolica. Un mondo in cui le divisioni non impedivano, ma anzi sostenevano e facevano fruttificare gli incontri e gli scambi tra culture diverse.
Chi ricorda ancora seriamente le università di Toledo e di Salamanca della cattolicissima Spagna?

[MICHELE VALLARO, Parliamo arabo? Profilo (dal vero) di uno spauracchio linguistico, 1977, Promolibri Magnanelli, Torino, pp. 64, £ 6.000]. 

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