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Recensione di Don Curzio Nitoglia

Padre Felice Maria Cappello

“CHIESA E STATO”


La vita e le opere di Padre Cappello

Felice Cappello nacque a Coviola di Belluno l’8 ottobre 1879; fu battezzato lo stesso giorno della sua nascita a Pieve di Forno di Canale.

Felice Cappello entrò nel seminario minore di Feltre nel 1893; una volta terminato il seminario minore nel 1897, entrò nel seminario maggiore di Belluno, dopo 4 anni di studi, Felice fu consacrato sacerdote, il 20 aprile 1902.

Fu, quindi, inviato come viceparroco a Sedico, una cittadina a pochi chilometri da Belluno, restandovi sino al 1906.

Il giovane viceparroco, don Felice, continuò gli studi ecclesiastici e si laureò prima presso la facoltà teologica di Bologna nel 1904 in teologia; poi, nel 1905 in filosofia presso l’Accademia San Tommaso d’Aquino di Roma e, infine, conseguì la terza laurea nel 1906 presso l’Istituto Apollinare di Roma in diritto canonico, materia di cui diverrà uno dei maggiori esperti della prima metà del Novecento.

L’11 giugno 1905 San Pio X con l’Enciclica Il fermo proposito, pur mantenendo ancora de jure il non expedit di papa Mastai, autorizzò de facto i Cattolici a prendere parte alle elezioni che si sarebbero tenute nel novembre del medesimo anno.

Pio X aveva allentato le disposizioni pratiche di Pio IX, che, tra il 1861 e il 1874, in protesta contro l’invasione dello Stato pontificio, aveva proibito totalmente ai Cattolici di partecipare alle elezioni politiche del neonato Regno sabaudo.

Si aprì, dunque, attorno al 1905 un vivace dibattito tra i Cattolici se si dovesse mantenere una posizione di forte intransigenza dottrinale e anche pratica (com’era stato stabilito da Pio IX e mantenuto da Leone XIII) nei confronti della vita politica del Regno d’Italia oppure se si potesse, come aveva permesso Pio X, avvicinarsi praticamente all’agone politico per mandare in Parlamento deputati che s’impegnassero con l’elettorato a promulgare leggi civili non difformi dalla Legge naturale e divina, pur mantenendo una linea dottrinale di condanna verso il Risorgimento liberale.

Padre Cappello entrò nella disputa con molta foga. Si erano, infatti, creati due schieramenti tra i Cattolici: 1°) i più conservatori erano propensi a mantenere intatto il non expedit non solo nella dottrina antiliberale e antirisorgimentale, ma anche con la pratica di “non eletti né elettori”, vedendo di malocchio ogni apertura benché minima anche nella sola pratica; mentre 2°) altri - in séguito all’apertura di papa Sarto - ritenevano di poter partecipare nella pratica alle elezioni per impedire che la legislazione fosse tutta in mano ai laicisti e ai liberali, mantenendo intatta la teoria di condanna del Risorgimento massonico e laicista.

Padre Cappello si schierò decisamente con Pio X, argomentando che il non expedit non era legge teorica di diritto naturale o divino, ma un semplice precetto pratico dell’autorità ecclesiastica per sua natura contingente, legato alle circostanze storiche e, perciò, revocabile dalla medesima autorità ecclesiastica col mutare delle situazioni storiche che lo avevano determinato. Perciò, ferma restando la condanna teorica del Risorgimento massonico e liberale, si poteva partecipare in pratica alla vita politica per impedire che la legislazione fosse lasciata totalmente in mano alle forze laicistiche e anticristiane.

Fu così che nel 1906 padre Felice pubblicò un libretto intitolato La questione dei cattolici alle urne, con l’approvazione della Curia episcopale di Belluno. Questo libretto fu diffuso in tutto il Triveneto e fu approvato dal Vaticano, il quale in una nota scritta riconobbe che esso “esprimeva le idee della Santa Sede sull’attenuazione del non expedit”.

Nell’anno 1906, padre Felice fu chiamato a insegnare diritto canonico nel seminario maggiore di Belluno e nel 1907 pubblicò con l’Editore Marietti di Torino il primo volume delle Institutiones iuris publici ecclesiastici, che è stato ristampato sino al 1954.

Il libro ora ristampato da Effedieffe Chiesa e Stato (Roma, Ferrari, 1910) riassume, in circa 600 pagine in lingua italiana, i tre grossi volumi delle Institutiones

Don Felice nel 1909 si trasferì a Roma presso il seminario lombardo (vicino alla basilica di Santa Maria Maggiore), entrando così in stretto contatto con i Gesuiti della Civiltà Cattolica. Fu così che conobbe il celebre redattore e poi anche direttore (dal 1915 al 1931) della rivista dei Gesuiti, padre Enrico Rosa, che iniziò a guidarlo spiritualmente, “fra i due sorse un forte sodalizio umano e intellettuale, padre Rosa diventò, di fatto, il padre spirituale di don Cappello e fu la persona che più lo consigliò quando si fece strada in lui il desiderio di diventare Gesuita” (V. LESSI, Padre Felice Cappello. Il confessore di Roma, Camerata Picena di Ancona, Editrice Shalom, 2018, p. 56).

Nel 1910 uscì il libro Chiesa e Stato che padre Rosa recensì in modo lusinghiero sulla Civiltà Cattolica.

Don Felice nel 1912 andò a fare un pellegrinaggio a Lourdes per chiedere alla Madonna lumi sulla veracità di una sua eventuale vocazione religiosa presso i Gesuiti. Uscito dalla grotta scrisse un telegramma al provinciale dei Gesuiti di Roma, chiedendo di essere ammesso nella Compagnia di Gesù e dopo andò a celebrare la Messa in ringraziamento per i lumi ricevuti durante la veglia notturna. 

Fu così che nel 1913 entrò nella Compagnia di Gesù e insegnò diritto canonico nell’Università Gregoriana di Roma per circa 40 anni sino al 1959.

Fece un anno di noviziato a Roma e nel 1914 dietro ordine dei superiori si trasferì ad Anagni in Ciociaria per insegnare teologia al Collegio Leoniano continuando anche il suo noviziato.

Padre Felice restò a insegnare ad Anagni per sei anni sino al 1921 dopo di che fu chiamato a insegnare diritto canonico all’Università Gregoriana di Roma.

Morì domenica 25 marzo, festa dell’Annunziata, del 1962 a mezzanotte e cinquanta minuti. Iniziò ad aggravarsi la notte del 22 marzo 1962, soffriva di un’epatite da molto tempo. La mattina del 23 marzo, dopo una notte travagliata, alle cinque del mattino come di solito si recò in cappella per celebrare Messa, vi restò sino alle sette, nonostante tutto trovò la forza per confessare alcuni penitenti che erano andati da lui. La mattina del 24 si alzò e non rinunciò alla celebrazione della Messa. Poi fu colto da un collasso cardiaco, alle venti si fece amministrare gli ultimi Sacramenti in perfetta lucidità.

Il Nostro non fu soltanto un erudito e un cattedratico, ma anche un uomo di alta religiosità, amico di don Orione, di don Calabria, di monsignor Landucci, legato spiritualmente a padre Leopoldo Mandic e a padre Pio da Pietrelcina.

La sua fu una vita di studi, di apostolato soprattutto al confessionale e di aspre penitenze.

Sino a due giorni prima di morire pregava sempre in ginocchio e senza appoggiarsi, nonostante l’età avanzata e anche per qualche ora consecutivamente. Non ha mai mangiato e neppure bevuto un solo bicchier d’acqua fuori dai tre pasti principali.

“Un giorno, mentre celebrava la Messa gli si ruppe un ascesso dentario ed emise una quantità impressionante di materia infetta. L’infermiere dovette usare una dozzina di fazzoletti per ripulirlo. Dopo aver sistemato la bocca riprese la celebrazione della Messa, come se nulla gli fosse successo” (V. LESSI, Padre Felice Cappello. Il confessore di Roma, cit., p. 181).

La notte dormiva poche ore sdraiato su di una poltrona, portando abitualmente il cilicio” (V. LESSI, Padre Felice Cappello. Il confessore di Roma, Camerata Picena di Ancona, Editrice Shalom, 2018, p. 34).


Il libro “Chiesa e Stato” di padre Cappello


Il libro che ora l’Editore Effedieffe ripresenta al pubblico italiano (620 pagine, 28 euro), fu stampato dall’Editore pontificio Ferrari di Roma nel 1910 e ricalcava le Institutiones iuris publici ecclesiastici pubblicato da Marietti nel 1907 in tre volumi, in cui il Nostro affrontava, in lingua latina, la materia dei rapporti tra potere spirituale e temporale, secondo la dottrina cattolica.

Il libro «Chiesa e Stato» possiede il grandissimo pregio di essere scritto nella nostra lingua, in maniera molto chiara, semplice e accessibile a tutti, come tutti gli scritti di padre Felice.

Egli, infatti, aveva la capacità di essere chiaro, conciso, profondo e preciso. Leggendo le opere di padre Felice si ha l’impressione - quanto al modo di esporre - di avere a che fare con le famose opere tipo, l’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis, gli Esercizi Spirituali di S. Ignazio da Loyola o le opere di S. Alfonso de Liguori.

Insomma; quel tipo di libri scritti nella maniera più semplice e più facile, ma nello stesso tempo più profonda e più ricca. Vi sono anche altri trattati di diritto pubblico ecclesiastico (ad esempio quello del cardinal Alfredo Ottaviani) molto buoni e ben redatti; tuttavia, quello del padre Cappello è anche scritto in una maniera talmente esatta, semplice, senza una parola in più o in meno, che lo rende, a mio avviso, il migliore almeno per quanto riguarda la sua comprensibilità.

Il libro che ora Effedieffe ristampa è frutto di una vastissima conoscenza della materia sui rapporti tra potere temporale e spirituale ed è stato redatto nella maniera più scientifica e nel medesimo tempo più facilmente comprensibile a tutti, esposta in maniera esemplare e pedagogica. Quindi unisce in sé due altissime qualità: la precisione della dottrina con la semplicità dell’esposizione.

Lo studio di questo libro offrirà al lettore l’antidoto per combattere la dottrina laicista che è penetrata anche all’interno dell’ambiente ecclesiale con la Dichiarazione Dignitatis humanae personae (7 dicembre 1965) del Concilio Vaticano II.

Un unico appunto: padre Cappello, del tutto lecitamente, sostiene la teoria del potere della Chiesa solo indiretto nelle questioni temporali in ragione del peccato del governante. Tuttavia, egli presenta, in maniera un po’ troppo univoca, la dottrina del potere anche diretto ma non esercitato da parte della Chiesa nelle materie temporali come se fosse una teoria del tutto marginale nella Chiesa, mentre essa è stata la dottrina comune nel medioevo.

Invece, la dottrina del potere diretto anche nelle questioni temporali ma non esercitato volutamente, è stata comunemente insegnata per lunghi anni nella Chiesa e ha ancora alcuni (anche se rari) sostenitori, pur non essendo l’unica dottrina della Chiesa, la quale lascia la libertà d’insegnare sia il potere diretto anche nelle materie temporali, sia il potere solo indiretto in ragione del peccato.

Storicamente i Dottori della Chiesa, con la Controriforma, hanno adottato prevalentemente la teoria del potere solo indiretto in temporalibus ratione peccati; tuttavia, la Chiesa non ha mai condannato, né disconosciuto la dottrina medievale del potere diretto non esercitato nelle questioni temporali, la quale resterà sempre parte incancellabile del suo patrimonio culturale e del suo insegnamento.

I fedeli della Chiesa - essendo, come ogni uomo, composti di anima e di corpo - sono, nello stesso tempo, soggetti anche di uno Stato, ossia di una società temporale che si occupa del loro benessere comune temporale, mentre la Chiesa si occupa del bene spirituale.

Perciò, si può riassumere nel seguente modo la teoria dei rapporti tra Stato e Chiesa:
1°)
nei primi tre secoli, ossia appena sùbito dopo la nascita della Chiesa, i due poteri de facto erano indipendenti, poiché l’impero romano perseguitava la Chiesa, pur avendo Gesù insegnato di dare a Cesare il corpo e a Dio l’anima, perciò, la subordinazione di Cesare a Dio, del corpo all’anima e dello Stato alla Chiesa.

2°) Da san Gelasio a san Gregorio VII (V-XI sec.), ossia durante l’adolescenza della Chiesa, viene elaborata la dottrina sul potere indiretto della Chiesa che cerca di penetrare, anche in teoria e non solo in pratica, gradualmente e sempre più nella Società civile.

3°) Da san Gregorio VII a Bonifacio VIII (XI - XIV sec.), cioè l’età matura e l’apogeo della Chiesa, l’insegnamento sul potere diretto in temporalibus sboccia e dà luogo alla Cristianità medievale. La dottrina insegnata comunemente è quella del potere diretto della Chiesa anche nelle materie temporali, ma non esercitato da essa e lasciato nelle mani dei Prìncipi temporali.

4°) Con l’Umanesimo e il Rinascimento (XIV/XVI secolo) e soprattutto con l’avvento dell’eresia protestante in gran parte dell’Europa (seconda metà del XVI sec.) e la conseguente perdita di peso della Chiesa romana, si ritorna alla dottrina del potere indiretto (Cajetanus, Bellarmino e Suarez).

5°) Con l’Illuminismo e la rivoluzione francese (XVIII sec.), ossia durante la persecuzione cruenta della Chiesa, il potere della Chiesa sullo Stato è quasi nullificato, come nei primi tre secoli. Perciò, si mantiene la dottrina del potere indiretto, ma senza propagandarla in pratica a voce troppo alta…

Qui mi soffermo soltanto sul periodo che va da san Gregorio VII a Bonifacio VIII (XI - XIV sec.), cioè l’età matura e l’apogeo della Chiesa, in cui prevalse l’insegnamento sul potere diretto in temporalibus. Gli altri periodi li ho trattati per esteso nell’«Introduzione» al libro di padre Cappello edito da Effedieffe: se qualcuno fosse interessato a queste tematiche può consultarla.

Certamente, non voglio disprezzare le altre epoche della Chiesa e i princìpi che sono stati insegnati durante esse, ma in quest’occasione preferisco concentrarmi sulla dottrina, oggi poco conosciuta pure in campo cattolico, del potere diretto della Chiesa anche in questioni temporali, ma non volutamente esercitato da essa.

Esso ricalca il potere che Gesù, come vero Dio e vero uomo, aveva su tutte le realtà, sia spirituali sia temporali, ma che non ha voluto esercitare quanto alle questioni temporali, lasciandolo nelle mani dei Governatori politici; così, analogamente, la Chiesa (che è il “Corpo Mistico” di Cristo) ha un potere non solo sulle materie spirituali, ma pure su quelle temporali, soltanto che essa non vuole esercitarlo direttamente in temporalibus.

Infatti, mi sembra opportuno mostrare come questa dottrina, pur se non più comunemente insegnata oggi (a partire dalla Controriforma), è assai solida ed è stata sostenuta da numerosi Dottori e Papi, che sono delle vere e proprie colonne della storia e del pensiero della Chiesa. Perciò, non mi sembra opportuno liquidare questa dottrina come del tutto accidentale al pensiero cattolico.


IL MEDIOEVO E LA CRISTIANITA’ (XI-XII SEC.):
potere diretto in temporalibus non esercitato



Papa san GREGORIO VII (1073-1085)
: nel Dictatus Papae (1075) sul potere dei pontefici, raccoglie in 27 proposizioni la sua dottrina sul potere papale, di queste 22 sono di natura teologica e affermano il primato della Chiesa romana e del Vescovo di Roma; le altre cinque (8ª; 9ª; 12ª; 19ª; 27ª) si riferiscono alle relazioni tra Papa e imperatore e sono l’espressione concreta della teologia ierocratica gregoriana:

8ª) Solo il Papa può usare le insegne imperiali; 9ª) Tutti i Prìncipi devono baciare i piedi solo al Papa; 12ª) Il Papa può deporre l’imperatore; 19ª) Nessun uomo può giudicare il Papa; 26ª) Chi non è in comunione e in accordo con la Chiesa romana non può essere considerato cattolico; 27ª) Il Papa può sciogliere i sudditi dalla fedeltà verso i Prìncipi iniqui.

Nella prima lettera a Ermanno, Vescovo di Metz (25 agosto 1076), san Gregorio VII pose chiaramente le basi sulle quali si fondava la sua supremazia sull’impero, la sua fonte principale è sant’Ambrogio, secondo il quale il sacerdozio è tanto più nobile del potere temporale quanto l’oro sul piombo, l’imperatore è nella Chiesa e non sopra di Essa; quindi anche le sue cattive azioni debbono e possono essere censurate dalla Chiesa. Ma san Gregorio si spinge a parlare di deposizione del re da parte del Papa, e passa così dalla supremazia teorica a quella pratica.

Nella prima scomunica e deposizione di Enrico IV (22 febbraio 1076) san Gregorio si rivolge a san Pietro e dice: “Per tua grazia mi è stata data da Dio la potestà di legare e sciogliere in cielo e in terra. Basandomi su questa certezza (...), in nome di Dio onnipotente, (...) io tolgo a te Enrico (...) il potere su tutta Italia e Germania, e sciolgo tutti i Cristiani dal vincolo di giuramento (...), e proibisco che alcuno lo serva come un re. (...) Agendo in tua vece io lo scomunico (...), perché le genti sappiano e vedano che Tu sei Pietro e su questa pietra il Figlio di Dio edificò la sua Chiesa (...)”.

Nel 1080, la sentenza pontificia diventa definitiva; il testo afferma chiaramente che l’autorità spirituale del Papa implica un vero potere nell’ordine temporale: «Gli tolgo ogni potere e dignità regale. Che tutti capiscano che, se “potete sciogliere e legare in cielo” a maggior ragione, potete togliere o concedere, sulla terra, i poteri, i regni, gli imperi, in base ai meriti» (1).

D’altronde questa dottrina era già stata formulata da Gregorio VII, cinque anni prima nel Dictatus Papae, nelle proposizioni 12 e 27: “Il Papa può deporre l’imperatore” e “può sciogliere i sudditi dall’obbedienza ai Prìncipi iniqui”. Tale tesi “lungi dall’esser nuova (...) è la conclusione normale dei princìpi cristiani tradizionali, Gregorio si richiama ai detti e fatti dei santi Padri. Le sue referenze sono soprattutto sant’Ambrogio, sant’Agostino, Gelasio I, Nicola I. (...) Si rifà innanzitutto a “Tu es Petrus” e alle conseguenze logiche che ne derivano per la sua giurisdizione spirituale: nessuno fa eccezione e niente è sottratto alla sua giurisdizione. Anzi argomenta a fortiori: “Se la Sede apostolica... giudica le cose spirituali, perché non potrebbe giudicare anche le temporali? Chi può dubitare che i sacerdoti di Cristo siano da reputarsi come padri e maestri dei re, dei Prìncipi e di tutti i fedeli? Se l’esorcista comanda i diavoli, a più forte ragione il Papa è giudice dei peccati dei re!” (Prima lettera a Ermanno vescovo di Metz)” (2).

Il Papa ricorda gli stessi princìpi a Sancho d’Aragona, asserendo che Pietro è stato costituito da Cristo Prìncipe su tutti i regni della terra (3).

Nella seconda lettera al vescovo di Metz (15 marzo 1081) san Gregorio espone “tutta una teologia sui rapporti tra Stato e Chiesa”(4). Il potere delle chiavi, date da Cristo a Pietro, sta alla base di tutta la teoria e la pratica gregoriana; il potere temporale e quello spirituale stanno tra loro come la luna al sole. «Il beatissimo Apostolo Paolo disse: “Non sapete che noi giudicheremo gli Angeli? Quanto più le cose del secolo?” (...) A chi si possono meglio paragonare coloro che vogliono piegare alle loro forme i sacerdoti di Dio, se non a colui che è il primo di tutti i figli della superbia? Colui che tentando lo stesso Cristo sommo Pontefice (...), e promettendogli tutti i regni del mondo, disse: “Tutto questo sarà tuo, se scenderai e mi adorerai”? (...) L’oro è tanto più prezioso del piombo, quanto la dignità sacerdotale è più nobile della dignità règia (...) Nulla si trova nel mondo di più degno dei sacerdoti, di più sublime dei vescovi(...)».

I fratelli Robert e Alexander Carlyle scrivono che Gregorio VII spera che “sacerdozio e impero possano essere uniti nella concordia, e che, come il corpo umano è guidato dai suoi due occhi, così il corpo della Chiesa possa essere guidato e illuminato quando i due poteri concordano nella vera religione... e ammonisce Enrico IV a ricordare che egli detiene legittimamente il potere regio se obbedisce al Re dei re, Cristo, e difende e rafforza la Chiesa (...)”.

L’autorità secolare - secondo Gregorio - “trova il suo vero fondamento nella difesa e nel mantenimento della giustizia, ed egli spera che vi possa essere una vera concordia e intesa tra sacerdozio e impero, cioè tra le due autorità stabilite da Dio per governare il mondo” (5).


UGO DI S. VITTORE (1096-1141): per lui la creazione è una, Dio creatore è uno e “se esistono due poteri, due funzioni, il dualismo è solo apparente” (6). I due poteri si compongono e si unificano nell’unità di Dio e della sua Chiesa, per cui la società umana è la Cristianità e la Cristianità è la Chiesa. Ogni potere dipende da un unico potere, quello divino. Quindi, il potere secolare ha una sola fonte: la Chiesa.

È il clero, ossia il potere spirituale, che pone in essere il potere temporale, dietro ordine di Dio; è il potere spirituale che istituisce quello temporale e (...), lo consacra e lo benedice, insomma gli conferisce legittimità (...). Proposizione di significato inequivocabile che pur lasciando intatta la distinzione tra gli uffici (...) afferma la dipendenza originaria (del potere temporale) e la superiorità di giurisdizione (del potere spirituale)” (7).


GIOVANNI DI SALISBURY (+1180): scrisse il Policraticus, tra il 1155 e il 1159, esso tratta dei rapporti tra potere spirituale e temporale.

“Giovanni è un sostenitore di posizioni ecclesiastiche molto avanzate; egli non solo condanna qualsiasi invadenza del potere temporale nella sfera della Chiesa, ma sostiene apertamente la superiorità del potere spirituale nei confronti di quello temporale. Tutte le leggi dei Prìncipi sono vane e nulle, se non sono in armonia con la Legge divina e con gli insegnamenti della Chiesa” (8).

Giovanni si serve dell’immagine delle due spade, molto probabilmente ispirandosi a san Bernardo, e scrive che “il Prìncipe ha avuto la spada materiale dalla Chiesa, alla quale appartengono entrambe le spade, sebbene essa si serva di quella materiale tramite il Prìncipe; questi è pertanto il ministro del sacerdozio e compie quella parte meno alta delle sacre funzioni che non è degna di essere svolta dal sacerdote (Policraticus, IV, 3)” (9).


S. BERNARDO DI CHIARAVALLE (+1173): è la figura che domina il secolo, la sua teoria è quella delle due spade, presa dal Vangelo dove Gesù risponde agli Apostoli, che gli avevano detto: “Abbiamo due spade”, risponde: “Bastano”. Per S. Bernardo vi sono, perciò, due spade, simbolo dei due poteri, quello spirituale e quello temporale. Le due spade le posseggono gli Apostoli, e Pietro che è il loro capo e il capo della Chiesa. Ma, la spada temporale non deve essere utilizzata direttamente da Pietro e dalla Chiesa. È di Pietro e della Chiesa, ogni volta che il potere temporale dovrà sguainarla, lo potrà fare solo dietro ordine di Pietro e della Chiesa. Essa deve essere sguainata per Pietro e per la Chiesa, ma non da Pietro e dalla Chiesa: “Rimetti la tua spada nel tuo fodero”, dirà Gesù a Pietro che ha usato direttamente la spada, tagliando un orecchio a un servo che era venuto ad arrestarlo.

S. Bernardo, scrive a papa Eugenio III, suo figlio spirituale: “La spada temporale deve essere sguainata per la Chiesa, mentre quella spirituale dalla Chiesa. Una è in mano del sacerdote, l’altra in mano del soldato, ma deve essere usata al cenno del sacerdote ”.

S. Bernardo formula chiaramente la teoria della plenitudo potestatis della Chiesa romana, fondata su Pietro. Egli non cancella la distinzione pratica dei compiti del potere temporale da quelli del potere spirituale, ma subordina chiarissimamente il temporale allo spirituale e fa capire che il potere temporale è posseduto dalla Chiesa ma non utilizzato direttamente da essa, che lo lascia ai Prìncipi, i quali dovranno utilizzarlo ad nutum sacerdotis.


Papa INNOCENZO III (1198-1216): ritiene che come Vicario di Cristo egli ha ereditato tutti i poteri di Gesù ed è diventato il rappresentante supremo di Dio in terra, superiore al re ed agli imperatori. Egli è il plenipotenziario di Dio, per volere del quale regnano i re e i Prìncipi governano, e concede i regni a chi gli sembra opportuno (Per me reges regnant).

Innocenzo III “non si limitò a definirsi successore e vicario di Pietro, ma si presentò come il vicario di Cristo e lo fece con tale costanza, che il nuovo titolo divenne ufficiale. La concezione del vicariato di Cristo divenne per lui un’idea centrale (...) essa gli dava l’autorità universale di una posizione tra Dio e l’uomo, tra Dio e sopra l’uomo, più piccolo di Dio e più grande dell’uomo, giudice sopra tutti e non giudicabile da nessuno, a eccezione di Dio”(10).

Innocenzo III rivendica per sé la plenitudo potestatis che Cesare non ha, comprendente nel suo “ambito non solo la Chiesa universale, ma tutta la realtà temporale” (11). Inoltre, il potere regale deriva dall’autorità pontificia tutto il suo splendore e la sua dignità: “Così come la luna riceve dal sole la sua luce... e il potere del clero è stato dato perché abbia valore in terra e in cielo e riguardi quanto i corpi tanto le anime ” (12).

Lotario di Segni riconosceva l’autonomia pratica (che è ben distinta dall’indipendenza) del temporale dallo spirituale “ma, riservava pur sempre al Papato un diritto preminente, che era inerente e connaturato a quel vicariato di Cristo (...). Orbene Cristo (...), in quanto è Dio, è sovrano dei corpi e delle anime, egli è il sacerdote e il re supremo ed ha una regalità spirituale e temporale; dunque ce l’ha anche il Papa” (13). Questo diritto il Papa pur possedendolo non vuole esercitarlo abitualmente, ma solo in certi casi eccezionali, quando lo impone una causa urgente e grave, ad esempio ratione peccati.

Secondo il D. Th. C. il pontificato di Innocenzo III rappresenta il compimento definitivo della dottrina del potere diretto in temporalibus, posseduto dal Papa ma non esercitato abitualmente. Egli asserisce che il re “riceve da Dio l’uso della spada temporale” (14). E il 16 febbraio 1209 dichiara all’imperatore Ottone IV: “Noi possediamo l’autorità papale e il potere regale, entrambi nella loro pienezza”(15).

Secondo Ehler e Morrall il “pontificato di Innocenzo III è considerato (...) per molte ragioni il periodo della maggior grandezza medioevale del Papato. Egli (...) era un eminente teologo e giurista: sotto il suo pontificato furono promulgati un gran numero di decreti papali, con i quali la plenitudo potestatis Papae - termine che Innocenzo III contribuì fortemente a divulgare - fu definita nei suoi vari aspetti. Di queste decretales, quattro sono particolarmente importanti:

1) Per venerabilem, il Papa afferma l’autorità della S. Sede nelle materie che si riferiscono tanto al Diritto Canonico quanto a quello Civile. 2) Novit Ille, è asserita la facoltà del Papa di intervenire negli affari di politica internazionale ratione peccati. 3) Venerabilem fratrem, vengono definiti i diritti del Papa nei riguardi della corona di Germania (...). 4) Sicut universitatis, il Pontefice esprime il suo giudizio sulle relazioni tra potere spirituale e quello imperiale” (16).

Mi sembra opportuno citare alcuni passaggi, particolarmente importanti e significativi, di questi decreti:

1)  Novit Ille (1204)

«Che Noi possiamo e anzi dobbiamo costringere, appare chiaro dalle parole che il Signore disse al Profeta (...): “Ecco, Io ti ho posto oggi sopra le nazioni e i regni, per estirpare e per sradicare, per devastare e distruggere, per innalzare e costruire”. Invero è ovvio che deve essere estirpato (...) ogni peccato mortale. Inoltre quando il Signore consegnò a san Pietro le chiavi del Regno dei cieli, gli disse: “Qualunque cosa tu legherai in terra, sarà legata anche in cielo e qualunque cosa scioglierai in terra sarà sciolta anche in cielo”. Nessuno può dubitare che chi commette peccati mortali sia legato presso Dio. Perciò, dovendo san Pietro imitare la giustizia divina, egli deve legare sulla terra quelli che si sa che son legati in cielo. Qualcuno potrebbe obiettare che i re devono essere trattati in modo differente dagli altri mortali? Ma noi sappiamo che nella legge divina sta scritto: “Ascolterai il piccolo come il grande; non avrai considerazione per nessuno”».


2)  Venerabilem fratrem (1202)

“I Prìncipi devono riconoscere (...) che il diritto e l’autorità di giudicare la persona eletta come re - e che deve essere innalzato alla dignità d’Imperatore - spetta a Noi che lo ungiamo, lo consacriamo e lo incoroniamo. Infatti, è regola generale che l’esame della persona tocchi di diritto a colui cui spetta l’imposizione delle mani. Quindi, se i Prìncipi eleggessero re un sacrilego o uno scomunicato, un tiranno o un idiota, un eretico o un pagano, noi dovremmo ungere, consacrare e incoronare un tale uomo? Certamente, no!”.


3)  Sicut universitatis cònditor (1198)

“Come Dio (...) ha creato due grandi luci nel firmamento, la più grande per presiedere al giorno e la più piccola per presiedere alla notte, così Egli ha stabilito nel firmamento della Chiesa universale, espressa dal nome di cielo, due grandi dignità: la maggiore a presiedere ai giorni cioè alle anime, e la minore a presiedere alle notti cioè ai corpi. Esse sono l’autorità pontificia e il potere regio. Così come la luna riceve la sua luce dal sole e per tal ragione è inferiore a lui per quantità e qualità, dimensione ed effetti, similmente il potere regio deriva dall’autorità papale lo splendore della propria dignità”.

Giuseppe Corradi scrive che Innocenzo III “sistematizzò la dottrina del dominio universale del Papato in materia spirituale e temporale, attuandone l’esecuzione pratica. In quanto Vicario di Cristo, Rex règum et Dominus dominàntium, il Papa rappresenta la massima autorità terrena; la Chiesa, cui spetta ogni potere nella direzione delle anime, deve essere superiore all’impero; ed al Pontificato romano spetta il diritto d’intervento in qualsiasi questione temporale e politica. I sovrani temporali non erano che vassalli del Pontefice che si riservava il potere sia di eleggerli che di deporli (...). Questi scopi, essenzialmente religiosi, costituirono i moventi di tutta la sua politica volta ad attuare il principio che sta alla base della concezione cristiana del Medioevo: la subordinazione degli interessi della città del secolo a quelli della città di Dio” (17).

Per concludere, cito un eminente studioso, il professor Oscar Nuccio che in un’opera poderosa di oltre cinquemila pagine (Il pensiero economico italiano) ha trattato, con maestria e competenza, anche il tema che ci riguarda. L’Autore insegna che dall’età di san Gregorio VII il sacerdozio elaborò una dottrina del potere pontificio che si rifaceva a san Leone Magno e fu completata da Innocenzo III. Per Innocenzo il Papa è non solo vicario di Pietro, ma anche di Cristo e di Dio; egli è inferiore a Dio, ma ne partecipa il potere, ed è superiore all’uomo. Siccome è vicario di Cristo, e le veci di Cristo sono di natura giuridica, il governo su di esse fondato si estende a tutto il mondo che è così affidato al governo spirituale e temporale del Papa. La plenitudo potestatis assume con Innocenzo III o Lotario di Segni una dimensione non solo ecclesiologica ma anche politica. La formula ratione peccati consente a Innocenzo di aprirsi un varco dal quale far passare il potere sacerdotale su tutte le materie nelle quali è possibile peccare; ora siccome atti umani neutri non esistono, in quanto le circostanze li rendono buoni o cattivi moralmente (per es. cammino per rubare o per dire il rosario), il potere sacerdotale si estende alla totalità delle questioni temporali. Nel Papa si ritrovano concentrate le due potestà supreme, spirituale e temporale e la potestas gladii dell’imperatore deriva da una concessione fattagli dal Papa nell’atto dell’incoronazione. Tale principio, secondo Oscar Nuccio, fu riformulato da san Tommaso nella Summa contra Gentiles (IV, q.76) e ribadito da Giacomo da Viterbo nel De regimine christiano (1301). Coloro che negano al Papa la doppia diretta potestà in spiritualibus et in temporalibus, sono come coloro i quali affermano “I Papi sono gli Dei delle montagne, ossia delle cose spirituali; ma non Dei delle valli, poiché non hanno nessun potere sui beni temporali”. Per Innocenzo il Papa ha potere nei monti e nelle valli ossia in spiritualibus et in temporalibus, per cui la giurisdizione del Papa, conclude il Nuccio, è la più perfetta di tutte, e perciò non ha senso distinguere tra potere indiretto in temporalibus e diretto in spiritualibus (18).

Si veda anche l’epistola di Innocenzo al Patriarca di Costantinopoli (1159): “Dominus, Petro non solum universam Ecclesiam, sed totum reliquit saeculum gubernandum” (19).

Il XIII secolo vedrà la fioritura del pensiero di Innocenzo III, la teoria del potere diretto della Chiesa anche in temporalibus, ma non esercitato in atto si affermerà vieppiù.


Papa INNOCENZO IV (1243-1254): è interessante il suo decreto Aeger cui levia o lenia (1245), nel quale “con un’ampiezza e un vigore che non saranno mai sorpassati, (...) rivendica sulla terra una delega generale di Dio, il Re dei re, con la pienezza del potere di legare e sciogliere (...) anche l’imperatore” (20).

Alcuni autori (Giovanni Battista Lo Grasso S. J.) (21) dicono che è disputato se essa sia di Innocenzo IV o di un suo discepolo; altri (Agostino Paravicini Bagliani e la maggior parte degli storici contemporanei), affermano che essa è certamente di Innocenzo IV, anche se “alcuni si chiedono se l’autore non debba essere ricercato in seno al collegio dei cappellani del card. Raniero Capocci da Viterbo” (22), ma tale opinione non è, oggi, la più comune e il documento è oramai ritenuto pacificamente di Innocenzo IV.

Augustin Fliche e Victor Martin, ad esempio, nella loro famosa e monumentale Storia della Chiesa, sostengono che «Innocenzo IV, la cui bolla Aeger cui levia del 1245, annunciava le affermazioni del 1302 [di Bonifacio VIIII, Unam Sanctam] (23), e che Innocenzo IV “dottissimo e già studente e maestro nell’Università di Bologna” era ritenuto un canonista eminente e un diplomatico abilissimo (...). Egli non solo condivide col suo predecessore [Innocenzo III] le idee sulla “onnipotenza” romana, ma va oltre e con lui..., il principio teocratico si afferma con la massima chiarezza ... Innocenzo IV si ritiene investito, a somiglianza di Cristo, della spada temporale, il cui uso affida all’imperatore e ai re, riservando solo a sé l’uso della spada spirituale. Basta leggere la bolla Aeger cui levia, con cui risponde agli attacchi di Federico II che seguirono il Concilio di Lione del 1245, per rendersi conto che le rivendicazioni della S. Sede mai erano state affermate in modo così categorico. (...). La morte di Federico II corona la vittoria del Papato e sottolinea il crollo degli Hohenstaufen; il cesaropapismo imperiale non conoscerà più che resurrezioni effimere. Il Concilio di Lione fu una prova luminosa dell’unità della Chiesa, raccolta attorno alla S. Sede, e una chiara affermazione della potestà pontificia, cioè della plenitudo potestatis. Secondo Innocenzo III, il Papa non poteva incoronare imperatore se non quello designato dai Prìncipi elettori, e perciò la sua scelta aveva dei limiti; ma dopo la vittoria della Sede Apostolica [con Innocenzo IV] su Federico II ogni restrizione scompare, almeno dal punto di vista giuridico: mai per l’innanzi l’autorità di Roma aveva raggiunto un tale vertice” (24). È chiaro che anche per loro la bolla Aeger cui levia appartiene formalmente a Innocenzo IV.

Silvio Solero aggiunge che Federico II “aveva pubblicato il famoso manifesto ai Prìncipi cristiani in cui denunciava i vizi, la cupidigia e la corruzione dei prelati. Innocenzo IV rispondeva con la bolla Aeger cui levia contenente la formula della teocrazia papale, affermando il primato pontificio come voluto da Cristo che aveva conferito a Pietro e ai suoi successori l’impero universale del cielo e della terra” (25).

 Vediamo il contenuto del documento pontificio:

«Sulla terra rappresentiamo il Re dei re, da cui si sa non è escluso alcun uomo (...). Dio attribuì al Prìncipe degli Apostoli, e a noi, attraverso lui, pieno potere di legare e di sciogliere qualunque cosa sulla terra (...). [Cristo conferì a Pietro] potere non solo sulle genti, ma anche sopra i regni (...). Ne segue dunque che il Romano Pontefice, può, almeno casualiter [non abitualmente, ma eccezionalmente] esercitare il suo potere pontificale nei riguardi di qualsiasi cristiano specialmente ratione peccati così che stabilisca che qualunque peccatore sia considerato pubblicano ed eretico e che, di conseguenza sia privato del potere temporale se ne aveva uno (...). Dunque, esaminano con poco acume, coloro i quali affermano che la Sede apostolica ha avuto la prima volta il potere dall’imperatore Costantino, mentre si sa che questo potere era in lei prima, naturalmente e in potenza. Infatti, Gesù Cristo vero re e sacerdote stabilì, nella Sede apostolica, non solo un monarcato pontificale, ma anche uno regale, avendo affidato al beato Pietro e ai suoi successori, le redini sia del potere celeste che di quello terrestre. Questo fatto è reso evidente nella pluralità delle chiavi, perché si capisca che per mezzo dell’una, abbiamo ricevuto il potere per le cose temporali sulla terra, e per mezzo dell’altra il potere delle cose spirituali in cielo. Nel grembo della Chiesa sono poste ambo le spade di ambedue i poteri. Entrambi le appartengono di diritto, dal momento in cui il Signore non disse a Pietro: “Getta la spada”, ma: “Rimetti la tua spada nel tuo fodero”, perché non fosse usata da lui stesso [ma per lui, ad nutum sacerdotis]. Quindi, Pietro, per ordine divino, non aveva il permesso di usare direttamente la spada, tuttavia aveva l’autorità di ordinarne l’uso [da parte del Prìncipe in difesa del sacerdote]. Da ciò deriva che il potere di questa spada è nella Chiesa, ma è esercitato dall’imperatore che lo riceve da lei. Questo potere, che si trova nel grembo della Chiesa, è soltanto potenziale e passa all’atto quando viene trasferito dal sacerdote al Prìncipe” (Aeger cui levia, in LO GRASSO S.J., Ecclesia et Status. Fontes selecti. Historiae Juris Publici Ecclesiastici, 2ª ed., Roma, Gregoriana, 1952, n° 446-455, pagg. 194-198).

Innocenzo III “usò sempre la massima cautela e si astenne dal trarre conclusioni estreme. A trarle fu invece Innocenzo IV e a lui si devono far risalire i princìpi, che i grandi canonisti del XIII secolo, come l’Ostiense e Guglielmo Durando dovevano esporre. Innocenzo IV afferma che il Papa ha ricevuto da Cristo in persona il potere di redigere i canoni, mentre l’imperatore, la propria autorità di legislatore, la riceve dal popolo romano; inoltre, come Cristo, quando era in questa terra, era da tutta l’eternità Signore naturale del mondo, e per legge naturale in grado di deporre re e imperatori, così i suoi vicari - e cioè Pietro e i suoi successori - avevano il medesimo potere. Innocenzo IV vuol giungere alla conclusione che, anche nelle questioni temporali la sua autorità è superiore a quella di tutti gli altri poteri secolari. Tra Papa e imperatore esiste un rapporto speciale; il secondo è advocatus del primo, presta a lui il giuramento, riceve l’impero dalle sue mani. Innocenzo IV sembra voler suggerire implicitamente che l’imperatore è vassallo del Papa. Egli inoltre sostenne che questi aveva il diritto di respingere un candidato non adatto al trono imperiale; ed infine proclama senza esitare che l’imperatore gli era debitore del trono imperiale. Pertanto non ci pare azzardato concludere che, per Innocenzo IV, ambedue i poteri, spirituale e temporale, in via di principio gli appartenevano” (26), anche se esercitava solo il primo lasciando il secondo al Principe.


S. TOMMASO D’AQUINO (+1274)
: riprende e approfondisce la dottrina tramandatagli dal corso della storia. Egli scrive: “La Chiesa ha soltanto la spada spirituale, quanto all’esecuzione da esercitarsi direttamente dalla sua mano. Ma ha anche la spada temporale, quanto al comando di impiegarla: poiché al suo cenno deve essere estratta, come dice Bernardo” (27). E continua: “Nelle cose che riguardano il bene civile, bisogna obbedire piuttosto al potere secolare che allo spirituale a meno che il potere spirituale sia unito al potere secolare come nella Chiesa o nel Papa, in virtù di una disposizione di Dio che è prete e re” (28).

Alcuni autori hanno cercato di interpretare questo verso come se fosse riferito unicamente allo Stato pontificio, nel quale solamente il Papa è sacerdote e re in atto.

Tuttavia, mi sembra che questa interpretazione sia forzata, poiché se san Tommaso avesse parlato di un caso specifico, appunto quello dello Stato pontificio, lo avrebbe detto; invece parla in generale di cose che riguardano il bene civile, e dice che nel caso si tratti del potere della Chiesa o del Papa, che per volontà divina è sacerdote e re, allora bisogna obbedire al potere spirituale, che racchiude in sé anche quello temporale, altrimenti occorre obbedire al potere civile. La maggior parte degli interpreti, vede nel passaggio dell’Aquinate l’affermazione del potere diretto del Papa in spiritualibus et in temporalibus anche se esercitato solo nelle materie spirituali.

Nelle Quaestiones quodlibetales, l’Angelico sostiene che i re sono vassalli della Chiesa ( 29); inoltre “il Papa detiene l’autorità suprema sia nelle questioni spirituali che in quelle temporali (Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, II, dist.44, q. 2, a. 3)” (30).

Nella Somma Teologica l’Angelico si pone la questione se il potere temporale sia sottomesso allo spirituale, come il corpo all’anima, e risponde di sì (31).

Inoltre, la situazione - con l’avvento del Cristianesimo e la fine del paganesimo - è talmente cambiata, che Cristo regna sulla coscienza dei Prìncipi: “In isto tempore reges sunt vassalli Ecclesiae ” (32).

Secondo la filosofia politica dell’Angelico l’uomo ha un solo fine ultimo, che è soprannaturale (la Visione beatifica), il benessere temporale è soltanto un fine prossimo, pertanto l’autorità temporale deve essere sottomessa alla spirituale, come il fine prossimo è ordinato e sottomesso a quello ultimo.

Etienne Gilson scrive: “La morale di san Tommaso ha scopi più alti che adattare l’uomo al bene comune della città: essi gli sono imposti dalla metafisica stessa da cui la morale riceve i suoi princìpi: l’uomo di Aristotele non era una creatura, lo è invece l’uomo di san Tommaso” (33). Bisogna osservare che l’Aquinate “è ben lungi dal relegare a quello che spetta al Papa ratione peccati il legittimo intervento pontificio nella sfera temporale. Attribuendo al Capo della Chiesa la cura del fine ultimo gli riconosce per via di eminenza e in ragione della sua autorità spirituale suprema, un’autorità temporale sui Prìncipi della terra che, di fatto, si estende a tutta l’azione degli stessi Prìncipi, purché venga ad avere rapporto con il fine ultimo. Spetta perciò al Papa e solo a lui giudicare quello che deve dire o non dire in funzione della sua carica sovrannaturale, quando, come, fino a che punto ci sia bisogno di un intervento nella sfera temporale” (34).

L’Angelico distingue ordine naturale e soprannaturale, Stato e Chiesa. Non li separa, non li confonde ma subordina la natura al soprannaturale, lo Stato alla Chiesa. «Il potere temporale è soggetto a quello spirituale come il corpo all’anima» (De regimine principum, l.1, c.10; cfr. R. Spiazzi O. P., Enciclopedia del pensiero sociale cristiano, ESD, Bologna, 1992, pp. 188-194, 212-215).


Papa BONIFACIO VIII (1294-1303): con lui, la teoria della plenitudo potestatis tocca il suo apogeo. Egli “incarnava, in un temperamento focoso, le dottrine più intransigenti sulla supremazia pontificale. Gran canonista... non sorpassò nessuna delle formule di Innocenzo IV. Bonifacio rivendica una giurisdizione suprema nel dominio spirituale e temporale, distingue tra possesso e esercizio. Egli distingue i due poteri ma ne rivendica il possesso e lo separa dall’esercizio abituale” (35).

La Bolla Unam sanctam (1302) riguarda la pienezza del potere papale. In essa il Pontefice «espresse le tesi estreme della dottrina teocratica sull’impero. Nella primavera del 1303 ripeteva ad Alberto d’Austria: “Omnes potestates sunt a Christo et a nobis, tamquam a vicario Jesu Christi”» (36).

Nell’Unam Sanctam, Bonifacio dice che “ogni potere, sia quello spirituale che temporale, ha la sua origine da Dio e che è stato conferito da Dio alla Chiesa; essa lascia l’esercizio del potere secolare ai Prìncipi, ma conserva il diritto di effettuare il proprio controllo su di loro, la Bolla è un sommario poderoso del pensiero della Chiesa al culmine del periodo medievale” (37).

Massimo Montanari scrive che nell’Unam Sanctam “Bonifacio propugnava solennemente una teoria integrista della società cristiana, intesa come unico corpo di cui Cristo è Capo e il Pontefice il Vicario. Al Pontefice spettano dunque entrambe le spade, la temporale e la spirituale; egli ha il primato sui regnanti della terra ed ha la potestà di intervenire su tutto e su tutti. L’idea teocratica, che si era formata nei secoli precedenti, mediante le posizioni via via assunte da Gregorio VII e Innocenzo III, era portata da Bonifacio VIII alle estreme conseguenze e giungeva alla pienezza della sua formulazione dottrinale” (38).

Ma vediamo il contenuto della Bolla stessa: «Noi siamo costretti a credere e a professare che ci sia una sola S. Chiesa cattolica e apostolica che rappresenta un corpo mistico, il cui capo è Cristo. Noi sappiamo dal Vangelo che in questa Chiesa e nel suo potere ci sono due spade, una spirituale e una temporale. Chi nega che la spada temporale appartenga a Pietro, ha malamente interpretato le parole del Signore, quando dice: “Rimetti la tua spada nel tuo fodero”. Quindi ambedue sono in potere della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale. Una deve essere impugnata dalla Chiesa, l’altra per la Chiesa; la prima dal clero, la seconda dalla mano dei re, ma secondo il comando e il cenno del sacerdote, perché è necessario che una spada dipenda dall’altra e che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale. Perciò se il potere terreno erra, sarà giudicato da quello spirituale; se il potere spirituale inferiore sbaglia, sarà giudicato dal superiore; ma se erra il supremo potere spirituale questo potrà essere giudicato solamente da Dio e non dagli uomini (prima Sedes a nèmine judicètur). Perciò chi si oppone a questo potere istituito da Dio, si oppone ai comandi di Dio, a meno che non pretenda, come i Manichei, che ci sono due princìpi. Quindi dichiariamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana che sia sottomessa al romano Pontefice”.

Secondo i fratelli Carlyle “Bonifacio proclama [Ausculta fili] che Dio l’ha collocato al di sopra di tutti i re e di tutti i regni, dotandolo del potere di distruggere e di costruire (...) [mentre Filippo il Bello] pretendeva che i re francesi, nelle questioni temporali, erano sempre stati soggetti soltanto a Dio; [per il Papa] de jure, la giurisdizione temporale è di competenza del Sommo Pontefice, vicario di Cristo, ma non per ciò che riguarda l’esercizio di essa” (39).


CONCLUSIONE

il “potere indiretto” praticamente coincide con il “potere diretto”

Tornando al libro di padre Cappello; ebbene, se lo si studia spassionatamente, esso mostra chiaramente come in pratica, i poteri del Papa, nella teoria del potere indiretto in temporalibus sono gli stessi contemplati dalla plenitudo potestatis Ecclesiae.

Purtroppo, padre Cappello presenta in maniera eccessivamente riduttiva la tesi del potere diretto anche in temporalibus, ma questa è stata un’attitudine comune in campo cattolico durante la Controriforma e la Neoscolastica e non propria di padre Felice. Questo mi sembra essere l’unico “neo” del suo magnifico libro.

Tuttavia, la differenza tra le due dottrine è solo relativa quanto al modo di porgere l’insegnamento all’uomo della Controriforma, poiché la Chiesa doveva tener conto dell’avvenuta Rivoluzione rinascimentale e protestante; invece non vi è alcuna diversità quanto alla sostanza della dottrina. Perciò, nel predicare la sua dottrina, essa doveva attenuare l’intensità delle sue affermazioni - che avrebbero urtato la mentalità dell’uomo del Cinquecento -senza annacquare sostanzialmente la sua dottrina.

La Chiesa, dunque, non aveva cambiato la sostanza della sua dottrina, ma soltanto l’intensità, il modo o il grado di asserirla, in circostanze diverse; per esempio, come quando si fa un corso di teologia a un bambino della prima comunione (l’uomo del Cinquecento), porgendo lui le domande e risposte del Catechismo minore di San Pio X oppure a un seminarista che studia all’Università Gregoriana (l’uomo del medioevo). 

Studiando le due tesi del potere indiretto in temporalibus o anche diretto ma non esercitato ci si rende conto della loro identità sostanziale quanto alla pratica, con un diverso modo di enunciazione, che insiste piuttosto a) sulla non esercitazione di esso in pratica pur essendo praticabile in teoria o b) sulla non praticabilità per motivi di convenienza, la storia avendo imboccato la strada del progressivo allontanamento dalla Cristianità medievale.

Per fare qualche esempio, padre Felice Maria Cappello, dimostra che l’estensione del potere indiretto si dirige a tutte le cose che hanno relazione alla salus animarum; se nelle questioni temporali si trova qualcosa che ha rapporto con lo spirituale, sempre e necessariamente entra in gioco la giurisdizione della Chiesa. Inoltre, il potere indiretto è una vera e propria giurisdizione, con il triplice potere: legislativo, giudiziario ed esecutivo. Il Papa può correggere, abrogare, cambiare le leggi civili, anche in virtù del potere indiretto. Può sciogliere i sudditi dal vincolo di obbedienza al Prìncipe malvagio. Può deporre i Prìncipi cattivi, “il Papa può abrogare, correggere e mutare, per il suo potere indiretto nelle cose temporali, le leggi civili; può fare egli stesso delle leggi civili, se il Prìncipe non ne fa di buone e si rifiuta di farle, ammonito dalla Chiesa; se lo Stato non pronunzia giudizi civili retti, la Chiesa può sollecitarlo a emetterli, se lo Stato non ottempera alla richiesta della Chiesa, essa può riformare le sentenze, annullare i giudizi e pronunciarli; il Papa può sciogliere i sudditi dall’obbedienza al Prìncipe; può deporre i Prìncipi, a causa dei loro scandali o perché sono perniciosi alla salvezza delle anime” (40).

Inoltre, per fare un altro esempio, anche il cardinale Alfredo Ottaviani specifica che “la legislazione civile deve essere formata di modo da non contraddire la legislazione canonica; in caso di conflitto tra legge civile ed ecclesiastica, è quest’ultima che prevale; lo Stato è obbligato ad aiutare la Chiesa, e quindi deve mettere a sua disposizione i mezzi temporali, sino all’ausilio della forza armata o del braccio secolare; infine, la protezione dello Stato non comporta nessuna giurisdizione sulla Chiesa. […]. La Chiesa è superiore allo Stato, per la superiorità del suo fine. Infatti, i fini delle società specificano il loro grado e valore, di modo che la società, che persegue il fine supremo e ultimo, è la più nobile, non essendo ordinata a nessun altro fine, e questa è la Chiesa, il cui fine è nobilissimo e supremo, la felicità eterna. Così la Chiesa è tanto superiore allo Stato, come il cielo alla terra ” (41).

Anche qui si evince che la differenza tra le due tesi consiste soprattutto nel modo di esporle; mentre quanto alle loro conseguenze pratiche, esse sono pressoché identiche.


NOTE

1 -  P. L. , t. CXLVIII, col. 818
2 -  D. Th. C., vol. 23, col. 2715.
3 - P. L., ibidem, col. 790.
4 -  J. J. CHEVALIER, Storia del pensiero politico, vol. I, Antichità e Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1989, pag. 270.
5 - ROBERT W. & ALEXANDER J. CARLYLE, Il pensiero politico medievale, Laterza, Bari, 1959, 1ª parte del II vol., pagg. 111 e 113.
6 - J. J. CHEVALIER, op. cit., pag. 272.
7 - Ivi
8 - ROBERT W. & ALEXANDER J. CARLYLE, op. cit., 2ª parte del II vol., pagg. 540-541 e 543.
9 - Ibidem, p. 543.
10 -  M. GRESCHAT - E. GUERRIERO (a cura di), Il grande libro dei Papi, San Paolo, Milano, 3ª ed. 2000, I vol., pag. 258.
11 - J. J. CHEVALIER, op. cit., pag. 275.
12 - Ibidem, pag. 276.
13 - Ivi.
14 - Lettera al re d’Ungheria, P.L., t. CCXIV, col. 871.
15 - P.L., t. CCVI, col. 1162.
16 - SIDNEY Z. EHLER - JOHN B. MORRALL, Chiesa e Stato attraverso i secoli, Vita e Pensiero, Milano, 1958, pagg. 96-98.
17 -  AA. VV., I Papi e gli antipapi, TEA, Milano, 1993, pagg. 73-74.
18 -  Cfr. O. NUCCIO, Il pensiero economico italiano, Gallizzi, Sassari, 1984-1992, vol. I, tomo I, pagg. 821-834; vol. I, tomo II, pagg.1143-1178; 1187-1206; 1951-1962; 1963-1990; 1409-1540; 1493-1468; 1439-1468; 1697-1711. Cfr. R. SPIAZZI, Enciclopedia del pensiero sociale cristiano, ESD, Bologna, 1992, pp. 190-192.
19Potthast Regesta, n° 862. GIOVANNI XXII, nel 1317 scriveva: “Cui (Pontifici) in persona B. Petri, terreni simul et coelestis imperii jura, Deus ipse commisit” (Extravagantes Jo. XXII, tit. 5).
20 - D. Th. C., vol. 23, col. 2727.
21 - J. B. LO GRASSO S.J., Ecclesia et Status. Fontes selecti. Historiae Juris Publici Ecclesiastici, Gregoriana, Roma, 1952, pag. 194.
22 - A. PARAVICINI BAGLIANI, Enciclopedia dei Papi, vol II, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2000, pag. 390.
23 - A. FLICHE - V. MARTIN, Storia della Chiesa, Saie/San Paolo, Torino/Milano, 2ª ed. 1995, vol. XI, pag. 159. Cfr. anche M. C. DE MATTEIS, La Chiesa verso un modello teocratico da Gregorio VII a Bonifacio VIII, in «La Storia I, il Medioevo 1, i quadri generali», diretta da N. TRANFAGLIA - M. FIRPO, Utet, Torino, 1988, pagg. 425-452. L’autrice come pochi hanno saputo fare, mette molto bene in luce la figura e il pensiero di Innocenzo IV.
24 - A. FLICHE-V. MARTIN, Storia della Chiesa, op. cit., vol. X, pagg. 310-311 e 319-320.
25 - AA. VV., I Papi e gli antipapi, TEA, Milano, 1993, pag. 82.
26 - ROBERT W. & ALEXANDER J. CARLYLE, op. cit., III vol., pagg. 338-345.
27In IVum Sent. , dist. XXXVII.
28 - Ibid., ad IVum.
29 - Quaestiones quodlib., XII, a.19 “in isto tempore reges sunt vassalli Ecclesiae”.
30 - ROBERT W. & ALEXANDER J. CARLYLE, p. cit., III vol., pag. 373.
31 - S.T., II-II, q.40, a.6, ad 3um.
32 - Quodlibetales, XII, q. XII, a.19, ad 2um.
33 - E. GILSON, Le Thomisme. Introduction à la philosophie de Saint Thomas d’Aquin, Paris, 1965, 6ª ed., pag. 405.
34 - J.J. CHEVALIER, Storia del pensiero politico, vol. I, Antichità e Medioevo, op. cit. , pag. 297.
35 - D. Th. C., vol. 23, coll. 2736-2737.
36 - A. FLICHE - V. MARTIN, Storia della Chiesa, op. cit. ., XI vol., pagg. 151 e 169.
37 - SIDNEY Z. EHELER - JOHN B. MORRALL, op. cit., pag. 123.
38 - AA. VV., I Papi e gli antipapi, TEA, Milano, 1993, pag. 89.
39 - ROBERT W. & ALEXANDER J. CARLYLE, op. cit., III vol., pagg. 396-464, passim. Cfr. anche G. BOFFITTO - G. U. OXILIA, Un trattato inedito di Egidio Colonna. De ecclesiastica potestate, Libreria Internazionale, Firenze, 1908.
40 - Cfr. F. M. CAPPELLO S.J., Summa Juris Publici Ecclesiastici, op. cit., pagg. 190-201, passim (De extensione potestatis indirectae).
41 - A. OTTAVIANI, op. cit., pagg. 359-366 e pagg. 103-104.




maggio 2022