Qualcuno dovrà pur dirlo
di G. L. G.

A PROPOSITO DI DIRITTO CANONICO

Genera sconcerto nel semplice fedele scoprire, leggendo il "Calepino del Diritto Canonico", di non avere, all'intemo della struttura gerarchica ecclesiale, nessun diritto, se non quello di recipere quæ necessaria sint ad salutem æternam, cioè quello di "ricevere quelle cose che siano necessarie alla salvezza eterna". 

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Lo sconcerto cresce quando, proseguendo nella lettura del "Calepino", ci si rende conto che il riconoscimento e l'esercizio di questo unico diritto sono, all'atto pratico, per cosí dire vanificati, non essendo né specificate quali siano, a norma del codice stesso, quelle "cose necessarie alla salute eterna" , né previsto che il semplice fedele possa appellarsi quando, di queste "cose necessarie alla salvezza etema", alcune gli vengano tolte, altre gli vengano cambiate profondamente, altre ancora gli vengano imposte ex novo, incidendo pesantemente proprio sui mezzi per raggiungere la salvezza eterna a cui ha unico diritto. 
(Per chiarire ricorriamo ad un esempio profano. Il diritto al nutrimento può essere assicurato da una mensa aziendale sia con un piatto di lasagne che con una fondina di minestrina al brodo di dado, tuttavia le forze materiali che un corpo ne ricaverà non saranno le stesse. Il corpo ce ne informerà con una sensazione di benessere oppure, a seconda dei casi, con sonnolenza e pesantezza di stomaco, o con gambe deboli e giramenti di testa. Tali reazioni, anche quelle sgradevoli, sono proprie di un corpo in buona salute e si verificano indipendenternente dal fatto che i gestori della mensa gli riconoscano o no questo diritto di espressione, e indipendentemente dalle ragioni che hanno portato i gestori della mensa a imporre a tutti un menú piuttosto che un altro, sia a chi lavora col piccone che a chi lavora con la penna. In nessuno dei due casi si muore subito di indigestione o di fame, eppure non sembra che in ciò consista, sic et simpliciter, il diritto al nutrirnento. 
Non diversamente per le forze spirituali che un'anirna può ricavare da "una" cosa necessaria alla salvezza eterna piuttosto che da "un'altra" cosa necessaria alla salvezza eterna.) 
Lo sconcerto diventa infine costernazione quando, sollevando il pudico e prudente velame delle formulazioni giuridiche, il semplice fedele scopre che la norma canonica, già cosí avara, giunge a negargli perfino il diritto di vedersi applicata la norma canonica medesima! 
Questo, e non altro, all'atto pratico, vuol dire quanto leggiamo nel "Calepino", e cioé che: «…il canone 223, paragrafo 2, ricorda come “all'autorità ecclesiastica compete moderare in funzione del bene comune l'esercizio dei diritti proprii ai fedeli”: vale a dire che il riconoscimento e l'esercizio per i fedeli anche di quei diritti e, contestualmente, dei doveri che la Chiesa riconosce positivamente nel Codex Juris Canonicis… potrà esercitarsi solo dietro placet, (cioè a piacimento), delle legittime autorità…» 
(Ci dicono che, grosso modo, per esercitare l'avvocatura presso un tribunale ecclesiastico sia indispensabile il gradimento del tribunale ecclesiastico medesimo, che può concederlo o rifiutarlo, revocarlo o dispensarne, a suo unico arbitrio. Questa ulteriore facoltà discrezionale lede gravernente la "serenità psicologica" necessaria a un legale per svolgere senza compromessi il suo compito, specie quando debba assistere un cliente che abbia necessità di appellarsi contro decisioni della autorità ecclesiastica, proprio quella dalla cui benevolenza dipende, senza appello, la possibilità dell'avvocato di guadagnarsi il pane.) 
A nessuno sfugge che il richiamo a un "bene comune", (non definito nei particolari e, comunque, non solo spirituale ma anche terreno e materiale), congiunto al richiamo a una "facoltà di moderazione" dell'esercizio dei diritti, (facoltà per cui non sono previsti limiti che la "moderino" a sua volta), sostanzialmente equivalgono a dichiarare che ogni autorità ha potere assoluto e insindacabile nei confronti di tutte le autorità di grado inferiore, (fino al semplice fedele sotto il quale non sta nessuno), il che, ancora, equivale, praticamente, a un codice che dichiara se stesso senza autorevolezza intrinseca, e, quindi, superfluo! 
(A onor del vero, tuttavia, tale paradossale contraddizione interna scomparirebbe subito qualora fosse accertata la congettura che essa provenga semplicemente da una inesattezza terminologica e, (seguendo quanto già l'uso ha introdotto nel campo laico, in cui si parla di "Codice Civile" e di "Codice Penale"), si dicesse semplicernente "Codice Canonico", abolendo quella parola "Diritto" che, si sa, genera negli sprovveduti tante erronee, inutili, pericolose aspettative, atte a turbare l'ordinato mantenirnento del bene comune.) 
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