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Atti di fondazione e gesti di comunione

del R. P. Louis Marie de Bligniéres

Articolo apparso nel n° 68 della rivista trimestrale Sedes Sapientiæ, pubblicata dalla Société Saint-Thomas d’Aquin, 53340 Chémére Le Roi, Francia.

Il pellegrinaggio a Roma per il decimo anniversario del Motu Proprio Ecclesia Dei ha confermato la vitalità della corrente tradizionale in seno alla Chiesa. In quell’occasione, in maniera un po’ provocatoria, la stampa ha parlato di “sostegno di Roma ai traditi”. Il discorso del Santo Padre nell’udienza del 26 ottobre 1998, con il suo invito fraterno ai vescovi “ad avere una rinnovata comprensione ed attenzione pastorale per i fedeli legati al rito antico” (1), ha sorpreso coloro che pensavano che le disposizioni del Motu Proprio avessero un carattere eccezionale e provvisorio.
Noi cercheremo di far comprendere meglio una delle caratteristiche degli istituti che sono sotto l’égida dell’Ecclesia Dei: vivere la piena comunione ecclesiale nella fedeltà ai riti tradizionali, e manifestare questa comunione con dei segni coerenti con questa scelta fondamentale. Per far questo ci rifaremo alla natura degli atti fondatori di questi istituti: e dopo averli collocati nel loro contesto storico ed aver indicato le intenzioni specifiche che li hanno animati, sottolineeremo il loro carattere di giudizi prudenziali. In seguito, sulla base del carisma proprio di questi istituti, ci soffermeremo sui gesti di unità richiesti dal Santo Padre “a tutti i cattolici” perché “la legittima diversità e le differenti sensibilità, degne di rispetto, non li separino gli uni dagli altri” (2).

Contesto storico
a) La crisi della Chiesa
La realtà della “crisi della Chiesa”, che si intreccia con la crisi della modernità di cui è affetto il mondo del pensiero e la società civile, è ormai riconosciuta sempre piú diffusamente: crisi d’identità nei rapporti col mondo, nella trasmissione catechetica della fede, nello slancio missionario, nella specificità sacerdotale, nella vita religiosa, crisi, infine, delle vocazioni e crisi della liturgia. La presenza di questi diversi elementi nella vita ecclesiale di questi ultimi trent’anni, accompagnata da innegabili elementi positivi e da numerosi segni di speranza, è stata rilevata da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, al pari del Cardinale Ratzinger e di altri autorevoli responsabili, insieme a numerosi analisti interni ed esterni alla Chiesa.

La nascita degli istituti dell’Ecclesia Dei non potrebbe essere compresa senza il riferimento a questo contesto di crisi postconciliare. Il Vaticano II si proponeva di riaffermare e di sviluppare il tesoro della dottrina cattolica, indicando le vie pastorali che sembravano le piú adatte a richiamare l’attenzione degli uomini contemporanei: “È necessario che questa dottrina certa e immutabile, alla quale ci si deve sottomettere fedelmente, sia studiata ed esposta in maniera conforme alle esigenze dei nostri tempi” (3). Non è nostra intenzione studiare tutte le soluzioni pastorali a cui il Concilio, nell’ottimismo degli anni sessanta, apriva le vie. Né tampoco ci soffermeremo a considerare se le riforme postconciliari non abbiano largamente oltrepassato ciò che chiedevano i Padri Conciliari.

Con il distacco che permette il tempo trascorso, appare chiaro che molte di queste riforme, in sé stesse e piú ancora nelle loro applicazioni, furono contrassegnate da notevoli deficienze, che compromisero l’attuazione delle giuste intuizioni dei Padri conciliari. Tre di queste carenze, ci sembra, hanno svolto un ruolo importante. Innanzi tutto l’aspetto pastorale ha preso il sopravvento sul fondamento dottrinale richiamato e sviluppato dal Concilio. In secondo luogo la cura per la continuità e l’omogeneità sostanziale nello sviluppo del dogma e nell’evoluzione della liturgia è stata insufficiente. Infine, la rapidità e l’universalità delle riforme, unite alla brutalità della loro attuazione, hanno contraddetto le dichiarazioni sulla soppressione dell’arbitrio.

Questo periodo è stato quello della crisi profonda della stessa nozione di Tradizione. A dispetto dei richiami dottrinali di Paolo VI (4), la continuità della Tradizione è sembrata vacillare, al punto che l’ala progressista, compiacendosene, ha parlato di rottura, arrivando in certi casi a dissentire apertamente sul contenuto della fede. Dall’altro lato, il legame del magistero vivente con la Tradizione è sembrato oscurarsi per l’insistenza sulle novità e per l’urgenza delle riforme. Numerosi fedeli si sono sentiti abbandonati nelle mani dei novatori, ed hanno disertato la pratica religiosa o si sono autoemarginati, fino a spezzare in certi casi i legami della comunione gerarchica.

I punti piú sensibili di questo processo consistono nell’insegnamento della teologia e nei problemi del catechismo e della liturgia. “Sono convinto - ha scritto il Cardinale Ratzinger - che la crisi della Chiesa che viviamo oggi è basata largamente sulla disintegrazione della liturgia” (5). In questi tre àmbiti potevano realizzarsi dei veri progressi se si fossero tenuti nel giusto conto le direttive del Concilio nelle loro linee essenziali.  Ma la chiave di un autentico progresso è il rispetto di quanto è stato acquisito e trasmesso dai predecessori, e, nel caso della Chiesa animata dallo Spirito Santo, dalla pietà filiale nei confronti de “la Tradizione che ci viene dal Signore per mezzo degli Apostoli, cosí come essa si è andata costituendo nel corso della storia” (6).

Si ritrovano, su questi tre punti chiave, le carenze che abbiamo indicato prima.
La confusione prodotta dalla prospettiva di adattamento pastorale ha finito con l’emarginare, fino a farla apparire incongrua, la questione del contenuto dottrinale, che è la norma per ogni giusta azione nella Chiesa. Questo elemento ha assunto connotazioni spettacolari nella nuova pedagogia catechetica, il cui scacco è oggi piú che palese. L’assenza di cura per la continuità e l’omogeneità ha finito col separare la teologia dalle sue fonti normative e col compromettere il cuore della formazione sacerdotale. Bisognava invece integrare la strutturazione speculativa apportata dalla saggezza tomistica, raccomandata dal Concilio, con un arricchimento scritturale e patristico (7). Infine, nello spazio di pochi anni, le riforme liturgiche hanno profondamente modificato tutti i riti ed hanno imposto i cambiamenti senza neanche chiedere il parere del popolo cristiano, e senza che nulla restasse delle antiche forme. È il caso evidente della Messa, in cui la forma tridentina del Messale latino classico è stata, se non formalmente abrogata, quanto meno praticamente obrogata dall’imposizione quasi generale del nuovo Ordo Missæ (8).

b) L’evoluzione in corso
Tuttavia, negli ultimi quindici anni, questa situazione ha subito una evoluzione. La carenza dei catechismi, segnalata fin dal 1983 dal Cardinale Ratzinger, ha trovato un inizio di soluzione con la pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, nel 1992. I grandi documenti pontifici degli ultimi anni: Veritatis splendor, Ordinatio sacerdotalis, Evangelium vitæ, Ad tuendam fidem, Fides et ratio, sottolineano il carattere normativo del contenuto della fede, la sua armonia con le verità naturali e l’importanza della continuità della Tradizione. Infine, la crisi della liturgia è oggi riconosciuta anche al di fuori dei circoli tradizionalisti (9)gli abusi sono oggi oggetto di alcuni richiami all’attenzione, e la Messa tridentina, con l’Indulto del 1984 e il Motu proprio del 1988, comincia ad uscire dall’interdizione di fatto che gravava su di essa.

Il 2 luglio 1988, infatti, venne pubblicato il Motu Proprio Ecclesia Dei (10). Se l’occasione per la sua pubblicazione venne offerta dalla consacrazione, contro la formale volontà del Papa, di quattro vescovi da parte di Mons. Marcel Lefèbvre, è indubbio che quest’atto pontificio supera largamente quest’ultimo problema. Innanzi tutto per il suo contenuto: una mediazione di grande respiro sulla Tradizione, di cui si sottolinea lo sviluppo omogeneo e continuo e il legame intimo col magistero vivente (n° 4), e anche una chiara affermazione de “la legittimità […] della diversità dei carismi e delle tradizioni di spiritualità e di apostolato” (n° 5a). Secondo poi, per i suoi destinatari, che non sono solo “coloro che sono stati legati al movimento sorto con Mons. Lefèbvre” (n° 5c), ma anche “tutti i fedeli cattolici, […] i vescovi” (n° 5a) […], “i teologi e gli esperti” (n° 5b). Il Papa li invita tutti a “riflettere sinceramente sulla fedeltà alla Tradizione” e a “rifiutare tutte le interpretazioni erronee e le applicazioni abusive in materia dottrinale, liturgica e disciplinare” (n° 5a).

Quest’atto del magistero, lungi dall’essere puramente di circostanza, si inscrive nel quadro della preoccupazione di riaffermare la continuità, preoccupazione che caratterizza particolarmente questi ultimi anni del Pontificato. La speranza che ànima il Santo Padre è quella di porre fine alla mentalità di opposizione dialettica che rende impossibile una lettura veramente cattolica del Vaticano II come elemento della “dottrina della Chiesa, erede fedele della Tradizione esistente da quasi venti secoli come realtà vivente che progredisce” (11). Si tratta anche di dimostrare che una riforma, nell’affermare la sua continuità, è degna di credibilità se non teme di lasciare un certo posto nella Chiesa alle “forme liturgiche e disciplinari anteriori” (12).

In appoggio a questa lettura dell’Ecclesia Dei, come documento che va oltre le circostanze che ne hanno determinato la nascita, si può ricordare che nell’Udienza del 26 ottobre 1998, il Papa non fa alcuna allusione all’ “atto scismatico” (13)delle consacrazioni del 30 giugno 1988, per spiegare come “si deve leggere ed applicare il Motu proprio Ecclesia Dei” (14).
 

2 Intenzioni specifiche
a) Il testo di riferimento
È su questo sfondo che si stagliano gli atti di fondazione degli istituti dell’Ecclesia Dei (15)Sia che esistessero da prima del Motu proprio, sia che siano stati fondati in seguito, essi hanno ricevuto il loro statuto canonico grazie ad esso o in riferimento ad esso. Gli uni sono stati eretti dalla Commissione Pontificia Ecclesia Dei in virtú degli speciali poteri ad essa concessi dal Sovrano Pontefice (16), gli altri è da essa che hanno ricevuto certe facoltà liturgiche (17).

In entrambi i casi, il testo di riferimento che aiuta a comprendere gli atti di fondazione è un passo del Motu Proprio Ecclesia Dei al quale rinvia il Rescritto del 18 ottobre (n° 6a). Esso concerne coloro che “avendo avuto dei legami con la Fraternità fondata da Mons. Lefèbvre, desiderano rimanere uniti al successore di Pietro nella Chiesa cattolica, conservando le loro tradizioni spirituali e liturgiche secondo (iuxta) il Protocollo firmato il 5 maggio precedente dal Cardinale Ratzinger e da Mons. Lefèbvre” (18). Due elementi integrano dunque l’atto col quale i fondatori degli istituti dell’Ecclesia Dei hanno chiesto all’Autorità ecclesiastica il riconoscimento canonico delle loro fondazioni:
- vivere in unione col Papa, e quindi nella piena comunione gerarchica della Chiesa, con tutti gli oneri e tutti gli onori;
- conservare il patrimonio delle proprie tradizioni, sulla base di norme precise contenute in un preciso testo espressamente nominato.

Questi elementi, costitutivi del carisma fondatore di ciascun istituto, sono stati ricevuti o approvati dall’Autorità: per Le Barroux con la Notificazione Ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede (19)del 25 luglio 1988 (che fa esplicito riferimento a questo passo), per gli altri istituti con i decreti d’erezione, che vi fanno implicito riferimento dichiarando che la Commissione agisce “in virtú delle speciali facoltà ad essa conferite dal Sovrano Pontefice Giovanni Paolo II” (20).

In effetti, nella fondazione di un istituto occorre prendere in considerazione le due attuazioni che vi intervengono.
Da una parte, quella dei fondatori secondo il loro carisma. L’espressione, impiegata da Paolo VI (21)è ripresa da Giovanni Paolo II: “È richiesto innanzi tutto di essere fedeli al carisma fondatore e al patrimonio spirituale costituito in ogni istituto” (22); ed essa è da lui utilizzata sia nel testo del Motu proprio sia nell’Udienza accordata per il decimo anniversario dell’Ecclesia Dei.
Dall’altra, l’azione della gerarchia che, conformemente al principio di sussidiarietà, non si sostituisce al carisma richiamato, ma concede o rifiuta la garanzia di autenticità: “Da un lato [lo Spirito di Dio] suscita direttamente l’attività dei credenti aprendo delle vie nuove ed inedite all’annuncio del Vangelo, dall’altro esso rende autentica la loro opera attraverso l’intervento ufficiale della Chiesa” (23)Per indicare che esistono proprio due soggetti agenti, il Vaticano II descrive “la funzione della gerarchia nella Chiesa”, in rapporto alle regole ‘proposte’ dai fondatori col verbo ‘ricevere’ (recipit)” (24).

Per comprendere la portata degli atti che hanno dato vita agli istituti dell’Ecclesia Dei, è necessario dunque riferirli a queste due azioni ed alle intenzioni specifiche (25)che esse manifestano. L’azione dell’Autorità: ai superiori di questi istituti, nel corso del 1988, i cardinali Ratzinger e Mayer, incaricati dal Papa per la definizione del documento, hanno “proposto per conto del Santo Padre il Protocollo firmato il 5 maggio e denunciato nella notte tra il 5 e il 6 maggio” (26). L’azione dei fondatori: che hanno accettato questa proposizione e, sulla base di questa precisa norma, hanno sottomesso i loro progetti di vita all’approvazione canonica.

b) L’intenzione della gerarchia
Qual è questa norma secondo la quale le due parti, ciascuno per la sua competenza, si sono lealmente impegnate? Essa comporta una Dichiarazione dottrinale e delle disposizioni giuridiche.
La Dichiarazione è composta da cinque punti:
1 - La professione di fedeltà alla Chiesa cattolica e al Romano Pontefice;
2 - L’accettazione della dottrina della Lumen Gentium n. 25 sul magistero e l’adesione che vi è dovuta;
3 - L’impegno per un atteggiamento positivo di studio e di scambio con la Sede Apostolica, “a proposito di certi punti
      insegnati dal Concilio Vaticano II, o concernenti le riforme posteriori della liturgia e del diritto, che appaiono difficilmente 
      conciliabili con la Tradizione”;
4 - Il riconoscimento della validità della Messa e dei Sacramenti celebrati, con l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, secondo 
      le edizioni tipiche promulgate da Paolo VI e da Giovanni Paolo II;
5 - La promessa del rispetto delle leggi disciplinari della Chiesa, specialmente di quelle del Codice di diritto canonico del 1983, 
      “fatta salva la disciplina concessa alla Fraternità [San Paio X] da una legge particolare”.

Ciò che colpisce in queste condizioni, è innanzi tutto la loro concisione e il loro adeguarsi alla teologia piú classica. L’Autorità considera come cattolico il battezzato che, sottomesso alla gerarchia (n° 1), aderisce alla dottrina cattolica secondo l’assenso dovuto al magistero (n° 2), riconosce la validità dei sacramenti celebrati secondo i riti approvati (n° 4), e obbedisce alle leggi della Chiesa (n° 5). Si ritrova in sostanza il canone 205 del Codice di diritto canonico: “Sono pienamente nella comunione della Chiesa Cattolica su questa terra i battezzati che sono uniti a Cristo nell’insieme visibile di questa Chiesa, con i legami della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico.” (27).

Si può anche notare che diversi di questi elementi si ritrovano nella Professione di fede e nel Giuramento di fedeltà (28)che devono pronunciare coloro che ricevono un incarico da esercitare in nome della Chiesa. L’inciso finale del n° 5: “fatta salva la disciplina particolare concessa alla Fraternità”, corrisponde esattamente a “fatte salve la natura e il fine del mio istituto” del Giuramento di fedeltà, e all’esigenza della “fedeltà alla disciplina dell’istituto” del diritto che regola l’apostolato dei membri degli istituti di vita consacrata (29).

In questa dichiarazione dottrinale si rileva anche una ampiezza di spirito che, se confrontata con l’atteggiamento tenuto dalle autorità ecclesiastiche nei confronti dei tradizionalisti nel corso dei vent’anni precedenti, costituisce una novità. Si considerino, per esempio, le condizioni imposte da Paolo VI a Mons. Lefèbvre come pregiudiziali per ogni riconciliazione: accettazione senza alcuna riserva del Concilio e “di tutti i suoi documenti”, accettazione della “totalità dell’insegnamento” di Paolo VI, e impegno “ad adottare e a fare adottare, nelle case che dipendono da [Mons. Lefèbvre], il Messale che [Paolo VI] ha lui stesso promulgato” (30). In uno spirito del tutto diverso, la Dichiarazione dottrinale, conformemente alle raccomandazioni del Vaticano II, applica “nel seno stesso della Chiesa”, l’adagio “unità nella necessità, libertà nel dubbio, in tutti i casi la carità” (31)che è uno dei principi conduttori dell’ecumenismo cattolico (32).

Per la prima volta viene affrontata in tutta la sua ampiezza una difficoltà, il cui principio stesso sembrava essere stato scartato fino ad allora: quella di conciliare certi punti del Concilio, e delle riforme ad esso posteriori, con la Tradizione (n° 3). Nel Motu proprio, Giovanni Paolo II indicherà un fondamento oggettivo di questa difficoltà, richiamando “quei punti della dottrina che, forse a causa della loro novità (cum fortasse novæ sint), non sono stati ben compresi da certe parti della Chiesa” (n° 5b). Su questi punti, fatto salvo evidentemente l’atteggiamento dovuto ad un testo del magistero (cfr. n° 2), è richiesta non una ricezione senza riserve, che tratterebbe con preterizione le deficienze che si possono riscontrare perfino in un testo magisteriale (33), ma “un atteggiamento positivo di studio e di scambio con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica”. Si ritrova qui l’apertura manifestata dal magistero nel dialogo con i teologi: “Se, nonostante gli sforzi leali, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi che solleva un insegnamento, di per sé, per le giustificazioni che ne sono proposte o per il modo con cui è presentato”. Chiedendo di evitare ogni polemica, dunque, si intende eliminare solo “quell’atteggiamento pubblico di opposizione al magistero della Chiesa, chiamato anche ‘dissenso’” (34).

Per la conclusione dell’accordo, un punto è stato decisivo: quello che riguarda i nuovi rituali della Messa e dei Sacramenti. La Dichiarazione dottrinale non esige piú la loro utilizzazione abituale o puntuale, ma solo il riconoscimento della loro validità allorché sono “celebrati […] secondo i riti indicati nelle edizioni tipiche” (n° 4). Era noto a tutti che, per Mons. Lefèbvre, la riforma liturgica comportasse degli aspetti che egli considerava “difficilmente conciliabili con la Tradizione”. Evitare la polemica, riconoscere la validità del Novus Ordo nei testi ufficiali latini, comunicare con la Santa Sede sulle difficoltà: ecco ciò che gli veniva richiesto, in conformità con la teologia classica dell’assistenza dello Spirito Santo per le leggi universali della Chiesa, che garantisce almeno la validità e la non-eterodossia, ma non preserva necessariamente da ogni deficienza (35).

La “disciplina speciale concessa alla Fraternità [San Pio X] da una legge particolare” (n° 5), garantiva peraltro l’uso esclusivo dei libri liturgici del 1962. È di una importanza assoluta considerare che è stata questa disposizione a rendere possibile l’accordo sul Protocollo, e quindi la costituzione degli istituti dell’Ecclesia Dei. Supporre che si trattasse di un’abile manovra, e che la Santa Sede si riservasse di costringere in un secondo momento il firmatario, e coloro che dopo di lui avessero accettato il Protocollo, alla celebrazione anche occasionale dei riti che creavano a costoro delle difficoltà, significa imputare alla Santa Sede la mancanza di trasparenza nelle intenzioni e la mancanza di sincerità che caratterizzano ogni dialogo condotto nello spirito della Chiesa. “Le caratteristiche del dialogo sono: innanzi tutto la chiarezza, […] la dolcezza, […] la fiducia […] la prudenza; […] il clima del dialogo è l’amicizia” (36). Immaginare inoltre che una tale slealtà sia stata reiterata nel Motu proprio (che è un atto solenne del magistero) quand’esso si riferisce al Protocollo, è cosa ancora piú inverosimile.

L’intenzione specifica dell’Autorità che ha eretto gli istituti dell’Ecclesia Dei, cosí come è manifestata oggettivamente nei testi e negli atti dell’estate del 1988, consiste dunque nel rispettare la giusta libertà tanto nelle varie forme di vita spirituale e di disciplina, quanto nella varietà dei riti liturgici” (37)pur imponendo ciò che è strettamente “necessario all’unità. Il Santo Padre ha egli stesso applicato a questo caso singolare il passo del Vaticano II (38)che afferma che “la Chiesa, nei dominii che non concernono la fede o il bene di tutta la comunità, non desidera imporre, neanche per la liturgia, la forma rigida di un testo unico” (39).

c) L’intenzione dei fondatori
L’intenzione specifica dei fondatori degli istituti dell’Ecclesia Dei è anch’essa incontestabile. Tutti aspirano a vivere nella piena comunione ecclesiale il loro progetto di vita religiosa o apostolica, conservando quelle discipline, quelle pedagogie, quei rituali tradizionali ai quali è ancorata tutta la loro aspirazione spirituale, astenendosi esattamente da tutti quei fattori che avevano creato loro delle difficoltà per quasi vent’anni. Essi avrebbero rifiutato una concessione esplicitamente temporanea o una formula biritualista, consci peraltro del fallimento di tutti i tentativi anteriori che erano stati condotti in questo senso (Seminario del Leonianum e della Mater Ecclesiae, a Roma). Peraltro, i fondatori delle Fraternità San Pietro e San Vincenzo Ferrer, ai primi di luglio a Roma, lo hanno spiegato lealmente ai Cardinali Ratzinger e Mayer che regolarizzavano la loro situazione canonica e rilasciavano le autorizzazioni per celebrare (celebrets) secondo il rito tradizionale. In un testo firmato dagli stessi Cardinali e dai fondatori dell’Opus Mariæ, e inviato a Mons. Perl, Segretario della Commissione Ecclesia Dei, era inclusa questa condizione del monoritualismo tradizionale (40).

Le Costituzioni di queste due Fraternità comportano peraltro una disposizione in questo senso: “Il fine particolare della Fraternità San Pietro è di realizzare questo scopo (la santificazione dei preti) per mezzo della fedele osservanza delle ‘tradizioni liturgiche e spirituali’, conformemente alle disposizioni del Motu proprio Ecclesia Dei del 2 luglio 1988 che è all’origine della sua fondazione” (41)“Nella celebrazione della Santa Messa e dell’ufficio divino, i membri della Fraternità [San Vincenzo Ferrer] sono tenuti ad utilizzare i loro libri liturgici, propri ed approvati, secondo le norme del Decreto d’erezione della Fraternità” (42).

Da parte sua, dom Gérard, fondatore dell’Abbazia di Le Barroux, dichiarava: “Ciò che noi chiedavamo sin dall’inizio (messa di San Pio V, catechismo, sacramenti, il tutto in conformità col rito della Tradizione secolare della Chiesa) ci è stato accordato, senza contropartita dottrinale, senza concessioni, senza rinnegamenti” (43). Le Dichiarazioni dell’Abbazia precisano che “la liturgia della Messa [e dell’Ufficio divino], celebrata secondo i riti piú che millenari della Santa Chiesa Romana, in lingua latina” è una delle “due fonti che hanno dato vita alla comunità di Le Barroux e che costituiscono la sua ragion d’essere (rationem eius existentiae constituunt)” (44).

Il monoritualismo tradizionale è proprio uno degli elementi di quello “spirito dei fondatori e delle loro intenzioni specifiche (propriaque proposita)” che il vaticano II richiede di “porre in piena luce e di mantenere fedelmente” (45)L’Autorità della Chiesa considera che uno dei suoi doveri consista nel “vegliare, da parte sua, a che gli istituti crescano e fioriscano secondo lo spirito dei fondatori e le loro sane tradizioni” (46)Evidentemente, il progetto di vita dei fondatori non si riduce solo a quest’aspetto. Esso include soprattutto il patrimonio di spiritualità propria a ciascuno degli istituti. Comporta la determinazione: a trarre tutte le conseguenze dalla piena comunione ecclesiale, secondo le indicazioni dei cinque punti della Dichiarazione dottrinale del Protocollo; a rifiutare ogni inganno disciplinare; a coltivare la trasparenza nei confronti delle autorità, la vigilanza contro lo spirito di acredine o il separatismo, gli scambi effettivi con gli altri settori della Chiesa.

Ma l’erezione canonica di istituti che portano questa intenzione fondatrice, traduce nei fatti, in maniera convincente, la promessa della Santa Sede contenuta nella Nota d’informazione del 16 giugno 1988 (47)in cui si può leggere nella conclusione: “un pressante appello ai membri della Fraternità [San Pio X] e ai fedeli che ad essa sono legati, perché riconsiderino la loro posizione e vogliano restare uniti al Vicario di Cristo, assicurando loro che verranno adottate tutte le misure atte a garantire il rispetto della loro identità nella piena comunione con la Chiesa cattolica”.
 

3. Giudizi prudenziali
a) Un atto prudenziale normativo
Occorre adesso precisare l’esatta natura di un atto fondatore. Come indica il suo stesso nome, esso scaturisce dall’agire morale e impegna per l’avvenire. Si tratta dunque di un atto prudenziale, nel senso tomistico del termine (48)atto che è normativo nei confronti di altri atti ulteriori derivati dalla sua promulgazione.
Come atto prudenziale, esso integra un insieme di dati complessi, che rientrano nella deliberazione dell’intelligenza pratica e guidano il giudizio morale che la completa. Non è un discorso speculativo che analizza in astratto, una dimostrazione in cui tutti gli elementi aspirano alla necessità apodittica e all’universalità. La fondazione di un istituto legato al servizio delle forme disciplinari, liturgiche, apostoliche e spirituali della tradizione latina (49)nel contesto della crisi ecclesiale, e in seguito alla rottura determinatasi con le consacrazioni del 30 giugno 1988, è un atto prudenziale. Attuare questa fondazione secondo una intenzione fondatrice che comporta il monoritualismo tradizionale, aderire a questi istituti con la professione o con l’impegno: si tratta sempre di atti che si configurano come giudizi prudenziali.

b) Le considerazioni preliminari del giudizio
Questi giudizi sono illuminati dai principi necessari della teologia della Chiesa e dei sacramenti. Essi attuano questi principi nel contesto di una materia soggetta a cambiamento, in cui spesso si tratta piú di convenienze, di inconvenienti e di probabili pericoli, che di necessità assolute. Verranno effettuate delle analisi sui diversi aspetti della crisi della Chiesa, le quali saranno caratterizzate da un elemento contingente, con particolare riferimento ai tre elementi segnalati prima (teologia, catechesi e liturgia). Interverranno anche considerazioni di giustizia naturale e di lealtà umana nei confronti dei preti, dei religiosi, dei seminaristi e dei fedeli che si sono affidati ai fondatori e li hanno seguiti lungo questa via, spesso a prezzo di grandi sacrifici. Entreranno in giuoco gli apprezzamenti di efficacia apostolica: un profondo ancoraggio ad una chiara identità è cosa necessaria per condurre un’azione ardita e rinnovatrice nel quadro della nuova evangelizzazione. Entrerà in giuoco la cura per la stabilità delle forme della vita quotidiana. Sarà tenuto conto della pace e dell’unità che assicurano le forme tradizionali a confronto del carattere evolutivo e della varietà delle pratiche derivate dalla riforma. Saranno presentate le legittime preoccupazioni “ecumeniche” nei confronti di quei nostri fratelli che si sono trovati coinvolti in una dissidenza che ancora si prolunga, ma che talvolta soffrono profondamente di questa separazione.

Uno degli elementi fondamentali che intervengono nell’assunzione del giudizio prudenziale, riguarda le difficoltà che presenta per noi la riforma liturgica, difficoltà che sono presi in considerazione nel Protocollo d’accordo del 5 maggio (50)Nel quadro di questo articolo possiamo solo rinviare ad alcuni studi seri, anche se diverse delle loro analisi o conclusioni occorrerebbe che fossero completate o talvolta corrette (51)Le difficoltà esposte in questi lavori riguardano la presentazione della teologia della messa (52)con particolare riferimento alla sua realtà di sacrificio propiziatorio, al ruolo svolto dalla presenza reale nell’economia del sacrificio, alla collocazione rispettiva del prete e dell’assemblea.
Altri studi analizzano le gravi deficienze di certe traduzioni in lingua volgare, come quella del Padre Renié (53)Altri, infine, sottolineano il carattere polimorfo ed evolutivo della riforma che, secondo la testimonianza del suo principale artefice, Mons. Annibale Bugnini, comprende anche le tappe “dell’adattamento (o incarnazione) della forma romana della liturgia negli usi e nelle mentalità di ogni Chiesa […] e di ciascuna delle assemblee in preghiera” (54).
Secondo “l’attitudine positiva di studio e di scambio” richiesta dal Protocollo, sarebbe altamente auspicabile che si instaurasse un vero dialogo con la Santa Sede e con i vescovi su queste diverse questioni.

La scelta normativa del monoritualismo, fatta con gli atti di fondazione, è una scelta pratica che deve integrare tutti gli altri elementi. Non si tratta di condurre uno studio accademico su tale o talaltro aspetto della riforma. Si tratta di constatare che, nello spirito dei suoi iniziatori e nella realtà ecclesiale quotidiana, essa forma un tutt’uno, peraltro ancora in evoluzione. È estremamente difficile (salvo per alcune abbazie o per qualche prete isolato) dissociare una parte da questo tutto. Per esempio: utilizzare solo la Preghiera Eucaristica I (la piú vicina all’antico canone romano). È anche pressoché impossibile rifiutare la dinamica interna del movimento senza creare delle gravi tensioni con i confratelli, con i richiami all’ordine da parte dei vescovi (55).

Nel quadro del diritto liturgico scaturito dalla riforma, un istituto potrebbe statutariamente imporre ai suoi membri la forma piú tradizionale della riforma liturgica e, al tempo stesso, rifiutare le numerose possibilità ad libidum che essa offre? La risposta sembra piuttosto negativa. 
In ogni caso, l’esempio dei membri di certe comunità canoniche o apostoliche che celebrano secondo l’Ordo di Paolo VI, è sotto gli occhi di tutti. Malgrado la loro netta preferenza per il rito latino orientato e per la comunione secondo la sua forma tradizionale, esse si vedono costrette a celebrare quasi al pari del resto del presbyterium delle diocesi in cui sono accolte, e cioè in volgare, rivolti al popolo e con la comunione sulla mano.

c) Un atto normativo solo per i nostri istituti
La scelta del monoritualismo tradizionale, come normativa per gli istituti dell’Ecclesia Dei, è un atto che impegna, è il caso di sottolinearlo, solamente questi istituti e coloro che vi entrano. Non si tratta affatto di una condanna delle altre scelte possibili nel seno della comunione ecclesiale, o della riprovazione di coloro che si impegnano su altre vie. Sfortunatamente, certuni, tra il clero o i fedeli, si ingannano su questo punto. È  necessaria una migliore comunicazione per fare chiarezza. Alcuni membri degli istituti dell’Ecclesia Dei, con le loro parole o i loro comportamenti, è possibile che abbiano accreditato il contrario. Questo modo di fare, che offende la carità, non può essere che disapprovato dai Superiori e richiede che venga corretto immediatamente. Infine, è possibile che certi fedeli che si sono affidati ai nostri istituti abbiano manifestato uno spirito di separazione, ma costoro sono segnati da un passato doloroso o sono stanchi di vedere le loro legittime richieste rimanere senza risposta. Noi dobbiamo fare il possibile per richiamarli in seno alla Chiesa (sentire cum Ecclesia) (56)supplicando rispettosamente i Pastori di considerarli come pecore del gregge che Cristo ha loro affidato.

Per altro verso, gli atti di fondazione impegnano per l’avvenire, ovviamente nei limiti imposti dalle vicende umane. Un decreto d’erezione può essere annullato dall’autorità a causa della sparizione dell’oggetto dell’istituto, della mancanza del soggetto, o per una grave mancanza nei confronti della fede o della disciplina. Ma, di per sé, esso è permanente. Le Costituzioni possono essere modificate (con l’approvazione della Santa Sede) da un Capitolo generale, ma l’esperienza dimostra che intaccare ciò che costituisce o protegge direttamente il patrimonio dell’istituto significa creare le premesse della catastrofe; come si è visto nei numerosi Capitoli di “rinnovamento” del 1968. Poiché, secondo l’adagio filosofico, “le cose si conservano in essere per mezzo delle stesse cause che hanno loro dato vita” (57).

Infine, ciascuno aderisce liberamente ai diversi elementi del patrimonio dell’istituto. Il dovere dei formatori è di esporli lealmente. Il dovere dei candidati è di discernere se la loro vocazione vi corrisponde e di decidere con chiarezza prima dell’impegno definitivo. Su un punto di tale importanza, è indispensabile un impegno leale a rispettare le intenzioni fondatrici e ad ubbidire secondo quanto richiesto dalle Costituzioni (58)Ma quell’ “obbedienza del giudizio” (59)che richiederebbe una adesione intima al fondamento di ogni orientamento, non è affatto richiesta. Di contro, sono necessari il rispetto delle esigenze di unità e di carità fraterne dell’istituto, la docilità verso i Superiori e la saggezza che tenga in conto le gravi difficoltà dei tempi della fondazione, accresciute dall’instabilità dell’epoca moderna.
 

4. Carisma proprio e “gesti di unità”.
a) L’invito del Papa
“Secondo lo spirito di conversione della lettera apostolica Tertio millenio adveniente (60)esorto tutti i cattolici a compiere dei gesti di unità e a rinnovare la loro adesione alla Chiesa, perché la legittima diversità e le differenti sensibilità, degne di rispetto, non li separino gli uni dagli altri, ma li spingano ad annunciare insieme il Vangelo; cosí, stimolati dallo Spirito che fa concorrere tutti i carismi all’unità, tutti potranno glorificare il Signore e la salvezza sarà proclamata a tutte le nazioni.” (61).

Ricevendo i pellegrini venuti a Roma per il decimo anniversario dell’Ecclesia Dei, il Santo Padre è ritornato su un tema che gli è caro. Diverse sono le idee in esso presenti:
- la diversità dei carismi, ed anche delle sensibilità, è legittima;
- tutti sono invitati a compiere dei gesti di unità, affinché la diversità non nuoccia all’unità;
- ma contribuisca all’efficacia della testimonianza apostolica.

Ritroviamo qui un’idea molto tradizionale, forse andata un po’ perduta nel XIX e nel XX secolo sotto la spinta dell’ostilità del mondo nei confronti della Chiesa, la quale ha dovuto reagire con una centralizzazione, legittima in sé, ma non indenne dal pericolo dell’uniformizzazione. Questa idea è che una sana diversità “rappresenta una ricchezza” (62).

b) Il carattere proprio
Per quanto riguarda la vita religiosa ed apostolica, quest’idea si traduce nel principio che i diversi istituti, come peraltro le diocesi, non sono solo dei dipartimenti amministrati dall’alto, che traggono tutti la loro sostanza dall’azione gerarchica. Ma sono “delle famiglie diverse del cui capitale beneficiano insieme e i membri di queste famiglie e tutto il Corpo di cristo”. È per questo che “la Chiesa difende e sostiene il carattere proprio di ciascun istituto”. (63).

Il recente magistero è cosciente dell’importanza di questo carattere proprio nel contesto attuale. “In questo periodo di evoluzione culturale e di rinnovamento ecclesiale, è necessario che sia salvaguardata l’identità di ciascun istituto, con una garanzia tale che sia evitato il pericolo di una situazione insufficientemente definita, per la quale i religiosi si inserirebbero in seno alla vita della Chiesa in maniera vaga ed ambigua, non riferendosi nella maniera dovuta al modo specifico derivante dal loro carattere proprio (indolis proprii)” (64).

Da questo punto di vista, il Codice di diritto canonico, a seguito del Vaticano II, insiste sulla “giusta autonomia” (65)di cui deve godere ogni istituto, autonomia che gli Ordinarii del luogo hanno il dovere “di salvaguardare e di proteggere (servare ac tueri) (66)È dunque giusto che le manifestazioni concrete di unità ecclesiale siano conformi a ciò che il Codice chiama “il diritto proprio” degli istituti. Da circa trent’anni l’importanza di questo diritto è stata messa meglio in luce. A questo proposito, il Padre Beyer, s. j., specialista riconosciuto della vita consacrata, ha scritto: “Le autorità ecclesiastiche non devono modificarlo, limitarlo o costringerlo nell’autonomia “interna”, che impedirebbe la sua testimonianza e il suo pieno irraggiamento” (67).

c) Il senso del bene comune
Per altro verso, questa diversità deve condurre all’unità, e ciò deve realizzarsi concretamente. E qui ci si scontra con una difficoltà: come conciliare legittima diversità e unità ecclesiale? Bisogna riconoscere che la profonda perdita del senso del bene comune, che segna la crisi della modernità, con l’affermazione sempre piú imperiosa dei diritti dell’individuo e con l’assenza sempre piú evidente di valori comuni, costituisce un serio ostacolo. Nel caso della Chiesa, questa situazione si è tradotta (ed è stata favorita) nell’abbandono pratico dei grandi segni e dei grandi veicoli dell’universalità: la lingua sacra nel patriarcato latino, la formazione dei chierici secondo le comuni pedagogie (con i rinnovamenti biblici e tomistici), il rispetto delle norme liturgiche e canoniche; elementi questi che avevano caratterizzato i pontificati moderni eredi dello spirito classico, da Leone XIII a Pio XII.

La manifestazione dell’unità deve integrare questa realtà attuale dell’indebolimento dei comuni riferimenti capaci di incarnare la cattolicità della Chiesa e deve sostenere il senso del primato del bene comune. Applicare artificialmente le esigenze corrispondenti a tempi di grande unità culturale, liturgica e teologica, ad una situazione che è all’opposto, significherebbe ricadere in quel formalismo da cui proprio i promotori delle riforme volevano liberarsi. Significherebbe entrare in contraddizione interna con l’inculturazione auspicata da molti teologi e, in una certa misura, dallo stesso magistero. Si può anche affermare che questo significherebbe uscire dalla linea generale delle riforme postconciliari. Queste sono segnate da una polimorfia liturgica, da una flessibilità giuridica, da un certo pluralismo teologico che rendono incongrua l’imposizione autoritaria di segni uniformi di comunione.

La diminuzione dei referenti comuni ha favorito in questi ultimi anni lo sviluppo di un linguaggio particolare, una sorta di “langue de bois” ecclesiastica, che sembra avere origine nel desiderio di evitare ogni affermazione troppo precisa allo scopo di non urtare nessuno. In questo contesto, il linguaggio diretto ed esplicito del Papa, quando si rivolge al mondo e ai giovani, è percepito come una vera liberazione. “Non abbiate paura di dire chiaramente la verità” sembra dirci in qualche modo. A noi sembra che il primo sforzo per ricomporre l’unità consista proprio nell’essere chiari, in particolare sulle condizioni dell’appartenenza ecclesiale e sulla nozione di comunione. “Non si può sostenere il concetto di comunione secondo cui il valore pastorale supremo consiste nell’evitare i conflitti” (68).

d) Il nostro contributo
Su questo punto, gli istituti dell’Ecclesia Dei possono apportare il loro contributo. Se essi sanno rimanere al loro posto, smentendo, con il loto comportamento rispettoso ed aperto, l’accusa di costituire un “Chiesa di fatto”, possono essere i testimoni di certe forme tradizionali che un tempo costituivano il tessuto comune della cultura ecclesiastica, forme tradizionali che, attualizzate secondo i bisogni del momento, possono fornire (insieme ad altre) degli utili elementi correttivi.

Nel dominio della teologia, l’esistenza dei loro centri di studi tomistici può essere di grande aiuto nel momento in cui il magistero invita a riscoprire una “filosofia dell’essere” (69)La loro partecipazione a delle riviste filosofiche e teologiche, a degli incontri con altre scuole, a degli scambi con i centri di formazione delle diocesi e con gli istituti di diversa tradizione, a dei congressi, nonché il loro inserimento nei centri d’insegnamento civili ed ecclesiastici, in particolare nelle facoltà canoniche, non costituirebbero dei possibili “segni di unità”? Occorrerà indubbiamente “uno spirito di conversione”: da parte degli istituti, con un accresciuto interesse per la ricerca e il dibattito, da parte degli altri con una maggiore apertura nei confronti della scuola di pensiero dei primi, cosa che peraltro incominciano a riscoprire certi settori profani (70).

Nel dominio della catechesi, sulla base del Catechismo della Chiesa Cattolica,, non è possibile pensare che uno dei “segni d’unità” potrebbe consistere, come si fa già in alcune diocesi, nel conferire a dei membri di questi istituti e a dei fedeli ad essi vicini, assicurandosi che abbiano le qualità morali e dottrinali richieste, una parte nella catechesi degli adulti, nella formazione permanente, nella preparazione al matrimonio, nella cura dei centri cristiani?

Infine, nel dominio della liturgia, che è quello piú sensibile, sarebbe auspicabile che ci si metta d’accordo con calma su dei segni di comunione che siano sufficientemente espliciti, senza nascondersi i problemi reali che sussistono e senza violentare le coscienze. Non si ottiene niente di duraturo fingendo di ignorare le difficoltà o forzando le persone. In una sana antropologia, il gesto deve innanzi tutto essere vero per essere significativo. Diversamente si contribuisce a creare confusione, si favorisce l’ipocrisia e si rischia di generare ciò che gli psicologi chiamano “riaffiorare del rimosso”.

e) I segni di comunione
Gli istituti dell’Ecclesia Dei hanno in comune “forme liturgiche e disciplinari della precedente tradizione latina” (71)I segni di comunione, per essi, devono potersi iscrivere in questa tradizione. Ora, tradizionalmente, il segno indubitabile col quale si riconosceva la validità di un rito della Messa e si dimostrava di essere in comunione cattolica col celebrante, era costituito dall’assistenza a questa Messa e dalla ricezione della comunione nel corso della sua celebrazione. Noi proponiamo dunque questo gesto d’unità, che è sufficiente nei confronti della teologia della Chiesa e della natura dei segni sacramentali.
Affermare che un prete che assiste ad una messa e vi si comunica, vestito col suo abito religioso e con la stola, non vi “partecipa” (o quanto meno non tanto da riconoscerne la validità e la non-eterodossia), significa veramente non tenere in alcun conto la storia della liturgia e manifestare una concezione tutta clericale della partecipazione al Sacrificio della Messa! Se la comunione sacramentale, fatta con le insegne del proprio ordine, non manifesta che il prete è in comunione ecclesiale, allora siamo davvero di fronte ad un grosso problema (72).

Bisogna averla vinta, ad ogni costo? Bisogna imporre, come àuspicano certi vescovi, la concelebrazione sacramentale secondo il rito riformato, ai preti, o quanto meno ai Superiori, degli istituti dell’Ecclesia Dei, alla Messa crismale o nei grandi raduni diocesani? Una tale richiesta può solo derivare da una concezione senza fondamento teologico: quella che vede nella concelebrazione sacramentale, non solo una “manifestazione opportuna dell’unità del sacerdote” (73)ma l’unico segno della comunione ecclesiale. Essa si opporrebbe esplicitamente al diritto universale (74)che in questo campo lascia la libertà ai preti. Inoltre, costituirebbe una negazione, su un punto cruciale, degli impegni presi dalla gerarchia nell’estate del 1988 nei confronti dei preti che hanno rifiutato lo scisma. Questa soluzione appare dunque impensabile.

Si può considerare, tuttavia, che nella speranza di sbloccare una situazione difficile, si esiga dai Superiori che su questo punto lascino ai preti dei loro istituti ogni libertà. Questa soluzione solleverebbe molti piú problemi di quanti ne risolverebbe. Riteniamo che non sia ragionevole, né conforme al principio di sussidiarietà. Occorrerebbe infatti disconoscere una delle caratteristiche fondanti degli istituti dell’Ecclesia Dei: il monoritualismo tradizionale. Occorrerebbe non tenere in alcun conto le difficoltà relative alla riforma liturgica, che sono elementi decisivi della scelta fondatrice. Peraltro, questa soluzione si opporrebbe al diritto proprio degli istituti, che hanno legiferato sull’uso esclusivo dei libri liturgici del 1962 (75), ridurrebbe indebitamente l'autorità dei Superiori (76)e metterebbe in pericolo il governo, l’unità e la stessa perennità degli istituti dell’Ecclesia Dei. Essa introdurrebbe, contrariamente all’ “utilità del fedeli” citata nel canone 902, dei gravi elementi di divisione tra i fedeli che si sono affidati a questi istituti. Infine, essa annullerebbe la credibilità dell’Ecclesia Dei come alternativa alla dissidenza lefebvriana.

Per gli istituti a vocazione apostolica, impegnarsi in tale direzione significherebbe accettare in pratica e in linea di diritto il biritualismo. È piú che evidente che le richieste provenienti da piú parti in favore della concelebrazione sono associate, qua e là, a dei suggerimenti in questo senso, al pari della sorprendente affermazione che i preti degli istituti dell’Ecclesia Dei non sono legati ad una delle “forme del messale romano” (quello del 1962 o quello del 1969) piuttosto che ad un’altra. Quanto a coloro che vogliono cancellare le “sopravvivenze” del rito tradizionale, non si accontenteranno certo di gesti simbolici occasionali. D’altronde, in nome di che gli istituti votati all’apostolato rifiuterebbero il ruolo di organismi che celebrano il nuovo rito, dal momento che esso fosse accettato in linea di principio attraverso la concelebrazione? Questo condurrebbe ad una divisione interna ed esterna degli istituti, ad una riduzione del loro reclutamento, allo scoraggiamento e alla dispersione dei fedeli che si sono fidati della Santa Sede nel 1988. Significherebbe pagare con parecchio disordine e tante divisioni ciò che dovrebbe essere un gesto di pace e di unione!

La soluzione che proponiamo, in armonia con l’antico e con l’attuale diritto della Chiesa, ci sembra piú saggia perché piú reale. Sarebbe poco onesto nei confronti degli altri e nei confronti di noi stessi attuare pubblicamente un gesto che accrediterebbe l’idea che la riforma liturgica non ci pone piú alcun problema. Il nostro comportamento deve integrare questa funzione di testimonianza, nel rispetto della gerarchia e di tutte le persone che non condividono il nostro giudizio.
Senza dubbio una tale testimonianza è martoriante, fonte di incomprensioni, di difficoltà ed anche di certi ritardi nei confronti della nostra missione evangelizzatrice, ma riteniamo che essa è necessaria e costituisce un utile stimolo per spingere ad esaminare e a superare dei problemi che non si risolvono ignorandoli. Il servizio che possiamo rendere all’unità ecclesiale non può collocarsi che nella verità. “Un progetto di unità ecclesiale nella quale l’irrigidimento dei conflitti fosse evitato in nome di una pace artificiale, rinunciando alla totalità della testimonianza, si rivelerebbe ben presto illusorio” (77).
D’altronde, non è la prima, né sarà l’ultima volta nella storia della Chiesa, che delle crisi interne, in cui le parti possono essere ugualmente in buona fede e animati dalla carità, suscitano delle prove che le purificano e le rendono piú autentiche, secondo “la costante storica del legame tra il carisma e la Croce” (78)Chi può dire in che misura il sacrificio che comporta il sostenere le tensioni attuali per la coesistenza dei due riti, prepari per l’avvenire la pace liturgica che desiderano tanto i preti che i fedeli?
È dunque secondo un autentico “spirito di conversione” che proponiamo questa soluzione di assistenza e di comunione sacramentale ad un rito che ci pone dei reali problemi. Questo “gesto di unità” può essere vissuto con lo stesso spirito dal vescovo del luogo e dal presbiterio diocesano, che potrebbero avere a cuore il rispetto meticoloso delle norme della celebrazione, evitando per quel giorno le formule ad libidum piú lontane dall’uso tradizionale.
Non dimentichiamo che lo scopo di questi segni di unità è di permettere alla Chiesa di affrontare nelle migliori condizioni l’impegno piú urgente che mai dell’evangelizzazione. Nei confronti di un mondo culturalmente frantumato, l’ampiezza di spirito della Chiesa, “la varietà dei riti liturgici ed anche delle elaborazioni teologiche della verità rilevata”, nel contesto della stessa fede e della stessa carità, non è un handicap o uno scandalo. Al contrario, essa “manifesta piú pienamente la vera cattolicità e apostolicità della Chiesa” (79)Non è questo il senso dell’invito del Santo Padre del 26 ottobre scorso ai pellegrini dell’Ecclesia Dei e “a tutti i cattolici”?

Fr. Louis-Marie de Blignières
 

Note
1. La Documentation Catholique, (D. C. nel séguito), n° 2193, p. 1013. (su!)
2. Ibid., p. 1012. (su!)
3. GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura del Concilio, 11 ottobre 1962, (D. C., n° 1387, col. 1379). 
     Il Papa ha aggiunto: “In effetti, una cosa è il deposito della fede, e cioè le verità contenute nella sacra dottrina, altra cosa è la 
     maniera di esprimere queste verità conservando tuttavia il loro senso e la loro accezione”. Per evitare il relativismo 
     dogmatico che pretendeva di trovare un punto d’appoggio in questa distinzione, la Dichiarazione Mysterium Ecclesiæ della 
     Congregazione per la Dottrina della Fede, del 24 giugno 1973 (n° 4), dovette precisare: “È chiaro che [il Papa] riconosceva 
     un senso vero e immutabile al dogma, e per noi discernibile. La novità che peraltro egli raccomanda, tenuto conto delle 
     esigenze dei nostri tempi, riguarda la maniera di studiare, di esporre e di enunciare questa dottrina con il suo senso 
     permanente” (D. C., n° 1636, p. 688). (su!)
4. Encicliche Mysterium fidei del 3 settembre 1965, Sacerdotalis cœlibatus del 24 giugno 1967, e Humanæ vitæ del 
     25 luglio 1968, Profession de foi del 29 giugno 1968. (su!)
5. Ma vie, souvenirs, 1927-1977, Paris, 1998, p. 135. (su!)
6. GIOVANNI PAOLO II, Udienza del 26 ottobre 1998, (D. C., n° 2193, p. 1012). (su!)
7. Cf. Decreto sulla formazione dei preti Optatam Totius, n. 16, e Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimum 
    Educationis, n. 10  (Cf. anche Can. 252 § 3). (su!)
8. L’obrogazione è la “soppressione o abrogazione indiretta di una legge per mezzo di un’altra posteriore ad essa contraria e 
     dello stesso tenore”. (su!)
9. Cf. per esempio gli articoli del Cardinale Decourtray, Bulletin diocésain Eglise à Lyon,  23 aprile 1992; del Cardinale 
     Danneels, “Comment entrons-nous dans la  liturgie”,  D. C.,  n° 2132, pp. 172-175; di Mons. Léonard, Pâque Nouvelle 
     99/1, pp. 22-28. (su!)
10. D. C., n° 1967, pp. 788-789. La Pensée  Catholique dà il testo latino e la traduzione francese nel n° 236, pp. 16-21. (su!)
11. Udienza del 26 ottobre 1998, D. C., n° 2193, p. 1012. (su!)
12. Ecclesia Dei, n. 5c. (su!)
13. Ecclesia Dei, n. 3. (su!)
14. D. C., n° 2193, p. 1012. (su!)
15. Qui ci limitiamo agli istituti maschili. (su!)
16. Rescriptum ex audientia, 18 ottobre 1988, n. 3a  et 4, (Acta Apostolicæ Sedis, tomo 82 (1990), p. 533). (su!)
17. Ibid., n. 1. (su!)
18. “Le protocole d’accord entre le Vatican et Mgr Lefèbvre” è riprodotto con questo titolo in D. C., n° 1966, pp. 734-736. 
     (su!)
19. Protocollo CDF 75/83. (su!)
20. Vigore facultatum (o: vi specialium facultatum) sibi a Summo Pontifice Ioanne Paulo II tributarum (Decreti d’erezione 
       delle Fraternità San Pietro e San Vincenzo Ferrer, 18 e 28 ottobre 1988). (su!)
21. Esortazione apostolica Evangelica testificatio, 29 giugno 1971, n. 11. Il senso moderno del termine carisma è piú 
       ampio della sua esatta accezione: i doni enumerati da San Paolo come i miracoli e le profezie (1 Co 12, 7-11) dati ad alcuni 
       in vista dell’utilità della Chiesa, in opposizione con la grazia santificante che unisce la persona a Dio. (su!)
22. Esortazione apostolica Vita consecrata, 25 marzo 1996, n. 36. (su!)
23. GIOVANNI PAOLO II, Udienza del 5 agosto 1998, D. C., 2188, p. 765. (su!)
24. Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium n. 45a, in cui si precisa che l’Autorità conserva il potere di attuare 
       una migliore messa a punto prima di dare l’approvazione autentica (ulterius ordinatas authentice approbat). (su!)
25. Si tratta dell’intenzione oggettivamente manifestata dai testi e dagli atti. Questa intenzione non è necessariamente esclusiva 
       del desiderio o dell’aspirazione relative ad una futura evoluzione delle disposizioni degli interlocutori. Tuttavia, come 
       chiave di interpretazione può essere usato solamente ciò che è obiettivamente significato dagli scritti, dalle parole o dagli 
       atti nel loro contesto. (su!)
26. Dichiarazione di Dom Gérard, Priore di Le Barroux, (Cf. Journal Présent del 18 agosto 1988). (su!)
27. L’unione per mezzo dei legami dei sacramenti è compatibile con le diversità rituali delle loro celebrazioni, com’è provato 
       dall’esistenza dei diversi riti orientali cattolici. (su!)
28. Professio fidei e Jusjurandum fidelitatis, entrati in vigore il 1° marzo 1989 (D. C., n° 1982, pp. 378-379). (su!)
29. Can. 678 § 2. (su!)
30. Lettera di Mons. Benelli, 21 aprile 1976 (pubblicata in Itinéraires, aprile 1977, pp. 102-105). (su!)
31. Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo dei nostri tempi Gaudium et spes, n. 92: in necessariis unitas, in dubiis 
       libertas, in omnibus caritas. (su!)
32. Decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio, n. 4. (su!)
33. Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Mysterium Ecclesiæ del 24 giugno 1973, n. 5, e 
     Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990, n° 24. (su!)
34. Istruzione ..., nn. 30 e 32. (su!)
35. Qui ci riferiamo alle leggi ufficialmente approvate dalla Chiesa universale. La traduzioni, gli adattamenti, i permessi 
       particolari, cosí numerosi nella riforma liturgica, non potrebbero avvalersi nello stesso modo di questa tesi teologica.
       L’abbandono pratico della norma universale latina ha apportato qui delle conseguenze di cui bisogna prendere atto. (su!)
36. PAOLO VI, Enciclica Ecclesiam suam del 6 agosto 1964, nn. 77 e 81. (su!)
37. Decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio, n. 4. (su!)
38. Costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium,  n. 37. (su!)
39. Discorso ai monaci di Le Barroux, 28 settembre 1990 (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIII, 2 (1990), pp. 
       761-762). (su!)
40. Ripresa del Protocollo d’accordo, Rome-Fontgombault, 6-15  luglio 1988. (su!)
41. Costituzioni della Fraternità San Pietro, n. 8. (su!)
42. Costituzioni della Fraternità San Vincenzo Ferrer, n. 24. I libri liturgici sono indicati al n° 4 del decreto: “Messale e 
       breviario domenicano, Pontificale e Rituale romani, il cui uso era in vigore nel 1962”. (su!)
43. Journal Présent del 18 agosto 1988. (su!)
44. Prologue, n. 1, Livre blanc 1970-1990, al 16 marzo 1989. (su!)
45. Decreto sul rinnovamento e l’adattamento della vita religiosa Perfectæ caritatis, n. 2b. (su!)
46. Codice di diritto canonico, can. 576. Cf. Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium
       45a. (su!)
47. D. C., n° 1966, pp. 737-739. (su!)
48. “Atto prudenziale” non significa, come spesso si crede, scelta opportunistica relativa a degli atti di indifferente 
      qualificazione morale, dettata dall’abilità allo scopo di perseguire un dato fine. L’espressione sta ad indicare che è la virtú 
      cardinale della prudenza che svolge il ruolo centrale nella composizione dei diversi doveri che si presentano. Essa regola il 
      giusto mezzo conforme alla ragione nell’esercizio di tutte le virtú in causa. (su!)
49. Tutti questi termini figurano nel Motu proprio (nn. 5a e c,  6a, b e c). (su!)
50. Dichiarazione dottrinale, n. 3. (su!)
51. Un groupe de théologiens, “L’Ordo Missæ” in La Pensée catholique, n° 122, pp. 7-43; CARDINALI  OTTAVIANI E 
       BACCI, Breve esame critico del Novus Ordo Missæ, (Edizioni diverse); “Le saint sacrifice de la messe” in 
       Itinéraires, n° 146; PHILIPPE DE LA TRINITÉ, “L’offertoire du nouvel ordo missæ”, in La Pensée catholique, n° 
       129, pp. 26-40; M. L. GUÉRARD DES LAURIERS, “L’offertoire de la Messe et le Nouvel Ordo Missæ” in 
       Itinéraires, n° 158,  pp. 29-69; LOUIS SALLERON, La nouvelle messe (Paris, 1976); PROF. KLAUS GAMBER, 
     La réforme liturgique en question (Le Barroux, 1991); La Liturgie, n. 58-59 di Tu es Petrus; AIDAN 
       NICHOLS, Regard sur la liturgie et la modernité, (Genève, 1998). (su!)
52. L’essenza della liturgia consiste precisamente nell’esprimere nell’ordine dei segni il mistero che essa realizza. La teologia 
      si sforza di approfondire questo stesso mistero nell’intelligenza della fede. L’una e l’altra sono ordinati al culto di Dio, alla 
      contemplazione e alla vita della grazia. fatte salve la sua validità e la sua non-eterodossia, un rituale approvato dalla Chiesa 
      universale può essere piú o meno adatto a far entrare nella contemplazione del mistero, ad esprimerne la ricchezza 
      teologica, a disporre il fedele all’adorazione ed alla ricezione fruttuosa della grazia sacramentale. (su!)
53. Missale Romanum et Missel Romain, Paris, 1975. (su!)
54. Notitiæ, Pubblicazione della Congregazione per il Culto Divino, n. 92, aprile 1974. (su!)
55. È significativo che in certe diocesi i preti non possano dire la Messa (secondo l’Ordo di Paolo VI) in latino e orientati, 
      senza il permesso speciale del vescovo. Vi sono anche dei paesi in cui le Conferenze episcopali obbligano alla celebrazione 
      in volgare quando vi è l’assistenza del popolo. (su!)
56. Cf. GIOVANNI PAOLO II, Vita consecrata, n. 46. (su!)
57. SAN TOMMASO, Summa contra Gentiles, l. 3, c. 22, § 8; cf. De Potentia, q. 5, a. 1, arg. 7. (su!)
58. In un istituto di vita consacrata, le Costituzioni esprimono il modo in cui “la sequela di Cristo (…) è la regola suprema 
      della vita dei religiosi” (can. 662). Nelle Società di vita apostolica “i membri senza i voti religiosi perseguono il fine 
      apostolico proprio della loro società e (…) tendono alla perfezione della carità per mezzo dell’osservanza delle 
      Costituzioni” (can. 731, § 1), che “definiscono i loro obblighi e i loro diritti” (can. 737). (su!)
59. “L’obbedienza del giudizio” è quella che pretenderebbe di far coincidere il giudizio dell’intelligenza del soggetto con quello
      del Superiore. Essa è fuori dalla prospettiva della teologia tomista, la quale considera che l’obbedienza è una virtú che 
      perfeziona la volontà del soggetto ed ha per oggetto proprio il precetto del legittimo Superiore che esercita il comando nella 
      sfera della sua giurisdizione (cf. Summa Teologica, IIa IIæ, q. 104). (su!)
60. Cf. nn. 14, 32, 34, 50. (su!)
61. Udienza del 26 ottobre 1998 (D.C., n° 2193, p. 1012). (su!)
62. Ecclesia Dei, n. 5a. (su!)
63. Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, nn. 43a e 41b. (su!)
64. Norme della Congregazione per i Religiosi e della Congregazione per i Vescovi Mutuæ relationes, 14.5.1978, n. 
      11. (su!)
65. Can. 586 § 1. (su!)
66. Can. 586 § 2; cf. GIOVANNI PAOLO II, Vita Consecrata,  n. 48. (su!)
67. Commentaire du Code de droit canonique, Le droit de la vie consacrée, Normes communes, Paris, 1988, p. 
       80. (su!)
68. Cardinale Ratzinger, Conferenza del 27 maggio 1998 al Congrès mondial des Mouvements ecclésiaux (D. C. 2196, 
       91). (su!)
69. Enciclica Fides et ratio del 14 settembre 1998, n. 97. (su!)
70. Come dimostrato dall’interesse del mondo universitario per le traduzioni delle opere di San Tommaso, e da quello di certi 
      artisti per il gregoriano. (su!)
71. Ecclesia Dei, n. 5c. (su!)
72. Alcuni fanno notare che il non concelebrare sacramentalmente significa tradire una reticenza nei confronti del rito. Certo, 
      ma ogni reticenza è necessariamente illegittima? Abbiamo detto prima che sono proprio delle difficoltà riguardo al rito che 
      spiegano principalmente la scelta del monoritualismo. (su!)
73. Costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 57. (su!)
74. Can. 902. (su!)
75. La situazione della liturgia in certi istituti è analoga a quella che avevano le particolari liturgie degli Ordini religiosi in seno 
      alla liturgia latina. Queste erano considerate come statuti o privilegi personali, a differenza delle liturgie di certe diocesi, 
      come Lione e Milano, per esempio, che erano invece dei privilegi locali.
      Cosí, il diritto proprio dell’Ordine dei Predicatori rendeva obbligatorio dappertutto l’uso del rito domenicano 
      (Constitutions Gillet, 1954, n. 561). Lo stesso dicasi per il rito proprio dei Carmelitani dell’Antica Osservanza, che 
      doveva “essere osservato da tutti religiosi appartenenti a quest’Ordine, senza fare eccezione per coloro che verranno scelti 
      per dirigere delle parrocchie” (Décret de la Congrégation des Rites, 24 mai 1905).
      Il Motu proprio Ecclesia Dei, per un verso ha richiesto per i fedeli una “ampia e generosa applicazione” dell’Indulto del 
      1984 (n. 6c). Per l’altro ha costituito una Commissione che tra i suoi scopi statutari ha quello di realizzare “la piena 
      comunione ecclesiale dei preti, seminaristi, comunità religiose (…) che conservano le tradizioni liturgiche e spirituali 
      anteriori della tradizione latina” (n. 6a). L’erezione a questo fine di istituti di diritto pontificio dotati di speciali facoltà, crea 
      l’equivalente di un diritto personale accordato alla persona giuridica dell’istituto, e al quale i membri non possono 
      rinunciare liberamente (cf. canone 80, § 3).
      Ovviamente, noi parliamo solo di analogia, poiché il rito latino tradizionale è un bene comune di tutta la Chiesa e non è 
      riservato ai preti dei nostri istituti. (su!)
76. I Superiori maggiori degli istituti di diritto pontificio sono Ordinari propri dei loro soggetti (cf. canone 134, § 1). 
     (su!)
77. Cardinale Ratzinger, loc. cit. (su!)
78. Norme della Congregazione per i Religiosi e della Congregazione per i Vescovi Mutuæ relationes, 14.5.1978, n. 
      12. (su!)
79. Decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio, n. 4. (su!)

[Articolo pubblicato da Avvenir du Rit Traditionnelle]
 

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