Articoli diversi tratti da altre
fonti
Atti di fondazione e gesti di comunione
del R. P. Louis Marie de Bligniéres
Articolo apparso nel n° 68 della rivista trimestrale Sedes
Sapientiæ, pubblicata dalla Société Saint-Thomas
d’Aquin, 53340 Chémére Le Roi, Francia.
Il pellegrinaggio a Roma per il decimo anniversario del Motu Proprio
Ecclesia Dei ha confermato la vitalità della corrente tradizionale
in seno alla Chiesa. In quell’occasione, in maniera un po’ provocatoria,
la stampa ha parlato di “sostegno di Roma ai traditi”. Il discorso del
Santo Padre nell’udienza del 26 ottobre 1998, con il suo invito fraterno
ai vescovi “ad avere una rinnovata comprensione ed attenzione pastorale
per i fedeli legati al rito antico” (1),
ha sorpreso coloro che pensavano che le disposizioni del Motu Proprio avessero
un carattere eccezionale e provvisorio.
Noi cercheremo di far comprendere meglio una delle caratteristiche
degli istituti che sono sotto l’égida dell’Ecclesia Dei: vivere
la piena comunione ecclesiale nella fedeltà ai riti tradizionali,
e manifestare questa comunione con dei segni coerenti con questa scelta
fondamentale. Per far questo ci rifaremo alla natura degli atti fondatori
di questi istituti: e dopo averli collocati nel loro contesto storico ed
aver indicato le intenzioni specifiche che li hanno animati, sottolineeremo
il loro carattere di giudizi prudenziali. In seguito, sulla base del carisma
proprio di questi istituti, ci soffermeremo sui gesti di unità richiesti
dal Santo Padre “a tutti i cattolici” perché “la legittima diversità
e le differenti sensibilità, degne di rispetto, non li separino
gli uni dagli altri” (2).
Contesto storico
a) La crisi della Chiesa
La realtà della “crisi della Chiesa”, che si intreccia con la
crisi della modernità di cui è affetto il mondo del pensiero
e la società civile, è ormai riconosciuta sempre piú
diffusamente: crisi d’identità nei rapporti col mondo, nella trasmissione
catechetica della fede, nello slancio missionario, nella specificità
sacerdotale, nella vita religiosa, crisi, infine, delle vocazioni e crisi
della liturgia. La presenza di questi diversi elementi nella vita ecclesiale
di questi ultimi trent’anni, accompagnata da innegabili elementi positivi
e da numerosi segni di speranza, è stata rilevata da Paolo VI e
da Giovanni Paolo II, al pari del Cardinale Ratzinger e di altri autorevoli
responsabili, insieme a numerosi analisti interni ed esterni alla Chiesa.
La nascita degli istituti dell’Ecclesia Dei non potrebbe essere compresa
senza il riferimento a questo contesto di crisi postconciliare. Il Vaticano
II si proponeva di riaffermare e di sviluppare il tesoro della dottrina
cattolica, indicando le vie pastorali che sembravano le piú adatte
a richiamare l’attenzione degli uomini contemporanei: “È necessario
che questa dottrina certa e immutabile, alla quale ci si deve sottomettere
fedelmente, sia studiata ed esposta in maniera conforme alle esigenze dei
nostri tempi” (3). Non è
nostra intenzione studiare tutte le soluzioni pastorali a cui il Concilio,
nell’ottimismo degli anni sessanta, apriva le vie. Né tampoco ci
soffermeremo a considerare se le riforme postconciliari non abbiano largamente
oltrepassato ciò che chiedevano i Padri Conciliari.
Con il distacco che permette il tempo trascorso, appare chiaro che molte
di queste riforme, in sé stesse e piú ancora nelle loro applicazioni,
furono contrassegnate da notevoli deficienze, che compromisero l’attuazione
delle giuste intuizioni dei Padri conciliari. Tre di queste carenze, ci
sembra, hanno svolto un ruolo importante. Innanzi tutto l’aspetto pastorale
ha preso il sopravvento sul fondamento dottrinale richiamato e sviluppato
dal Concilio. In secondo luogo la cura per la continuità e l’omogeneità
sostanziale nello sviluppo del dogma e nell’evoluzione della liturgia è
stata insufficiente. Infine, la rapidità e l’universalità
delle riforme, unite alla brutalità della loro attuazione, hanno
contraddetto le dichiarazioni sulla soppressione dell’arbitrio.
Questo periodo è stato quello della crisi profonda della stessa
nozione di Tradizione. A dispetto dei richiami dottrinali di Paolo VI (4),
la continuità della Tradizione è sembrata vacillare, al punto
che l’ala progressista, compiacendosene, ha parlato di rottura, arrivando
in certi casi a dissentire apertamente sul contenuto della fede. Dall’altro
lato, il legame del magistero vivente con la Tradizione è sembrato
oscurarsi per l’insistenza sulle novità e per l’urgenza delle riforme.
Numerosi fedeli si sono sentiti abbandonati nelle mani dei novatori, ed
hanno disertato la pratica religiosa o si sono autoemarginati, fino a spezzare
in certi casi i legami della comunione gerarchica.
I punti piú sensibili di questo processo consistono nell’insegnamento
della teologia e nei problemi del catechismo e della liturgia. “Sono convinto
- ha scritto il Cardinale Ratzinger - che la crisi della Chiesa che viviamo
oggi è basata largamente sulla disintegrazione della liturgia” (5).
In questi tre àmbiti potevano realizzarsi dei veri progressi se
si fossero tenuti nel giusto conto le direttive del Concilio nelle loro
linee essenziali. Ma la chiave di un autentico progresso è
il rispetto di quanto è stato acquisito e trasmesso dai predecessori,
e, nel caso della Chiesa animata dallo Spirito Santo, dalla pietà
filiale nei confronti de “la Tradizione che ci viene dal Signore per mezzo
degli Apostoli, cosí come essa si è andata costituendo nel
corso della storia” (6).
Si ritrovano, su questi tre punti chiave, le carenze che abbiamo indicato
prima.
La confusione prodotta dalla prospettiva di adattamento pastorale ha
finito con l’emarginare, fino a farla apparire incongrua, la questione
del contenuto dottrinale, che è la norma per ogni giusta azione
nella Chiesa. Questo elemento ha assunto connotazioni spettacolari nella
nuova pedagogia catechetica, il cui scacco è oggi piú che
palese. L’assenza di cura per la continuità e l’omogeneità
ha finito col separare la teologia dalle sue fonti normative e col compromettere
il cuore della formazione sacerdotale. Bisognava invece integrare la strutturazione
speculativa apportata dalla saggezza tomistica, raccomandata dal Concilio,
con un arricchimento scritturale e patristico (7).
Infine, nello spazio di pochi anni, le riforme liturgiche hanno profondamente
modificato tutti i riti ed hanno imposto i cambiamenti senza neanche chiedere
il parere del popolo cristiano, e senza che nulla restasse delle antiche
forme. È il caso evidente della Messa, in cui la forma tridentina
del Messale latino classico è stata, se non formalmente abrogata,
quanto meno praticamente obrogata dall’imposizione quasi generale del nuovo
Ordo Missæ (8).
b) L’evoluzione in corso
Tuttavia, negli ultimi quindici anni, questa situazione ha subito una
evoluzione. La carenza dei catechismi, segnalata fin dal 1983 dal Cardinale
Ratzinger, ha trovato un inizio di soluzione con la pubblicazione del Catechismo
della Chiesa Cattolica, nel 1992. I grandi documenti pontifici degli ultimi
anni: Veritatis splendor, Ordinatio sacerdotalis, Evangelium vitæ,
Ad tuendam fidem, Fides et ratio, sottolineano il carattere normativo del
contenuto della fede, la sua armonia con le verità naturali e l’importanza
della continuità della Tradizione. Infine, la crisi della liturgia
è oggi riconosciuta anche al di fuori dei circoli tradizionalisti
(9), gli
abusi sono oggi oggetto di alcuni richiami all’attenzione, e la Messa tridentina,
con l’Indulto del 1984 e il Motu proprio del 1988, comincia ad uscire dall’interdizione
di fatto che gravava su di essa.
Il 2 luglio 1988, infatti, venne pubblicato il Motu Proprio Ecclesia
Dei (10). Se l’occasione per la sua
pubblicazione venne offerta dalla consacrazione, contro la formale volontà
del Papa, di quattro vescovi da parte di Mons. Marcel Lefèbvre,
è indubbio che quest’atto pontificio supera largamente quest’ultimo
problema. Innanzi tutto per il suo contenuto: una mediazione di grande
respiro sulla Tradizione, di cui si sottolinea lo sviluppo omogeneo e continuo
e il legame intimo col magistero vivente (n° 4), e anche una chiara
affermazione de “la legittimità […] della diversità dei carismi
e delle tradizioni di spiritualità e di apostolato” (n° 5a).
Secondo poi, per i suoi destinatari, che non sono solo “coloro che sono
stati legati al movimento sorto con Mons. Lefèbvre” (n° 5c),
ma anche “tutti i fedeli cattolici, […] i vescovi” (n° 5a) […], “i
teologi e gli esperti” (n° 5b). Il Papa li invita tutti a “riflettere
sinceramente sulla fedeltà alla Tradizione” e a “rifiutare tutte
le interpretazioni erronee e le applicazioni abusive in materia dottrinale,
liturgica e disciplinare” (n° 5a).
Quest’atto del magistero, lungi dall’essere puramente di circostanza,
si inscrive nel quadro della preoccupazione di riaffermare la continuità,
preoccupazione che caratterizza particolarmente questi ultimi anni del
Pontificato. La speranza che ànima il Santo Padre è quella
di porre fine alla mentalità di opposizione dialettica che rende
impossibile una lettura veramente cattolica del Vaticano II come elemento
della “dottrina della Chiesa, erede fedele della Tradizione esistente da
quasi venti secoli come realtà vivente che progredisce” (11).
Si tratta anche di dimostrare che una riforma, nell’affermare la sua continuità,
è degna di credibilità se non teme di lasciare un certo posto
nella Chiesa alle “forme liturgiche e disciplinari anteriori” (12).
In appoggio a questa lettura dell’Ecclesia Dei, come documento che va
oltre le circostanze che ne hanno determinato la nascita, si può
ricordare che nell’Udienza del 26 ottobre 1998, il Papa non fa alcuna allusione
all’ “atto scismatico” (13)delle
consacrazioni del 30 giugno 1988, per spiegare come “si deve leggere ed
applicare il Motu proprio Ecclesia Dei” (14).
2 Intenzioni specifiche
a) Il testo di riferimento
È su questo sfondo che si stagliano gli atti di fondazione degli
istituti dell’Ecclesia Dei (15). Sia
che esistessero da prima del Motu proprio, sia che siano stati fondati
in seguito, essi hanno ricevuto il loro statuto canonico grazie ad esso
o in riferimento ad esso. Gli uni sono stati eretti dalla Commissione Pontificia
Ecclesia Dei in virtú degli speciali poteri ad essa concessi dal
Sovrano Pontefice (16), gli
altri è da essa che hanno ricevuto certe facoltà liturgiche
(17).
In entrambi i casi, il testo di riferimento che aiuta a comprendere
gli atti di fondazione è un passo del Motu Proprio Ecclesia Dei
al quale rinvia il Rescritto del 18 ottobre (n° 6a). Esso concerne
coloro che “avendo avuto dei legami con la Fraternità fondata da
Mons. Lefèbvre, desiderano rimanere uniti al successore di Pietro
nella Chiesa cattolica, conservando le loro tradizioni spirituali e liturgiche
secondo (iuxta) il Protocollo firmato il 5 maggio precedente dal Cardinale
Ratzinger e da Mons. Lefèbvre” (18).
Due elementi integrano dunque l’atto col quale i fondatori degli istituti
dell’Ecclesia Dei hanno chiesto all’Autorità ecclesiastica il riconoscimento
canonico delle loro fondazioni:
- vivere in unione col Papa, e quindi nella piena comunione gerarchica
della Chiesa, con tutti gli oneri e tutti gli onori;
- conservare il patrimonio delle proprie tradizioni, sulla base di
norme precise contenute in un preciso testo espressamente nominato.
Questi elementi, costitutivi del carisma fondatore di ciascun istituto,
sono stati ricevuti o approvati dall’Autorità: per Le Barroux con
la Notificazione Ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede
(19)del
25 luglio 1988 (che fa esplicito riferimento a questo passo), per gli altri
istituti con i decreti d’erezione, che vi fanno implicito riferimento dichiarando
che la Commissione agisce “in virtú delle speciali facoltà
ad essa conferite dal Sovrano Pontefice Giovanni Paolo II” (20).
In effetti, nella fondazione di un istituto occorre prendere in considerazione
le due attuazioni che vi intervengono.
Da una parte, quella dei fondatori secondo il loro carisma. L’espressione,
impiegata da Paolo VI (21), è
ripresa da Giovanni Paolo II: “È richiesto innanzi tutto di essere
fedeli al carisma fondatore e al patrimonio spirituale costituito in ogni
istituto” (22); ed essa è
da lui utilizzata sia nel testo del Motu proprio sia nell’Udienza accordata
per il decimo anniversario dell’Ecclesia Dei.
Dall’altra, l’azione della gerarchia che, conformemente al principio
di sussidiarietà, non si sostituisce al carisma richiamato, ma concede
o rifiuta la garanzia di autenticità: “Da un lato [lo Spirito di
Dio] suscita direttamente l’attività dei credenti aprendo delle
vie nuove ed inedite all’annuncio del Vangelo, dall’altro esso rende autentica
la loro opera attraverso l’intervento ufficiale della Chiesa” (23). Per
indicare che esistono proprio due soggetti agenti, il Vaticano II descrive
“la funzione della gerarchia nella Chiesa”, in rapporto alle regole ‘proposte’
dai fondatori col verbo ‘ricevere’ (recipit)” (24).
Per comprendere la portata degli atti che hanno dato vita agli istituti
dell’Ecclesia Dei, è necessario dunque riferirli a queste due azioni
ed alle intenzioni specifiche (25)che
esse manifestano. L’azione dell’Autorità: ai superiori di questi
istituti, nel corso del 1988, i cardinali Ratzinger e Mayer, incaricati
dal Papa per la definizione del documento, hanno “proposto per conto del
Santo Padre il Protocollo firmato il 5 maggio e denunciato nella notte
tra il 5 e il 6 maggio” (26).
L’azione dei fondatori: che hanno accettato questa proposizione e, sulla
base di questa precisa norma, hanno sottomesso i loro progetti di vita
all’approvazione canonica.
b) L’intenzione della gerarchia
Qual è questa norma secondo la quale le due parti, ciascuno
per la sua competenza, si sono lealmente impegnate? Essa comporta una Dichiarazione
dottrinale e delle disposizioni giuridiche.
La Dichiarazione è composta da cinque punti:
1 - La professione di fedeltà alla Chiesa cattolica e al Romano
Pontefice;
2 - L’accettazione della dottrina della Lumen Gentium n. 25 sul magistero
e l’adesione che vi è dovuta;
3 - L’impegno per un atteggiamento positivo di studio e di scambio
con la Sede Apostolica, “a proposito di certi punti
insegnati dal Concilio Vaticano II,
o concernenti le riforme posteriori della liturgia e del diritto, che appaiono
difficilmente
conciliabili con la Tradizione”;
4 - Il riconoscimento della validità della Messa e dei Sacramenti
celebrati, con l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, secondo
le edizioni tipiche promulgate da Paolo
VI e da Giovanni Paolo II;
5 - La promessa del rispetto delle leggi disciplinari della Chiesa,
specialmente di quelle del Codice di diritto canonico del 1983,
“fatta salva la disciplina concessa
alla Fraternità [San Paio X] da una legge particolare”.
Ciò che colpisce in queste condizioni, è innanzi tutto
la loro concisione e il loro adeguarsi alla teologia piú classica.
L’Autorità considera come cattolico il battezzato che, sottomesso
alla gerarchia (n° 1), aderisce alla dottrina cattolica secondo l’assenso
dovuto al magistero (n° 2), riconosce la validità dei sacramenti
celebrati secondo i riti approvati (n° 4), e obbedisce alle leggi della
Chiesa (n° 5). Si ritrova in sostanza il canone 205 del Codice di diritto
canonico: “Sono pienamente nella comunione della Chiesa Cattolica su questa
terra i battezzati che sono uniti a Cristo nell’insieme visibile di questa
Chiesa, con i legami della professione di fede, dei sacramenti e del governo
ecclesiastico.” (27).
Si può anche notare che diversi di questi elementi si ritrovano
nella Professione di fede e nel Giuramento di fedeltà (28)che
devono pronunciare coloro che ricevono un incarico da esercitare in nome
della Chiesa. L’inciso finale del n° 5: “fatta salva la disciplina
particolare concessa alla Fraternità”, corrisponde esattamente a
“fatte salve la natura e il fine del mio istituto” del Giuramento di fedeltà,
e all’esigenza della “fedeltà alla disciplina dell’istituto” del
diritto che regola l’apostolato dei membri degli istituti di vita consacrata
(29).
In questa dichiarazione dottrinale si rileva anche una ampiezza di spirito
che, se confrontata con l’atteggiamento tenuto dalle autorità ecclesiastiche
nei confronti dei tradizionalisti nel corso dei vent’anni precedenti, costituisce
una novità. Si considerino, per esempio, le condizioni imposte da
Paolo VI a Mons. Lefèbvre come pregiudiziali per ogni riconciliazione:
accettazione senza alcuna riserva del Concilio e “di tutti i suoi documenti”,
accettazione della “totalità dell’insegnamento” di Paolo VI, e impegno
“ad adottare e a fare adottare, nelle case che dipendono da [Mons. Lefèbvre],
il Messale che [Paolo VI] ha lui stesso promulgato” (30).
In uno spirito del tutto diverso, la Dichiarazione dottrinale, conformemente
alle raccomandazioni del Vaticano II, applica “nel seno stesso della Chiesa”,
l’adagio “unità nella necessità, libertà nel dubbio,
in tutti i casi la carità” (31), che
è uno dei principi conduttori dell’ecumenismo cattolico (32).
Per la prima volta viene affrontata in tutta la sua ampiezza una difficoltà,
il cui principio stesso sembrava essere stato scartato fino ad allora:
quella di conciliare certi punti del Concilio, e delle riforme ad esso
posteriori, con la Tradizione (n° 3). Nel Motu proprio, Giovanni Paolo
II indicherà un fondamento oggettivo di questa difficoltà,
richiamando “quei punti della dottrina che, forse a causa della loro novità
(cum fortasse novæ sint), non sono stati ben compresi da certe parti
della Chiesa” (n° 5b). Su questi punti, fatto salvo evidentemente l’atteggiamento
dovuto ad un testo del magistero (cfr. n° 2), è richiesta non
una ricezione senza riserve, che tratterebbe con preterizione le deficienze
che si possono riscontrare perfino in un testo magisteriale (33),
ma “un atteggiamento positivo di studio e di scambio con la Sede Apostolica,
evitando ogni polemica”. Si ritrova qui l’apertura manifestata dal magistero
nel dialogo con i teologi: “Se, nonostante gli sforzi leali, le difficoltà
persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità
magisteriali i problemi che solleva un insegnamento, di per sé,
per le giustificazioni che ne sono proposte o per il modo con cui è
presentato”. Chiedendo di evitare ogni polemica, dunque, si intende eliminare
solo “quell’atteggiamento pubblico di opposizione al magistero della Chiesa,
chiamato anche ‘dissenso’” (34).
Per la conclusione dell’accordo, un punto è stato decisivo: quello
che riguarda i nuovi rituali della Messa e dei Sacramenti. La Dichiarazione
dottrinale non esige piú la loro utilizzazione abituale o puntuale,
ma solo il riconoscimento della loro validità allorché sono
“celebrati […] secondo i riti indicati nelle edizioni tipiche” (n°
4). Era noto a tutti che, per Mons. Lefèbvre, la riforma liturgica
comportasse degli aspetti che egli considerava “difficilmente conciliabili
con la Tradizione”. Evitare la polemica, riconoscere la validità
del Novus Ordo nei testi ufficiali latini, comunicare con la Santa Sede
sulle difficoltà: ecco ciò che gli veniva richiesto, in conformità
con la teologia classica dell’assistenza dello Spirito Santo per le leggi
universali della Chiesa, che garantisce almeno la validità e la
non-eterodossia, ma non preserva necessariamente da ogni deficienza (35).
La “disciplina speciale concessa alla Fraternità [San Pio X]
da una legge particolare” (n° 5), garantiva peraltro l’uso esclusivo
dei libri liturgici del 1962. È di una importanza assoluta considerare
che è stata questa disposizione a rendere possibile l’accordo sul
Protocollo, e quindi la costituzione degli istituti dell’Ecclesia Dei.
Supporre che si trattasse di un’abile manovra, e che la Santa Sede si riservasse
di costringere in un secondo momento il firmatario, e coloro che dopo di
lui avessero accettato il Protocollo, alla celebrazione anche occasionale
dei riti che creavano a costoro delle difficoltà, significa imputare
alla Santa Sede la mancanza di trasparenza nelle intenzioni e la mancanza
di sincerità che caratterizzano ogni dialogo condotto nello spirito
della Chiesa. “Le caratteristiche del dialogo sono: innanzi tutto la chiarezza,
[…] la dolcezza, […] la fiducia […] la prudenza; […] il clima del dialogo
è l’amicizia” (36).
Immaginare inoltre che una tale slealtà sia stata reiterata nel
Motu proprio (che è un atto solenne del magistero) quand’esso si
riferisce al Protocollo, è cosa ancora piú inverosimile.
L’intenzione specifica dell’Autorità che ha eretto gli istituti
dell’Ecclesia Dei, cosí come è manifestata oggettivamente
nei testi e negli atti dell’estate del 1988, consiste dunque nel rispettare
la giusta libertà tanto nelle varie forme di vita spirituale e di
disciplina, quanto nella varietà dei riti liturgici” (37), pur
imponendo ciò che è strettamente “necessario all’unità.
Il Santo Padre ha egli stesso applicato a questo caso singolare il passo
del Vaticano II (38)che afferma
che “la Chiesa, nei dominii che non concernono la fede o il bene di tutta
la comunità, non desidera imporre, neanche per la liturgia, la forma
rigida di un testo unico” (39).
c) L’intenzione dei fondatori
L’intenzione specifica dei fondatori degli istituti dell’Ecclesia Dei
è anch’essa incontestabile. Tutti aspirano a vivere nella piena
comunione ecclesiale il loro progetto di vita religiosa o apostolica, conservando
quelle discipline, quelle pedagogie, quei rituali tradizionali ai quali
è ancorata tutta la loro aspirazione spirituale, astenendosi esattamente
da tutti quei fattori che avevano creato loro delle difficoltà per
quasi vent’anni. Essi avrebbero rifiutato una concessione esplicitamente
temporanea o una formula biritualista, consci peraltro del fallimento di
tutti i tentativi anteriori che erano stati condotti in questo senso (Seminario
del Leonianum e della Mater Ecclesiae, a Roma). Peraltro, i fondatori delle
Fraternità San Pietro e San Vincenzo Ferrer, ai primi di luglio
a Roma, lo hanno spiegato lealmente ai Cardinali Ratzinger e Mayer che
regolarizzavano la loro situazione canonica e rilasciavano le autorizzazioni
per celebrare (celebrets) secondo il rito tradizionale. In un testo firmato
dagli stessi Cardinali e dai fondatori dell’Opus Mariæ, e inviato
a Mons. Perl, Segretario della Commissione Ecclesia Dei, era inclusa questa
condizione del monoritualismo tradizionale (40).
Le Costituzioni di queste due Fraternità comportano peraltro
una disposizione in questo senso: “Il fine particolare della Fraternità
San Pietro è di realizzare questo scopo (la santificazione dei preti)
per mezzo della fedele osservanza delle ‘tradizioni liturgiche e spirituali’,
conformemente alle disposizioni del Motu proprio Ecclesia Dei del 2 luglio
1988 che è all’origine della sua fondazione” (41). “Nella
celebrazione della Santa Messa e dell’ufficio divino, i membri della Fraternità
[San Vincenzo Ferrer] sono tenuti ad utilizzare i loro libri liturgici,
propri ed approvati, secondo le norme del Decreto d’erezione della Fraternità”
(42).
Da parte sua, dom Gérard, fondatore dell’Abbazia di Le Barroux,
dichiarava: “Ciò che noi chiedavamo sin dall’inizio (messa di San
Pio V, catechismo, sacramenti, il tutto in conformità col rito della
Tradizione secolare della Chiesa) ci è stato accordato, senza contropartita
dottrinale, senza concessioni, senza rinnegamenti” (43).
Le Dichiarazioni dell’Abbazia precisano che “la liturgia della Messa [e
dell’Ufficio divino], celebrata secondo i riti piú che millenari
della Santa Chiesa Romana, in lingua latina” è una delle “due fonti
che hanno dato vita alla comunità di Le Barroux e che costituiscono
la sua ragion d’essere (rationem eius existentiae constituunt)” (44).
Il monoritualismo tradizionale è proprio uno degli elementi di
quello “spirito dei fondatori e delle loro intenzioni specifiche (propriaque
proposita)” che il vaticano II richiede di “porre in piena luce e di mantenere
fedelmente” (45). L’Autorità
della Chiesa considera che uno dei suoi doveri consista nel “vegliare,
da parte sua, a che gli istituti crescano e fioriscano secondo lo spirito
dei fondatori e le loro sane tradizioni” (46). Evidentemente,
il progetto di vita dei fondatori non si riduce solo a quest’aspetto. Esso
include soprattutto il patrimonio di spiritualità propria a ciascuno
degli istituti. Comporta la determinazione: a trarre tutte le conseguenze
dalla piena comunione ecclesiale, secondo le indicazioni dei cinque punti
della Dichiarazione dottrinale del Protocollo; a rifiutare ogni inganno
disciplinare; a coltivare la trasparenza nei confronti delle autorità,
la vigilanza contro lo spirito di acredine o il separatismo, gli scambi
effettivi con gli altri settori della Chiesa.
Ma l’erezione canonica di istituti che portano questa intenzione fondatrice,
traduce nei fatti, in maniera convincente, la promessa della Santa Sede
contenuta nella Nota d’informazione del 16 giugno 1988 (47), in
cui si può leggere nella conclusione: “un pressante appello ai membri
della Fraternità [San Pio X] e ai fedeli che ad essa sono legati,
perché riconsiderino la loro posizione e vogliano restare uniti
al Vicario di Cristo, assicurando loro che verranno adottate tutte le misure
atte a garantire il rispetto della loro identità nella piena comunione
con la Chiesa cattolica”.
3. Giudizi prudenziali
a) Un atto prudenziale normativo
Occorre adesso precisare l’esatta natura di un atto fondatore. Come
indica il suo stesso nome, esso scaturisce dall’agire morale e impegna
per l’avvenire. Si tratta dunque di un atto prudenziale, nel senso tomistico
del termine (48), atto
che è normativo nei confronti di altri atti ulteriori derivati dalla
sua promulgazione.
Come atto prudenziale, esso integra un insieme di dati complessi, che
rientrano nella deliberazione dell’intelligenza pratica e guidano il giudizio
morale che la completa. Non è un discorso speculativo che analizza
in astratto, una dimostrazione in cui tutti gli elementi aspirano alla
necessità apodittica e all’universalità. La fondazione di
un istituto legato al servizio delle forme disciplinari, liturgiche, apostoliche
e spirituali della tradizione latina (49)nel
contesto della crisi ecclesiale, e in seguito alla rottura determinatasi
con le consacrazioni del 30 giugno 1988, è un atto prudenziale.
Attuare questa fondazione secondo una intenzione fondatrice che comporta
il monoritualismo tradizionale, aderire a questi istituti con la professione
o con l’impegno: si tratta sempre di atti che si configurano come giudizi
prudenziali.
b) Le considerazioni preliminari del giudizio
Questi giudizi sono illuminati dai principi necessari della teologia
della Chiesa e dei sacramenti. Essi attuano questi principi nel contesto
di una materia soggetta a cambiamento, in cui spesso si tratta piú
di convenienze, di inconvenienti e di probabili pericoli, che di necessità
assolute. Verranno effettuate delle analisi sui diversi aspetti della crisi
della Chiesa, le quali saranno caratterizzate da un elemento contingente,
con particolare riferimento ai tre elementi segnalati prima (teologia,
catechesi e liturgia). Interverranno anche considerazioni di giustizia
naturale e di lealtà umana nei confronti dei preti, dei religiosi,
dei seminaristi e dei fedeli che si sono affidati ai fondatori e li hanno
seguiti lungo questa via, spesso a prezzo di grandi sacrifici. Entreranno
in giuoco gli apprezzamenti di efficacia apostolica: un profondo ancoraggio
ad una chiara identità è cosa necessaria per condurre un’azione
ardita e rinnovatrice nel quadro della nuova evangelizzazione. Entrerà
in giuoco la cura per la stabilità delle forme della vita quotidiana.
Sarà tenuto conto della pace e dell’unità che assicurano
le forme tradizionali a confronto del carattere evolutivo e della varietà
delle pratiche derivate dalla riforma. Saranno presentate le legittime
preoccupazioni “ecumeniche” nei confronti di quei nostri fratelli che si
sono trovati coinvolti in una dissidenza che ancora si prolunga, ma che
talvolta soffrono profondamente di questa separazione.
Uno degli elementi fondamentali che intervengono nell’assunzione del
giudizio prudenziale, riguarda le difficoltà che presenta per noi
la riforma liturgica, difficoltà che sono presi in considerazione
nel Protocollo d’accordo del 5 maggio (50). Nel
quadro di questo articolo possiamo solo rinviare ad alcuni studi seri,
anche se diverse delle loro analisi o conclusioni occorrerebbe che fossero
completate o talvolta corrette (51). Le
difficoltà esposte in questi lavori riguardano la presentazione
della teologia della messa (52), con
particolare riferimento alla sua realtà di sacrificio propiziatorio,
al ruolo svolto dalla presenza reale nell’economia del sacrificio, alla
collocazione rispettiva del prete e dell’assemblea.
Altri studi analizzano le gravi deficienze di certe traduzioni in lingua
volgare, come quella del Padre Renié (53). Altri,
infine, sottolineano il carattere polimorfo ed evolutivo della riforma
che, secondo la testimonianza del suo principale artefice, Mons. Annibale
Bugnini, comprende anche le tappe “dell’adattamento (o incarnazione) della
forma romana della liturgia negli usi e nelle mentalità di ogni
Chiesa […] e di ciascuna delle assemblee in preghiera” (54).
Secondo “l’attitudine positiva di studio e di scambio” richiesta dal
Protocollo, sarebbe altamente auspicabile che si instaurasse un vero dialogo
con la Santa Sede e con i vescovi su queste diverse questioni.
La scelta normativa del monoritualismo, fatta con gli atti di fondazione,
è una scelta pratica che deve integrare tutti gli altri elementi.
Non si tratta di condurre uno studio accademico su tale o talaltro aspetto
della riforma. Si tratta di constatare che, nello spirito dei suoi iniziatori
e nella realtà ecclesiale quotidiana, essa forma un tutt’uno, peraltro
ancora in evoluzione. È estremamente difficile (salvo per alcune
abbazie o per qualche prete isolato) dissociare una parte da questo tutto.
Per esempio: utilizzare solo la Preghiera Eucaristica I (la piú
vicina all’antico canone romano). È anche pressoché impossibile
rifiutare la dinamica interna del movimento senza creare delle gravi tensioni
con i confratelli, con i richiami all’ordine da parte dei vescovi (55).
Nel quadro del diritto liturgico scaturito dalla riforma, un istituto
potrebbe statutariamente imporre ai suoi membri la forma piú tradizionale
della riforma liturgica e, al tempo stesso, rifiutare le numerose possibilità
ad libidum che essa offre? La risposta sembra piuttosto negativa.
In ogni caso, l’esempio dei membri di certe comunità canoniche
o apostoliche che celebrano secondo l’Ordo di Paolo VI, è sotto
gli occhi di tutti. Malgrado la loro netta preferenza per il rito latino
orientato e per la comunione secondo la sua forma tradizionale, esse si
vedono costrette a celebrare quasi al pari del resto del presbyterium delle
diocesi in cui sono accolte, e cioè in volgare, rivolti al popolo
e con la comunione sulla mano.
c) Un atto normativo solo per i nostri istituti
La scelta del monoritualismo tradizionale, come normativa per gli istituti
dell’Ecclesia Dei, è un atto che impegna, è il caso di sottolinearlo,
solamente questi istituti e coloro che vi entrano. Non si tratta affatto
di una condanna delle altre scelte possibili nel seno della comunione ecclesiale,
o della riprovazione di coloro che si impegnano su altre vie. Sfortunatamente,
certuni, tra il clero o i fedeli, si ingannano su questo punto. È
necessaria una migliore comunicazione per fare chiarezza. Alcuni membri
degli istituti dell’Ecclesia Dei, con le loro parole o i loro comportamenti,
è possibile che abbiano accreditato il contrario. Questo modo di
fare, che offende la carità, non può essere che disapprovato
dai Superiori e richiede che venga corretto immediatamente. Infine, è
possibile che certi fedeli che si sono affidati ai nostri istituti abbiano
manifestato uno spirito di separazione, ma costoro sono segnati da un passato
doloroso o sono stanchi di vedere le loro legittime richieste rimanere
senza risposta. Noi dobbiamo fare il possibile per richiamarli in seno
alla Chiesa (sentire cum Ecclesia) (56), supplicando
rispettosamente i Pastori di considerarli come pecore del gregge che Cristo
ha loro affidato.
Per altro verso, gli atti di fondazione impegnano per l’avvenire, ovviamente
nei limiti imposti dalle vicende umane. Un decreto d’erezione può
essere annullato dall’autorità a causa della sparizione dell’oggetto
dell’istituto, della mancanza del soggetto, o per una grave mancanza nei
confronti della fede o della disciplina. Ma, di per sé, esso è
permanente. Le Costituzioni possono essere modificate (con l’approvazione
della Santa Sede) da un Capitolo generale, ma l’esperienza dimostra che
intaccare ciò che costituisce o protegge direttamente il patrimonio
dell’istituto significa creare le premesse della catastrofe; come si è
visto nei numerosi Capitoli di “rinnovamento” del 1968. Poiché,
secondo l’adagio filosofico, “le cose si conservano in essere per mezzo
delle stesse cause che hanno loro dato vita” (57).
Infine, ciascuno aderisce liberamente ai diversi elementi del patrimonio
dell’istituto. Il dovere dei formatori è di esporli lealmente. Il
dovere dei candidati è di discernere se la loro vocazione vi corrisponde
e di decidere con chiarezza prima dell’impegno definitivo. Su un punto
di tale importanza, è indispensabile un impegno leale a rispettare
le intenzioni fondatrici e ad ubbidire secondo quanto richiesto dalle Costituzioni
(58). Ma
quell’ “obbedienza del giudizio” (59)che
richiederebbe una adesione intima al fondamento di ogni orientamento, non
è affatto richiesta. Di contro, sono necessari il rispetto delle
esigenze di unità e di carità fraterne dell’istituto, la
docilità verso i Superiori e la saggezza che tenga in conto le gravi
difficoltà dei tempi della fondazione, accresciute dall’instabilità
dell’epoca moderna.
4. Carisma proprio e “gesti di unità”.
a) L’invito del Papa
“Secondo lo spirito di conversione della lettera apostolica Tertio
millenio adveniente (60), esorto
tutti i cattolici a compiere dei gesti di unità e a rinnovare la
loro adesione alla Chiesa, perché la legittima diversità
e le differenti sensibilità, degne di rispetto, non li separino
gli uni dagli altri, ma li spingano ad annunciare insieme il Vangelo; cosí,
stimolati dallo Spirito che fa concorrere tutti i carismi all’unità,
tutti potranno glorificare il Signore e la salvezza sarà proclamata
a tutte le nazioni.” (61).
Ricevendo i pellegrini venuti a Roma per il decimo anniversario dell’Ecclesia
Dei, il Santo Padre è ritornato su un tema che gli è caro.
Diverse sono le idee in esso presenti:
- la diversità dei carismi, ed anche delle sensibilità,
è legittima;
- tutti sono invitati a compiere dei gesti di unità, affinché
la diversità non nuoccia all’unità;
- ma contribuisca all’efficacia della testimonianza apostolica.
Ritroviamo qui un’idea molto tradizionale, forse andata un po’ perduta
nel XIX e nel XX secolo sotto la spinta dell’ostilità del mondo
nei confronti della Chiesa, la quale ha dovuto reagire con una centralizzazione,
legittima in sé, ma non indenne dal pericolo dell’uniformizzazione.
Questa idea è che una sana diversità “rappresenta una ricchezza”
(62).
b) Il carattere proprio
Per quanto riguarda la vita religiosa ed apostolica, quest’idea si
traduce nel principio che i diversi istituti, come peraltro le diocesi,
non sono solo dei dipartimenti amministrati dall’alto, che traggono tutti
la loro sostanza dall’azione gerarchica. Ma sono “delle famiglie diverse
del cui capitale beneficiano insieme e i membri di queste famiglie e tutto
il Corpo di cristo”. È per questo che “la Chiesa difende e sostiene
il carattere proprio di ciascun istituto”. (63).
Il recente magistero è cosciente dell’importanza di questo carattere
proprio nel contesto attuale. “In questo periodo di evoluzione culturale
e di rinnovamento ecclesiale, è necessario che sia salvaguardata
l’identità di ciascun istituto, con una garanzia tale che sia evitato
il pericolo di una situazione insufficientemente definita, per la quale
i religiosi si inserirebbero in seno alla vita della Chiesa in maniera
vaga ed ambigua, non riferendosi nella maniera dovuta al modo specifico
derivante dal loro carattere proprio (indolis proprii)” (64).
Da questo punto di vista, il Codice di diritto canonico, a seguito del
Vaticano II, insiste sulla “giusta autonomia” (65)di
cui deve godere ogni istituto, autonomia che gli Ordinarii del luogo hanno
il dovere “di salvaguardare e di proteggere (servare ac tueri) (66). È
dunque giusto che le manifestazioni concrete di unità ecclesiale
siano conformi a ciò che il Codice chiama “il diritto proprio” degli
istituti. Da circa trent’anni l’importanza di questo diritto è stata
messa meglio in luce. A questo proposito, il Padre Beyer, s. j., specialista
riconosciuto della vita consacrata, ha scritto: “Le autorità ecclesiastiche
non devono modificarlo, limitarlo o costringerlo nell’autonomia “interna”,
che impedirebbe la sua testimonianza e il suo pieno irraggiamento” (67).
c) Il senso del bene comune
Per altro verso, questa diversità deve condurre all’unità,
e ciò deve realizzarsi concretamente. E qui ci si scontra con una
difficoltà: come conciliare legittima diversità e unità
ecclesiale? Bisogna riconoscere che la profonda perdita del senso del bene
comune, che segna la crisi della modernità, con l’affermazione sempre
piú imperiosa dei diritti dell’individuo e con l’assenza sempre
piú evidente di valori comuni, costituisce un serio ostacolo. Nel
caso della Chiesa, questa situazione si è tradotta (ed è
stata favorita) nell’abbandono pratico dei grandi segni e dei grandi veicoli
dell’universalità: la lingua sacra nel patriarcato latino, la formazione
dei chierici secondo le comuni pedagogie (con i rinnovamenti biblici e
tomistici), il rispetto delle norme liturgiche e canoniche; elementi questi
che avevano caratterizzato i pontificati moderni eredi dello spirito classico,
da Leone XIII a Pio XII.
La manifestazione dell’unità deve integrare questa realtà
attuale dell’indebolimento dei comuni riferimenti capaci di incarnare la
cattolicità della Chiesa e deve sostenere il senso del primato del
bene comune. Applicare artificialmente le esigenze corrispondenti a tempi
di grande unità culturale, liturgica e teologica, ad una situazione
che è all’opposto, significherebbe ricadere in quel formalismo da
cui proprio i promotori delle riforme volevano liberarsi. Significherebbe
entrare in contraddizione interna con l’inculturazione auspicata da molti
teologi e, in una certa misura, dallo stesso magistero. Si può anche
affermare che questo significherebbe uscire dalla linea generale delle
riforme postconciliari. Queste sono segnate da una polimorfia liturgica,
da una flessibilità giuridica, da un certo pluralismo teologico
che rendono incongrua l’imposizione autoritaria di segni uniformi di comunione.
La diminuzione dei referenti comuni ha favorito in questi ultimi anni
lo sviluppo di un linguaggio particolare, una sorta di “langue de bois”
ecclesiastica, che sembra avere origine nel desiderio di evitare ogni affermazione
troppo precisa allo scopo di non urtare nessuno. In questo contesto, il
linguaggio diretto ed esplicito del Papa, quando si rivolge al mondo e
ai giovani, è percepito come una vera liberazione. “Non abbiate
paura di dire chiaramente la verità” sembra dirci in qualche modo.
A noi sembra che il primo sforzo per ricomporre l’unità consista
proprio nell’essere chiari, in particolare sulle condizioni dell’appartenenza
ecclesiale e sulla nozione di comunione. “Non si può sostenere il
concetto di comunione secondo cui il valore pastorale supremo consiste
nell’evitare i conflitti” (68).
d) Il nostro contributo
Su questo punto, gli istituti dell’Ecclesia Dei possono apportare il
loro contributo. Se essi sanno rimanere al loro posto, smentendo, con il
loto comportamento rispettoso ed aperto, l’accusa di costituire un “Chiesa
di fatto”, possono essere i testimoni di certe forme tradizionali che un
tempo costituivano il tessuto comune della cultura ecclesiastica, forme
tradizionali che, attualizzate secondo i bisogni del momento, possono fornire
(insieme ad altre) degli utili elementi correttivi.
Nel dominio della teologia, l’esistenza dei loro centri di studi tomistici
può essere di grande aiuto nel momento in cui il magistero invita
a riscoprire una “filosofia dell’essere” (69). La
loro partecipazione a delle riviste filosofiche e teologiche, a degli incontri
con altre scuole, a degli scambi con i centri di formazione delle diocesi
e con gli istituti di diversa tradizione, a dei congressi, nonché
il loro inserimento nei centri d’insegnamento civili ed ecclesiastici,
in particolare nelle facoltà canoniche, non costituirebbero dei
possibili “segni di unità”? Occorrerà indubbiamente “uno
spirito di conversione”: da parte degli istituti, con un accresciuto interesse
per la ricerca e il dibattito, da parte degli altri con una maggiore apertura
nei confronti della scuola di pensiero dei primi, cosa che peraltro incominciano
a riscoprire certi settori profani (70).
Nel dominio della catechesi, sulla base del Catechismo della Chiesa
Cattolica,, non è possibile pensare che uno dei “segni d’unità”
potrebbe consistere, come si fa già in alcune diocesi, nel conferire
a dei membri di questi istituti e a dei fedeli ad essi vicini, assicurandosi
che abbiano le qualità morali e dottrinali richieste, una parte
nella catechesi degli adulti, nella formazione permanente, nella preparazione
al matrimonio, nella cura dei centri cristiani?
Infine, nel dominio della liturgia, che è quello piú sensibile,
sarebbe auspicabile che ci si metta d’accordo con calma su dei segni di
comunione che siano sufficientemente espliciti, senza nascondersi i problemi
reali che sussistono e senza violentare le coscienze. Non si ottiene niente
di duraturo fingendo di ignorare le difficoltà o forzando le persone.
In una sana antropologia, il gesto deve innanzi tutto essere vero per essere
significativo. Diversamente si contribuisce a creare confusione, si favorisce
l’ipocrisia e si rischia di generare ciò che gli psicologi chiamano
“riaffiorare del rimosso”.
e) I segni di comunione
Gli istituti dell’Ecclesia Dei hanno in comune “forme liturgiche e
disciplinari della precedente tradizione latina” (71). I
segni di comunione, per essi, devono potersi iscrivere in questa tradizione.
Ora, tradizionalmente, il segno indubitabile col quale si riconosceva la
validità di un rito della Messa e si dimostrava di essere in comunione
cattolica col celebrante, era costituito dall’assistenza a questa Messa
e dalla ricezione della comunione nel corso della sua celebrazione. Noi
proponiamo dunque questo gesto d’unità, che è sufficiente
nei confronti della teologia della Chiesa e della natura dei segni sacramentali.
Affermare che un prete che assiste ad una messa e vi si comunica, vestito
col suo abito religioso e con la stola, non vi “partecipa” (o quanto meno
non tanto da riconoscerne la validità e la non-eterodossia), significa
veramente non tenere in alcun conto la storia della liturgia e manifestare
una concezione tutta clericale della partecipazione al Sacrificio della
Messa! Se la comunione sacramentale, fatta con le insegne del proprio ordine,
non manifesta che il prete è in comunione ecclesiale, allora siamo
davvero di fronte ad un grosso problema (72).
Bisogna averla vinta, ad ogni costo? Bisogna imporre, come àuspicano
certi vescovi, la concelebrazione sacramentale secondo il rito riformato,
ai preti, o quanto meno ai Superiori, degli istituti dell’Ecclesia Dei,
alla Messa crismale o nei grandi raduni diocesani? Una tale richiesta può
solo derivare da una concezione senza fondamento teologico: quella che
vede nella concelebrazione sacramentale, non solo una “manifestazione opportuna
dell’unità del sacerdote” (73), ma
l’unico segno della comunione ecclesiale. Essa si opporrebbe esplicitamente
al diritto universale (74)che
in questo campo lascia la libertà ai preti. Inoltre, costituirebbe
una negazione, su un punto cruciale, degli impegni presi dalla gerarchia
nell’estate del 1988 nei confronti dei preti che hanno rifiutato lo scisma.
Questa soluzione appare dunque impensabile.
Si può considerare, tuttavia, che nella speranza di sbloccare
una situazione difficile, si esiga dai Superiori che su questo punto lascino
ai preti dei loro istituti ogni libertà. Questa soluzione solleverebbe
molti piú problemi di quanti ne risolverebbe. Riteniamo che non
sia ragionevole, né conforme al principio di sussidiarietà.
Occorrerebbe infatti disconoscere una delle caratteristiche fondanti degli
istituti dell’Ecclesia Dei: il monoritualismo tradizionale. Occorrerebbe
non tenere in alcun conto le difficoltà relative alla riforma liturgica,
che sono elementi decisivi della scelta fondatrice. Peraltro, questa soluzione
si opporrebbe al diritto proprio degli istituti, che hanno legiferato sull’uso
esclusivo dei libri liturgici del 1962 (75),
ridurrebbe indebitamente l'autorità dei Superiori (76)e
metterebbe in pericolo il governo, l’unità e la stessa perennità
degli istituti dell’Ecclesia Dei. Essa introdurrebbe, contrariamente all’
“utilità del fedeli” citata nel canone 902, dei gravi elementi di
divisione tra i fedeli che si sono affidati a questi istituti. Infine,
essa annullerebbe la credibilità dell’Ecclesia Dei come alternativa
alla dissidenza lefebvriana.
Per gli istituti a vocazione apostolica, impegnarsi in tale direzione
significherebbe accettare in pratica e in linea di diritto il biritualismo.
È piú che evidente che le richieste provenienti da piú
parti in favore della concelebrazione sono associate, qua e là,
a dei suggerimenti in questo senso, al pari della sorprendente affermazione
che i preti degli istituti dell’Ecclesia Dei non sono legati ad una delle
“forme del messale romano” (quello del 1962 o quello del 1969) piuttosto
che ad un’altra. Quanto a coloro che vogliono cancellare le “sopravvivenze”
del rito tradizionale, non si accontenteranno certo di gesti simbolici
occasionali. D’altronde, in nome di che gli istituti votati all’apostolato
rifiuterebbero il ruolo di organismi che celebrano il nuovo rito, dal momento
che esso fosse accettato in linea di principio attraverso la concelebrazione?
Questo condurrebbe ad una divisione interna ed esterna degli istituti,
ad una riduzione del loro reclutamento, allo scoraggiamento e alla dispersione
dei fedeli che si sono fidati della Santa Sede nel 1988. Significherebbe
pagare con parecchio disordine e tante divisioni ciò che dovrebbe
essere un gesto di pace e di unione!
La soluzione che proponiamo, in armonia con l’antico e con l’attuale
diritto della Chiesa, ci sembra piú saggia perché piú
reale. Sarebbe poco onesto nei confronti degli altri e nei confronti di
noi stessi attuare pubblicamente un gesto che accrediterebbe l’idea che
la riforma liturgica non ci pone piú alcun problema. Il nostro comportamento
deve integrare questa funzione di testimonianza, nel rispetto della gerarchia
e di tutte le persone che non condividono il nostro giudizio.
Senza dubbio una tale testimonianza è martoriante, fonte di
incomprensioni, di difficoltà ed anche di certi ritardi nei confronti
della nostra missione evangelizzatrice, ma riteniamo che essa è
necessaria e costituisce un utile stimolo per spingere ad esaminare e a
superare dei problemi che non si risolvono ignorandoli. Il servizio che
possiamo rendere all’unità ecclesiale non può collocarsi
che nella verità. “Un progetto di unità ecclesiale nella
quale l’irrigidimento dei conflitti fosse evitato in nome di una pace artificiale,
rinunciando alla totalità della testimonianza, si rivelerebbe ben
presto illusorio” (77).
D’altronde, non è la prima, né sarà l’ultima volta
nella storia della Chiesa, che delle crisi interne, in cui le parti possono
essere ugualmente in buona fede e animati dalla carità, suscitano
delle prove che le purificano e le rendono piú autentiche, secondo
“la costante storica del legame tra il carisma e la Croce” (78). Chi
può dire in che misura il sacrificio che comporta il sostenere le
tensioni attuali per la coesistenza dei due riti, prepari per l’avvenire
la pace liturgica che desiderano tanto i preti che i fedeli?
È dunque secondo un autentico “spirito di conversione” che proponiamo
questa soluzione di assistenza e di comunione sacramentale ad un rito che
ci pone dei reali problemi. Questo “gesto di unità” può essere
vissuto con lo stesso spirito dal vescovo del luogo e dal presbiterio diocesano,
che potrebbero avere a cuore il rispetto meticoloso delle norme della celebrazione,
evitando per quel giorno le formule ad libidum piú lontane dall’uso
tradizionale.
Non dimentichiamo che lo scopo di questi segni di unità è
di permettere alla Chiesa di affrontare nelle migliori condizioni l’impegno
piú urgente che mai dell’evangelizzazione. Nei confronti di un mondo
culturalmente frantumato, l’ampiezza di spirito della Chiesa, “la varietà
dei riti liturgici ed anche delle elaborazioni teologiche della verità
rilevata”, nel contesto della stessa fede e della stessa carità,
non è un handicap o uno scandalo. Al contrario, essa “manifesta
piú pienamente la vera cattolicità e apostolicità
della Chiesa” (79). Non
è questo il senso dell’invito del Santo Padre del 26 ottobre scorso
ai pellegrini dell’Ecclesia Dei e “a tutti i cattolici”?
Fr. Louis-Marie de Blignières
Note
1. La Documentation Catholique, (D. C. nel séguito),
n° 2193, p. 1013. (su!)
2. Ibid., p. 1012. (su!)
3. GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura del Concilio,
11 ottobre 1962, (D. C., n° 1387, col. 1379).
Il Papa ha aggiunto: “In effetti, una cosa
è il deposito della fede, e cioè le verità contenute
nella sacra dottrina, altra cosa è la
maniera di esprimere queste verità
conservando tuttavia il loro senso e la loro accezione”. Per evitare il
relativismo
dogmatico che pretendeva di trovare un punto
d’appoggio in questa distinzione, la Dichiarazione Mysterium Ecclesiæ
della
Congregazione per la Dottrina della Fede,
del 24 giugno 1973 (n° 4), dovette precisare: “È chiaro che
[il Papa] riconosceva
un senso vero e immutabile al dogma, e per
noi discernibile. La novità che peraltro egli raccomanda, tenuto
conto delle
esigenze dei nostri tempi, riguarda la maniera
di studiare, di esporre e di enunciare questa dottrina con il suo senso
permanente” (D. C., n° 1636, p. 688).
(su!)
4. Encicliche Mysterium fidei del 3 settembre
1965, Sacerdotalis cœlibatus del 24 giugno 1967, e Humanæ
vitæ del
25 luglio 1968, Profession de foi del
29 giugno 1968. (su!)
5. Ma vie, souvenirs, 1927-1977, Paris, 1998,
p. 135. (su!)
6. GIOVANNI PAOLO II, Udienza del 26 ottobre 1998,
(D. C., n° 2193, p. 1012). (su!)
7. Cf. Decreto sulla formazione dei preti Optatam
Totius, n. 16, e Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimum
Educationis, n. 10 (Cf. anche Can.
252 § 3). (su!)
8. L’obrogazione è la “soppressione o abrogazione
indiretta di una legge per mezzo di un’altra posteriore ad essa contraria
e
dello stesso tenore”. (su!)
9. Cf. per esempio gli articoli del Cardinale Decourtray,
Bulletin diocésain Eglise à Lyon, 23 aprile 1992; del
Cardinale
Danneels, “Comment entrons-nous dans la
liturgie”, D. C., n° 2132, pp. 172-175; di Mons. Léonard,
Pâque Nouvelle
99/1, pp. 22-28. (su!)
10. D. C., n° 1967, pp. 788-789. La Pensée
Catholique dà il testo latino e la traduzione francese nel n°
236, pp. 16-21. (su!)
11. Udienza del 26 ottobre 1998, D. C., n° 2193,
p. 1012. (su!)
12. Ecclesia Dei, n. 5c. (su!)
13. Ecclesia Dei, n. 3. (su!)
14. D. C., n° 2193, p. 1012. (su!)
15. Qui ci limitiamo agli istituti maschili. (su!)
16. Rescriptum ex audientia, 18 ottobre 1988, n. 3a
et 4, (Acta Apostolicæ Sedis, tomo 82 (1990), p. 533). (su!)
17. Ibid., n. 1. (su!)
18. “Le protocole d’accord entre le Vatican et Mgr
Lefèbvre” è riprodotto con questo titolo in D. C., n°
1966, pp. 734-736.
(su!)
19. Protocollo CDF 75/83. (su!)
20. Vigore facultatum (o: vi specialium facultatum)
sibi a Summo Pontifice Ioanne Paulo II tributarum (Decreti d’erezione
delle Fraternità San Pietro
e San Vincenzo Ferrer, 18 e 28 ottobre 1988). (su!)
21. Esortazione apostolica Evangelica testificatio,
29 giugno 1971, n. 11. Il senso moderno del termine carisma è piú
ampio della sua esatta accezione:
i doni enumerati da San Paolo come i miracoli e le profezie (1 Co 12, 7-11)
dati ad alcuni
in vista dell’utilità della
Chiesa, in opposizione con la grazia santificante che unisce la persona
a Dio. (su!)
22. Esortazione apostolica Vita consecrata,
25 marzo 1996, n. 36. (su!)
23. GIOVANNI PAOLO II, Udienza del 5 agosto 1998,
D. C., 2188, p. 765. (su!)
24. Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium
n. 45a, in cui si precisa che l’Autorità conserva il potere di attuare
una migliore messa a punto prima
di dare l’approvazione autentica (ulterius ordinatas authentice approbat).
(su!)
25. Si tratta dell’intenzione oggettivamente manifestata
dai testi e dagli atti. Questa intenzione non è necessariamente
esclusiva
del desiderio o dell’aspirazione
relative ad una futura evoluzione delle disposizioni degli interlocutori.
Tuttavia, come
chiave di interpretazione può
essere usato solamente ciò che è obiettivamente significato
dagli scritti, dalle parole o dagli
atti nel loro contesto. (su!)
26. Dichiarazione di Dom Gérard, Priore di
Le Barroux, (Cf. Journal Présent del 18 agosto 1988). (su!)
27. L’unione per mezzo dei legami dei sacramenti è
compatibile con le diversità rituali delle loro celebrazioni, com’è
provato
dall’esistenza dei diversi riti
orientali cattolici. (su!)
28. Professio fidei e Jusjurandum fidelitatis,
entrati in vigore il 1° marzo 1989 (D. C., n° 1982, pp. 378-379).
(su!)
29. Can. 678 § 2. (su!)
30. Lettera di Mons. Benelli, 21 aprile 1976 (pubblicata
in Itinéraires, aprile 1977, pp. 102-105). (su!)
31. Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo
dei nostri tempi
Gaudium et spes, n. 92: in necessariis unitas,
in dubiis
libertas, in omnibus caritas.
(su!)
32. Decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio,
n. 4. (su!)
33. Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede,
Dichiarazione
Mysterium Ecclesiæ del 24 giugno 1973, n. 5, e
Istruzione sulla vocazione ecclesiale del
teologo, 24 maggio 1990, n° 24. (su!)
34. Istruzione ..., nn. 30 e 32. (su!)
35. Qui ci riferiamo alle leggi ufficialmente approvate
dalla Chiesa universale. La traduzioni, gli adattamenti, i permessi
particolari, cosí numerosi
nella riforma liturgica, non potrebbero avvalersi nello stesso modo di
questa tesi teologica.
L’abbandono pratico della norma
universale latina ha apportato qui delle conseguenze di cui bisogna prendere
atto. (su!)
36. PAOLO VI, Enciclica Ecclesiam suam del
6 agosto 1964, nn. 77 e 81. (su!)
37. Decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio,
n. 4. (su!)
38. Costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium,
n. 37. (su!)
39. Discorso ai monaci di Le Barroux, 28 settembre
1990 (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIII, 2 (1990), pp.
761-762).
(su!)
40. Ripresa del Protocollo d’accordo, Rome-Fontgombault,
6-15 luglio 1988. (su!)
41. Costituzioni della Fraternità San Pietro,
n. 8. (su!)
42. Costituzioni della Fraternità San Vincenzo
Ferrer, n. 24. I libri liturgici sono indicati al n° 4 del decreto:
“Messale e
breviario domenicano, Pontificale
e Rituale romani, il cui uso era in vigore nel 1962”. (su!)
43. Journal Présent del 18 agosto 1988. (su!)
44. Prologue, n. 1, Livre blanc 1970-1990, al 16 marzo
1989. (su!)
45. Decreto sul rinnovamento e l’adattamento della
vita religiosa Perfectæ caritatis, n. 2b. (su!)
46. Codice di diritto canonico, can. 576. Cf.
Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium,
45a. (su!)
47. D. C., n° 1966, pp. 737-739. (su!)
48. “Atto prudenziale” non significa, come spesso
si crede, scelta opportunistica relativa a degli atti di indifferente
qualificazione morale, dettata dall’abilità
allo scopo di perseguire un dato fine. L’espressione sta ad indicare che
è la virtú
cardinale della prudenza che svolge
il ruolo centrale nella composizione dei diversi doveri che si presentano.
Essa regola il
giusto mezzo conforme alla ragione nell’esercizio
di tutte le virtú in causa. (su!)
49. Tutti questi termini figurano nel Motu proprio
(nn. 5a e c, 6a, b e c). (su!)
50. Dichiarazione dottrinale, n. 3. (su!)
51. Un groupe de théologiens, “L’Ordo Missæ”
in La Pensée catholique, n° 122, pp. 7-43; CARDINALI OTTAVIANI
E
BACCI, Breve esame critico
del Novus Ordo Missæ, (Edizioni diverse); “Le saint sacrifice
de la messe” in
Itinéraires, n° 146;
PHILIPPE DE LA TRINITÉ, “L’offertoire du nouvel ordo missæ”,
in La Pensée catholique, n°
129, pp. 26-40; M. L. GUÉRARD
DES LAURIERS, “L’offertoire de la Messe et le Nouvel Ordo Missæ”
in
Itinéraires, n° 158,
pp. 29-69; LOUIS SALLERON, La nouvelle messe (Paris, 1976); PROF.
KLAUS GAMBER,
La réforme liturgique en question
(Le Barroux, 1991); La Liturgie, n. 58-59 di Tu es Petrus; AIDAN
NICHOLS, Regard sur la liturgie
et la modernité, (Genève, 1998). (su!)
52. L’essenza della liturgia consiste precisamente
nell’esprimere nell’ordine dei segni il mistero che essa realizza. La teologia
si sforza di approfondire questo stesso
mistero nell’intelligenza della fede. L’una e l’altra sono ordinati al
culto di Dio, alla
contemplazione e alla vita della grazia.
fatte salve la sua validità e la sua non-eterodossia, un rituale
approvato dalla Chiesa
universale può essere piú
o meno adatto a far entrare nella contemplazione del mistero, ad esprimerne
la ricchezza
teologica, a disporre il fedele all’adorazione
ed alla ricezione fruttuosa della grazia sacramentale. (su!)
53. Missale Romanum et Missel Romain, Paris, 1975.
(su!)
54. Notitiæ, Pubblicazione della Congregazione
per il Culto Divino, n. 92, aprile 1974. (su!)
55. È significativo che in certe diocesi i
preti non possano dire la Messa (secondo l’Ordo di Paolo VI) in latino
e orientati,
senza il permesso speciale del vescovo.
Vi sono anche dei paesi in cui le Conferenze episcopali obbligano alla
celebrazione
in volgare quando vi è l’assistenza
del popolo. (su!)
56. Cf. GIOVANNI PAOLO II, Vita consecrata,
n. 46. (su!)
57. SAN TOMMASO, Summa contra Gentiles, l.
3, c. 22, § 8; cf. De Potentia, q. 5, a. 1, arg. 7. (su!)
58. In un istituto di vita consacrata, le Costituzioni
esprimono il modo in cui “la sequela di Cristo (…) è la regola suprema
della vita dei religiosi” (can. 662).
Nelle Società di vita apostolica “i membri senza i voti religiosi
perseguono il fine
apostolico proprio della loro società
e (…) tendono alla perfezione della carità per mezzo dell’osservanza
delle
Costituzioni” (can. 731, § 1),
che “definiscono i loro obblighi e i loro diritti” (can. 737). (su!)
59. “L’obbedienza del giudizio” è quella che
pretenderebbe di far coincidere il giudizio dell’intelligenza del soggetto
con quello
del Superiore. Essa è fuori dalla
prospettiva della teologia tomista, la quale considera che l’obbedienza
è una virtú che
perfeziona la volontà del soggetto
ed ha per oggetto proprio il precetto del legittimo Superiore che esercita
il comando nella
sfera della sua giurisdizione (cf. Summa
Teologica, IIa IIæ, q. 104). (su!)
60. Cf. nn. 14, 32, 34, 50. (su!)
61. Udienza del 26 ottobre 1998 (D.C., n° 2193,
p. 1012). (su!)
62. Ecclesia Dei, n. 5a. (su!)
63. Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium,
nn. 43a e 41b. (su!)
64. Norme della Congregazione per i Religiosi e della
Congregazione per i Vescovi Mutuæ relationes, 14.5.1978, n.
11. (su!)
65. Can. 586 § 1. (su!)
66. Can. 586 § 2; cf. GIOVANNI PAOLO II, Vita
Consecrata, n. 48. (su!)
67. Commentaire du Code de droit canonique,
Le droit de la vie consacrée, Normes communes, Paris, 1988, p.
80.
(su!)
68. Cardinale Ratzinger, Conferenza del 27 maggio
1998 al Congrès mondial des Mouvements ecclésiaux (D. C.
2196,
91). (su!)
69. Enciclica Fides et ratio del 14 settembre
1998, n. 97. (su!)
70. Come dimostrato dall’interesse del mondo universitario
per le traduzioni delle opere di San Tommaso, e da quello di certi
artisti per il gregoriano. (su!)
71. Ecclesia Dei, n. 5c. (su!)
72. Alcuni fanno notare che il non concelebrare sacramentalmente
significa tradire una reticenza nei confronti del rito. Certo,
ma ogni reticenza è necessariamente
illegittima? Abbiamo detto prima che sono proprio delle difficoltà
riguardo al rito che
spiegano principalmente la scelta del
monoritualismo. (su!)
73. Costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium,
n. 57. (su!)
74. Can. 902. (su!)
75. La situazione della liturgia in certi istituti
è analoga a quella che avevano le particolari liturgie degli Ordini
religiosi in seno
alla liturgia latina. Queste erano considerate
come statuti o privilegi personali, a differenza delle liturgie di certe
diocesi,
come Lione e Milano, per esempio, che
erano invece dei privilegi locali.
Cosí, il diritto proprio dell’Ordine
dei Predicatori rendeva obbligatorio dappertutto l’uso del rito domenicano
(Constitutions Gillet, 1954, n. 561).
Lo stesso dicasi per il rito proprio dei Carmelitani dell’Antica Osservanza,
che
doveva “essere osservato da tutti religiosi
appartenenti a quest’Ordine, senza fare eccezione per coloro che verranno
scelti
per dirigere delle parrocchie” (Décret
de la Congrégation des Rites, 24 mai 1905).
Il Motu proprio Ecclesia Dei, per un
verso ha richiesto per i fedeli una “ampia e generosa applicazione” dell’Indulto
del
1984 (n. 6c). Per l’altro ha costituito
una Commissione che tra i suoi scopi statutari ha quello di realizzare
“la piena
comunione ecclesiale dei preti, seminaristi,
comunità religiose (…) che conservano le tradizioni liturgiche e
spirituali
anteriori della tradizione latina” (n.
6a). L’erezione a questo fine di istituti di diritto pontificio dotati
di speciali facoltà, crea
l’equivalente di un diritto personale
accordato alla persona giuridica dell’istituto, e al quale i membri non
possono
rinunciare liberamente (cf. canone 80,
§ 3).
Ovviamente, noi parliamo solo di analogia,
poiché il rito latino tradizionale è un bene comune di tutta
la Chiesa e non è
riservato ai preti dei nostri istituti.
(su!)
76. I Superiori maggiori degli istituti di diritto
pontificio sono Ordinari propri dei loro soggetti (cf. canone 134, §
1).
(su!)
77. Cardinale Ratzinger, loc. cit. (su!)
78. Norme della Congregazione per i Religiosi e della
Congregazione per i Vescovi Mutuæ relationes, 14.5.1978, n.
12. (su!)
79. Decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio,
n. 4. (su!)
[Articolo pubblicato da Avvenir
du Rit Traditionnelle]
AL DOSSIER SAN PIETRO
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