ASPETTANDO  IL  DOCUMENTO  SUGLI  ABUSI  LITURGICI



In attesa che venga finalmente pubblicato il promesso documento sugli abusi liturgici, raccoglieremo in questa pagina degli altri documenti, che trattano dell'argomento o che sono ad esso adattabili, cosí da permettere ai nostri lettori di farsi un'idea di quel che sta effettivamente succedendo.

Perché qualcosa sta succedendo. Il documento che si dice verrà pubblicato entro breve tempo, sarebbe alla sua terza stesura, e cioè avrebbe subito due considerevoli "depurazioni", per venire incontro alla levata di scudi di tutti coloro che pensano che le cose vanno male nella liturgia perché non sono ancora applicati bene i dettati del Concilio. Insomma, per venire incontro a coloro che vorrebbero che le cose andassero ancora peggio.

Certo che può sembrare che noi si esageri, perché in fondo potrebbe trattarsi di una differenza di valutazione dovuta a punti di vista diversi, ma siamo convinti che la cosa sia ancora piú complicata. Ed è per questo che temiamo che l'annunciato documento, voluto dallo stesso Pontefice, alla fine si rivelerà una sorta di bolla di sapone.




Cominciamo intanto col pubblicare il testo di un articolo apparso nel quaderno 3684, del 20 dicembre 2003, de La Civiltà Cattolica, intitolato: La Costituzione "Sacrosanctum Concilium", il primo grande dono del Vaticano II.

Data la particolarità dell'argomentazione dell'Autore, ci è sembrato opportuno accompagnarlo con un nostro commento, se non altro per fare chiarezza su alcuni aspetti che ci stanno particolarmente a cuore.

Testo dell'articolo de La Civiltà Cattolica
Il nostro commento all'articolo




LA COSTITUZIONE "SACROSANCTUM CONCILIUM": 
IL PRIMO GRANDE DONO DEL VATICANO II

CESARE GIRAUDO S.I.

Tutti sanno che la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II ha realizzato un rinnovamento nel modo di celebrare, ma pochi sono oggi in grado di coglierne l’entità, o perché, nati dopo gli anni Sessanta, non conoscono la realtà anteriore, o perché, polarizzati sul presente, non sanno ricordare. Proviamo, per qualche istante, a richiamare alla memoria questo passato, cronologicamente non molto lontano, ma di fatto lontanissimo se misurato col metro del cambiamento di sensibilità. Tale evocazione consentirà, per contrasto, di porre in evidenza i tratti salienti della riforma liturgica e i rischi che una sua comprensione superficiale sta facendo correre.

Uno sguardo alla liturgia prima del Concilio
Immaginiamo di entrare, durante la celebrazione della messa, in una chiesa, non importa se di città o di campagna, in una domenica qualunque, poniamo, a metà degli anni Cinquanta, o Quaranta, o anche Trenta. La fisionomia celebrativa di questi decenni è sempre la stessa, né si discosta sostanzialmente da quella dell'intero millennio cui appartengono. Notiamo subito che i fedeli hanno preso posto tutti nella navata, che una barriera, spesso munita di cancelli quasi sempre chiusi, separa dallo spazio riservato al sacerdote. Oltre quella barriera, denominata "balaustra", nell’area che chiamano "presbiterio", durante i riti i laici non possono andare, soprattutto le donne. Fanno eccezione gli appartenenti a quel clero in miniatura che sono i chierichetti.
I fedeli risultano rigorosamente divisi in gruppi, per età e per sesso. Ognuno di questi, rispettando una prassi collaudata, si vede assegnato un settore preciso. Nei primi banchi si notano i più piccoli: da una parte i bambini, dall'altra le bambine. Alle loro spalle stanno i più grandi: ragazzi di qua e ragazze di là. Più indietro prendono posto le donne, numerose. D'altronde, fin dal tempo di san Paolo (cfr. At 16,13), si sa che era proprio la donna, forse perché istintivamente più religiosa, a dare corpo alle assemblee liturgiche. Tutti restano quasi sempre in ginocchio; si siedono soltanto per ascoltare la predica. Pure la comunione, distribuita alla balaustra sia prima sia dopo la messa — sia, ma non sempre, durante la messa —, è ricevuta in ginocchio.
"E gli uomini, dove sono gli uomini?", ci domandiamo. Alziamo lo sguardo e li vediamo in fondo alla chiesa, appoggiati alla porta o come incollati alle pareti. Gli uomini infatti sono abituati a scrutare l'altare da lontano. La sede del celebrante non la vedono neppure, perché nessuno ha mai detto loro che è importante; e poi, anche se c'è, di fatto il sacerdote non vi si siede mai. Comunque gli uomini non sono numerosi. Li abbiamo visti entrare alla spicciolata, perlopiù in ritardo. Sono là, sul limitare della loro chiesa, un po' annoiati, in piedi, pronti a uscire, pronti a ubbidire al sacerdote non appena avrà detto Ite, missa est. Ite vuol dire "Andate": questo latino lo capiscono bene. A dire il vero, in chiesa c'è pure un altro piccolo drappello di uomini, che però non riusciamo a scorgere perché hanno preso posto nel coro, cioè dietro la parete dell’altare monumentale, da dove poco sentono e nulla vedono.
Che cosa fanno i fedeli? Quando c'è da cantare, cantano. Se la messa è in gregoriano, cantano tutti, con slancio, quei vocalizzi che sanno a memoria. A volte, nelle ricorrenze solenni, sono costretti a tacere, perché interviene la corale, magari quella della parrocchia accanto, con pagine grandiose, sempre a più voci. Quando non si canta, le persone semplici pregano il rosario. A quelle più progredite nelle vie dello spirito si consiglia di collegare i singoli momenti della messa con altrettanti momenti della
passione del Signore. Per designare questo genere di messa meditata, alcuni parlano di "messa drammatica", altri di "messa allegoristica", altri ancora di missa picta, ovvero di "messa dipinta", in quanto spesso nei libri di devozione la spiegazione è agevolata da appositi disegni che collegano i singoli momenti della messa ad altrettanti momenti della passione.
II sacerdote, davanti all'altare, volgendo le spalle ai fedeli, "dice" messa, in latino, perlopiù con un tono di voce così sommesso che non giunge neppure agli orecchi del chierichetto di turno, inginocchiato a poca distanza. I gesti del celebrante sono calcolati, misurati. Quando dice Dominus vobiscum, allarga le braccia e subito le richiude; quando benedice, a volte sembra che fenda l'aria, con la mano di taglio e con angolazioni da goniometro.
La messa è governata da una normativa precisa, che ogni sacerdote conosce a perfezione. Tutti celebrano allo stesso modo. Non c'è spazio per qualche adattamento. I sacerdoti neppure si sognano di poter apportare una modifica sia pur minima a quanto è stabilito. Si sono formati tutti sugli stessi manuali di rubriche, quelli cioè che contengono le regole della celebrazione. Nessuno ha studiato liturgia, perché la liturgia non è una scienza. Ai futuri sacerdoti si ripete che la liturgia è un'arte pratica, da imparare bene da qualcuno che la sa, per poi fare esattamente come fa lui. Infatti i chierici dell'ultimo anno, nei quindici giorni che precedono l'ordinazione sacerdotale, seguono un piccolo apprendistato, che alcuni chiamano corso di liturgia, nel quale imparano appunto a "dire" messa. Il sacerdote che stiamo osservando è talmente abituato a fare, che fa tutto lui: legge le letture, ovviamente in latino, spesso limitandosi a muovere le labbra; canta con voce sicura, perché le melodie le conosce bene; poi traccia tanti segni di croce.
Non è necessario diffondersi in ulteriori dettagli. Quelli che abbiamo evocato bastano per farci un'idea abbastanza precisa di come i sacerdoti "dicevano" messa e di come i fedeli "ascoltavano" la messa. Si tratta di espressioni assai comuni, tuttora attestate nel linguaggio parlato. Mentre il ruolo del sacerdote era affidato, a seconda dei casi, alle locuzioni "dire messa" o "cantare messa", quello dei fedeli era descritto da una colorita rosa di espressioni, quali "ascoltare messa", "sentire messa", "udire messa", "stare a messa", "assistere alla messa", "prendere messa", "prendere un pezzo di messa". È comunque doveroso riconoscere che allora i sacerdoti "dicevano" messa con grande devozione e i cristiani "ascoltavano" la  messa con sincera pietà. La fede dei nostri vecchi si è nutrita così per oltre mille anni. Anche se il richiamare alla memoria questa loro prassi può farci abbozzare un sorriso, esso non sminuisce affatto l'ammirazione e la venerazione che dobbiamo avere verso quanti ci hanno trasmesso la fede.
Fatta questa doverosa precisazione, possiamo mostrare i gravi limiti di tale modo di celebrare. Il primo consisteva nell'iper-protagonismo del celebrante e nella conseguente passività imposta ai fedeli. Stante l'ordinamento rituale e l'indiscussa recezione che lo accreditava, lo scarto tra i ruoli non era in alcun modo colmabile. La stessa separazione del presbiterio dalla navata lo ribadiva con l’evidenza delle leggi fisiche. Il secondo limite era rappresentato dall’uso esclusivo della lingua latina, conosciuta dai sacerdoti e, in varia misura, anche dalle persone colte, ma inesorabilmente carica di mistero per i più. Il terzo limite era collegato all'applicazione scrupolosa e quasi meccanica delle rubriche, sentite come il bastone rassicurante su cui si appoggiava la mancata formazione liturgica del clero. Questa adesione incondizionata a una normativa vincolante e minuziosa faceva della prassi celebrativa una "liturgia di ferro".
Le cose non potevano andare avanti così. Ne erano convinti quei liturgisti e pastori illuminati che hanno dato vita al movimento liturgico del XX secolo. Pur trovando sulla loro strada veri macigni rappresentati da un'adesione acritica alla prassi, da un attaccamento viscerale a ciò che sempre si era fatto, dalla paura del nuovo, grazie a un impegno paziente di ricerca e di riflessione essi hanno saputo preparare il terreno sul quale è cresciuta e fiorita la riforma liturgica di cui godiamo oggi i frutti. Ci limitiamo a citare alcuni grandi nomi: in Francia Prosper Guéranger, in Belgio Lambert Beauduin, in Germania Romano Guardini e Odo Casel, in Austria Pius Parsch eJosef Andreas Jungmann, in Italia Emmanuele Caronti, Ildefonso Schuster, oggi beato, Giacomo Lercaro, Mario Righetti, e tanti altri.
Insoddisfatti degli usi ai quali ci si era affezionati, hanno scoperto che questi corrispondevano spesso alla prassi radicatasi nel secondo millennio, ma divergevano molte volte dalla Tradizione (con la "T" maiuscola) che, maggiormente modellata sull'insegnamento dei Padri della Chiesa, aveva governato le celebrazioni nel primo millennio.
Allora le cose non andavano così. Allora i fedeli partecipavano attivamente alla messa. Allora "celebravano" la messa con il loro sacerdote: lui in forza del sacerdozio ordinato, essi in forza del comune sacerdozio battesimale. Allora, ad esempio, san Giovanni Crisostomo diceva: "II sacerdote non celebra affatto l'eucaristia da solo (oude […] eucharistei monos), ma pure l’intero popolo [la celebra con lui]… Perciò non gettiamo tutto sui sacerdoti..." (1).
Allora i fedeli capivano quello che si leggeva nelle letture, quello che il sacerdote diceva nelle preghiere, in particolare nella preghiera eucaristica. Al tempo di Agostino, all’Amen del popolo che segue la dossologia finale era riconosciuto il valore della firma che sola avvalora e suggella il documento precedentemente scritto (2). Al tempo di Gerolamo, nelle chiese di Roma l’Amen rimbombava come un tuono dal cielo (3). I fedeli approvavano con slancio, perché avevano compreso bene quanto il presidente dell'assemblea aveva detto a Dio Padre in nome loro.
Furono proprio gli studi dei grandi liturgisti citati a sensibilizzare a poco a poco la Chiesa, fino a condurla, prima, a modo di assaggio, alla riforma — voluta da Pio XII — della Veglia pasquale nel 1951 e dell'intera Settimana santa nel 1955, poi alla grande riforma liturgica del Concilio Vaticano II.

La costituzione "Sacrosanctum Concilium" e la riforma liturgica
Non è possibile riassumere in poche righe ciò che rappresenta per la Chiesa di oggi la costituzione Sacrosanctum Concilium (SC). Essa ha indubbiamente dischiuso orizzonti velati da tempo. Ci ha ricordato, ad esempio, che "la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua forza" (SC 10). Ha sottolineato a più riprese la necessità che tutti i fedeli vengano formati "a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche che è richiesta dalla natura stessa della liturgia" (SC 14; cfr 11. l9. 21. 27. 30. 41. 48. 49. 50. 79. 113. 114. 121).
Per avviare questo processo di rinnovamento, la costituzione ha riconosciuto alla liturgia lo statuto di disciplina accademica, stabilendo che "nei seminari e negli studentati religiosi la sacra liturgia va computata tra le materie necessarie e più importanti e, nelle facoltà teologiche, tra le materie principali" (SC 16). Si è preoccupata anzitutto della speciale formazione di "coloro che sono destinati all'insegnanento della sacra liturgia" (SC 15), i quali a loro volta dovranno trasmettere ai chierici "una formazione spirituale a carattere liturgico" (SC 17) e dovranno aiutare i sacerdoti che già lavorano nella vigna del Signore "a penetrare sempre più il senso di ciò che compiono nelle sacre funzioni" (SC 18).
La costituzione ha poi affermato a chiare lettere che "la santa madre Chiesa […] desidera fare un'accurata riforma generale della liturgia", riconsiderando "l’ordinamento dei testi e dei riti […], in modo tale che le realtà sante, da essi significate, siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano per quanto possibile, possa capirle facilmente e parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria" (SC 21). Essa ci ha inculcato che "la celebrazione comunitaria, caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli", è da preferire, per quanto possibile, "alla celebrazione individuale e quasi privata […] soprattutto della messa, salva sempre la natura pubblica e sociale di qualsiasi messa" (SC 27). Ha prospettato il ministero, non più come il protagonismo esasperato di uno solo, bensì come una compagine articolata di funzioni, ricordando al singolo ministro che dovrà limitarsi "a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza" (SC 28). Ha escluso che nella celebrazione si possano fare preferenze in rapporto tanto a persone singole quanto a condizioni sociali (cfr SC 32).
Ha espressamente voluto che nelle sacre celebrazioni "sia disposta una lettura della sacra Scrittura più abbondante, più varia e medio scelta" (SC 35). Ha raccomandato vivamente l’omelia, come parte integrante dell'azione liturgica, con lo scopo preciso di presentare "i misteri della fede e le norme della vita cristiana, attingendoli dal testo sacro" (SC 52). Ha ripristinato "l’orazione comune, detta anche dei fedeli" (SC 53), "una perla - come dirà più tardi Annibale Bugnini - che era andata perduta e che ora era stata ritrovata in tutto il suo splendore" (4).
A sua volta, il desiderio di aprire i tesori della Bibbia si è tradotto nella preoccupazione di renderne comprensibile la proclamazione, sulla base di una constatazione tanto semplice quanto coraggiosa. Cosi recita il n. 36: "L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato però che, sia nella messa sia nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua volgare può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda ad essa una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti". La questione della lingua liturgica ritorna al n. 54, che recita: "Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua volgare, specialmente nelle letture e nell'orazione comune […]. Tuttavia si abbia cura che i fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell'ordinario della messa che spettano ad essi". Inoltre la costituzione sulla Liturgia ha raccomandato molto "quella partecipazione più perfetta alla messa, nella quale i fedeli […] ricevono il corpo del Signore con il pane consacrato in quello stesso sacrificio" e ha stabilito che, "fermi restando i princìpi dogmatici stabiliti dal Concilio di Trento, la comunione sotto le due specie si può concedere sia ai chierici e religiosi sia ai laici" (SC 55). Ancora: ci ha ridato "la concelebrazione, che manifesta in modo appropriato l'unità del sacerdozio" (SC 57).
Nell'impossibilità di illustrare ognuna di queste numerose sfaccettature, vogliamo soffermarci su quella che giustamente può essere considerata la decisione basilare della riforma liturgica: l'introduzione della lingua parlata nelle celebrazioni, benché il Concilio non volesse abolire l'uso del latino nelle celebrazioni. Si è trattato di un cambiamento storico, che, se fu accolto con entusiasmo da chi meglio riuscì a comprenderne il significato e a prevederne gli effetti, non mancò di suscitare apprensioni, disturbare abitudini consolidate, destare nostalgie profonde. Ma in che lingua si deve pregare? Alcuni se l'erano chiesto già in epoche lontane.
Gli storici della liturgia ci informano che la questione della lingua con la quale rivolgersi a Dio venne sollevata per la prima volta quando i fratelli Costantino-Cirillo e Metodio furono costretti a giustificarsi davanti ai prelati di Venezia. Ciò avvenne nell'anno 867, durante il loro viaggio a Roma compiuto per portare al Papa le reliquie di san Clemente e ottenere da lui l'uso liturgico della lingua slava. Così leggiamo nel capitolo 16 della Biografia slava di san Cirillo: "Mentre si trovava a Venezia, si radunarono contro di lui vescovi e presbiteri e monaci, come corvi contro un falco, e sollevarono l'eresia delle tre lingue, dicendo: "Ehi, tu: dicci, perché ora tu hai composto un alfabeto per gli Slavi e lo insegni, cosa che nessun altro prima escogitò, né gli Apostoli, né il Papa di Roma, ne Gregorio Magno, ne Gerolamo, ne Agostino? Noi conosciamo soltanto tre lingue nelle quali è lecito lodare Dio: l’ebraica, la greca e la latina"" (5). L'immagine del falco — l'uccello forte che non teme avversari, il rapace sicuro della sua preda — già anticipa che il vincitore della contesa sarà proprio lui, Costantino-Cirillo, nei confronti del quale i suoi avversari altro non sono che uno stormo di corvi gracchianti. Nel seguito del racconto egli risponde paragonando la lingua in cui pregare alla pioggia che Dio fa cadere su tutti ugualmente, al sole che risplende su tutti allo stesso modo (cfr Mt 5, 45) e all'aria nella quale tutti respiriamo. In tal modo afferma che l'uso liturgico della propria lingua è un diritto per ogni popolo che si affaccia al Vangelo.
Possiamo immaginare che qualcuno degli accusatori avrà sussunto: "Non ha importanza che noi comprendiamo o meno quello che si dice nella liturgia: sufficit ut intellegat Deus". Coloro che così pensavano assolutizzavano una tradizione o, meglio, una prassi, come se quella dovesse essere l'unica. In concreto: assolutizzavano l’usus receptus di una o due lingue (6) come se quello fosse davvero esclusivo. Insomma: non avevano il senso della Tradizione, quella che a partire dal giorno della Pentecoste aveva inaugurato la predicazione della Parola di Dio — e di certo anche la liturgia — nelle lingue dei popoli (7). Invece, per i santi fratelli di Salonicco, la questione della lingua liturgica non era affatto marginale: essa costituiva un elemento irrinunciabile della Tradizione. Nel capitolo 18 della Biografia slava si legge che Costantino morente — che ormai aveva preso il nome monastico di Cirillo — invocava ancora: " […] fa' rovinare l'eresia delle tre lingue!" (8).
Sette secoli dopo, la questione della lingua liturgica tornò alla ribalta ad opera dei Riformatori, i quali pretendevano che la messa dovesse essere celebrata necessariamente nella lingua volgare, cosicché tutti potessero capire. Al quesito An missa nonnisi in lingua vulgari, quam omnes intelligant, celebrari debeat, il teologo spagnolo Francisco De Sanctis, esperto al Concilio di Trento per conto del vescovo di Salamanca, così rispondeva: "[…] la messa non deve essere celebrata in lingua volgare, ma o in latino o in greco o in ebraico, che sono le tre lingue scritte sul titolo della croce, destinate a diffondere il Vangelo di Dio. Infatti nella conversione della Gallia e della Germania mille anni or sono la messa fu sempre celebrata in latino, per “non gettare le perle ai porci” (cfr Mt 7, 6), per non rivelare al volgo i misteri di Dio e per non esporli allo scherno […]. Potrebbe tuttavia il Sommo Pontefice stabilire il contrario, qualora lo ritenesse opportuno" (9).
Anche a non voler insistere sulle motivazioni che, secondo il teologo De Sanctis, avrebbero indotto le Chiese della Gallia e della Germania a adottare per la messa l’uso esclusivo del latino, non possiamo fare a meno di notare che, a quel tempo, l’aristocrazia dell’intelletto guardava dall’alto in basso le masse, considerate del tutto incapaci di comprendere e quindi irrimediabilmente condannate all’ignoranza. In bocca al teologo tridentino, la stessa citazione evangelica, estrapolata dal contesto originario, non suona certo apprezzamento per le esigenze e le capacità del "volgo". Raffrontata con la convinzione dei prelati di Venezia, questa dichiarazione rappresentava comunque un passo avanti. Infatti, pur appellandosi all’argomento delle tre lingue, il De Sanctis aggiungeva che il Papa potrebbe decidere altrimenti, qualora lo ritenesse opportuno. D’altronde, al Papa di Roma, Adriano II, si erano appellati Cirillo e Metodio, visto che con le loro argomentazioni non riuscivano a far breccia sui loro irriducibili oppositori.
La storia attesta che Trento non poté accogliere la rivendicazione dei Riformatori e che il latino rimase l’unica lingua liturgica della Chiesa d’Occidente. Ci sono voluti quattro secoli, c’è voluto un altro Concilio, perché il progetto di parlare con Dio nella propria lingua ? un progetto finalmente svestito di contrapposizione polemica e purificato da ogni spirito di rivendicazione minacciosa per l’unità della fede ? giungesse in porto. È proprio questo che ha fatto il Vaticano II con la costituzione Sacrosanctum Concilium e con i documenti attuativi che l’hanno portata ad esecuzione.
Oggi siamo più che convinti della necessità che urgeva alla Chiesa del nostro tempo di restituire al discorso tra l’assemblea e Dio le risonanze profonde del linguaggio di ogni popolo. Di conseguenza abbiamo l’impressione che , a partire da quello storico 7 marzo 1965 ? data che inaugurà l’impiego del volgare nella liturgia -, ciò sia avvenuto come d’incanto per tutte le parti della celebrazione liturgica. Tentando di riandare con la memoria alle intense emozioni di quegli anni, ci sembra impossibile immaginare uno svolgimento diverso dei fatti. Ma la memoria inoppugnabile dei documenti ci convince che, proprio in questo ambito vitale e delicato per la vita della Chiesa, il principio della gradualità fu scrupolosamente osservato e sapientemente dosato, come risulta dai tre grandi documenti che hanno scandito il cammino della riforma liturgica: l'istruzione Inter oecumenici del 29 settembre 1964, l'istruzione Tres abhinc annos del 4 maggio 1967 e infine l'istruzione Eucharisticum mysterium del 25 maggio 1967.

A 40 anni dalla "Sacrosanctum Concilium": il punto sulla situazione
La riforma liturgica è indubbiamente il primo e grande dono del Vaticano II, dono dello Spirito, non solo alla Chiesa romana, ma alle Chiese d'Oriente e d'Occidente 10. È stata una scelta provvidenziale, il cui valore traspare dai rapidi cenni che abbiamo appena fatto ad alcuni paragrafi della Sacrosanctum Concilium. Ma qualcosa non ha funzionato, come denuncia anche la voce autorevole di Giovanni Paolo II, che nella recente enciclica Ecclesia de Eucharistia, accanto alle "luci" e ai "grandi vantaggi" apportati dalla riforma liturgica, segnala l'esistenza di "ombre" e perfino di "abusi"".
Dinanzi a queste sbavature che hanno offuscato e purtroppo continuano a offuscare la liturgia, alcuni si scandalizzano, vanno in crisi e dicono: "Non c'è più fede!". Altri accusano la riforma liturgica e contrappongono polemicamente al Messale di Paolo VI il Messale di Pio V. Altri invocano il ritorno all'uso del latino come rimedio sicuro ai malanni della stagione  postconciliare. Altri vorrebbero girare di nuovo l'altare contro il muro. Altri ancora rivedrebbero volentieri le balaustre anche nelle chiese di nuova costruzione. Sogni di inguaribili nostalgici? Certamente sì, ma al tempo stesso spie di un malessere liturgico-pastorale da non sottovalutare, anzi da interpretare. Prima abbiamo evocato i vantaggi che la riforma liturgica doveva apportare. Soffermiamoci ora sugli inconvenienti che si sono verificati, per stimolarci a riflettere e allarmarci tutti nella giusta misura.
Spesso, chi sa cantare in qualche modo, canta, magari improvvisando. Chi sa suonare in qualche modo, suona, dimenticando che la musica ha pure le sue esigenze di preparazione. Nelle celebrazioni intervengono strumenti nuovi, una vera invasione. Intanto i nostri preziosi organi dormono sotto la polvere, cosicché chi vuol vedere organi ben tenuti e organisti capaci alla consolle deve programmare un viaggio, ad esempio, nei Paesi germanici. I canti in lingua latina sono ostracizzati.
Spesso, nelle nostre chiese, chi vuole leggere, legge come può, e allora fioccano gli errori, la punteggiatura non è rispettata la dizione è confusa. Oppure, se si chiede all'aspirante lettore "Lei è abituato a leggere in chiesa?", quello si risente e subito esibisce i suoi titoli di studio, come se il ministero del lettore non richiedesse una formazione specifica. A volte si presenta all'ambone un lettore infante e suscita tenerezza vederlo compitare con fatica e diligenza testi che la sua immaturità non gli permette di comprendere. Chi deve fare l’omelia, la fa a braccio e non di rado tralascia ogni riferimento alle letture appena proclamate. Così pure chi propone le intenzioni della preghiera dei fedeli spesso prolunga la lista delle esperienze dei singoli o della comunità evocando le situazioni più disparate, a prescindere dal messaggio delle letture. Inoltre, chi deve  proclamare la preghiera eucaristica perché è presbitero, la prende a caso o, meglio, prende quella che scelgono tutti, attratti, più ancora che dalla sua bellezza, dalla sua brevità. Non parliamo poi di quei sacerdoti che, talvolta e in taluni luoghi, si arrogano il diritto di utilizzare preghiere eucaristiche selvagge, o di comporne lì per lì il testo o parti di esso.
Spesso, chi ama battere le mani, perché lo vede fare nei comizi o nei concerti, avvia e scatena applausi plateali anche in chiesa, con il conseguente grave rischio talvolta di non riuscire più a distinguere tra chiesa e piazza. Che dire poi del muoversi imperturbato di fotografi, cineoperatori, fioristi e scenografi durante la liturgia? Perlomeno che non rispettano la disciplina del sacro. Ma non possiamo prendercela con professionisti desiderosi di far bene il loro mestiere. Qui a mancare e il presidente dell’assemblea che, in virtù del suo ruolo e della sensibilità liturgica che dovrebbe aver acquisito, ha l’obbligo di innalzare i giusti paletti nei momenti opportuni, operando con tatto, ma con determinazione.
Insomma, da un quadro rigido siamo passati a un quadro libero. Più precisamente: siamo passati da un quadro eccessivamente rigido a un quadro eccessivamente libero. Se prima c’erano fissità, sclerosi di forme, innaturalezza, che rendevano la liturgia di allora una "liturgia di ferro", oggi ci sono naturalezza e spontaneismo, indubbiamente sinceri, ma spesso fraintesi, malintesi, che fanno ? o perlomeno rischiano di fare ? della liturgia una "liturgia di caucciù", sgusciante, glissante, saponosa, che a volte si esprime in ostentato affrancamento da ogni normativa rubricale.
La responsabilità di tutto ciò non è della riforma, bensì della sua applicazione, cioè della nostra incapacità di comprenderla e di valorizzarla. Evidentemente la riforma è stata fatta a livello dei "testi" liturgici, ma non è ancora penetrata a sufficienza nelle nostre "teste". Questa spontaneità fraintesa, che si identifica di fatto con l’improvvisazione, la faciloneria, il pressapochismo, il permissivismo, è il nuovo "criterio" che affascina innumerevoli operatori della pastorale, sacerdoti e laici. È il culto prestato a questo nuovo idolo che scatena oggi la reazione ? ingiustificata certo, ma in parte comprensibile ? degli avversari della riforma liturgica, che giungono talvolta fino a rifiutare la stessa espressione "riforma liturgica".
Oggi il pericolo per la liturgia viene da due sponde opposte, un pericolo ugualmente insidioso: da una parte, "un malinteso senso di creatività e di adattamento" che ingenerano gli abusi cui allude Giovanni Paolo II nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia 12; dall’altra, un ritorno nostalgico, che talvolta echeggia il formalismo, alle tradizioni con la "t" minuscola. La tensione che scuote in questi anni la riforma liturgica è appunto tra una "liturgia di caucciù", che vorrebbero alcuni, e una "liturgia di ferro", che vorrebbero altri. Sbagliano gli uni, sbagliano gli altri, tutti per eccesso.
Sul piano somatico noi siamo quello che siamo, perché abbiamo una spina dorsale, cioè una struttura che ci sostiene e ci rende operativi. La nostra spina dorsale non è né di ferro né di caucciù. Essa è umana, ha una consistenza, rigida quando occorre, ma nello stesso tempo sa adattarsi mirabilmente alle nostre esigenze di vita e di azione. Così dev’essere per la liturgia: la sua spina dorsale dev’essere umana, deve saper comporre armonicamente fedeltà alla Tradizione e adattamento alle presenti situazioni di una Chiesa in perenne divenire.
È innegabile che gli abusi ci sono. Essi non dipendono dalla riforma liturgica, bensì dalla ricezione debole che tanti ne hanno avuto e dalla loro conseguente, seppure inconsapevole, impermeabilità pratica allo spirito della liturgia. Tali abusi non si correggono con le reprimende, Si correggono con quella formazione che i Padri conciliari non si non stancati di raccomandare: formazione dei docenti di liturgia, formazione liturgica dei giovani nei seminari e nelle facoltà, formazione permanente per tutti, sacerdoti e laici, che aiuti a penetrare sempre più profondamente nello spirito della Chiesa in preghiera.
Anche la recente (4 dicembre 2003) Lettera apostolica di Giovanni Paolo II nel XL anniversario della Sacrosanctum Concilium invita a compiere una verifica sul cammino compiuto, Essa, fra l’altro, si chiede: "È vissuta la Liturgia come “fonte e culmine” della vita ecclesiale, secondo l’insegnamento della Sacrosanctum Concilium? La riscoperta del valore della Parola di Dio, che la riforma liturgica ha operato, ha trovato un riscontro positivo all’interno delle nostre celebrazioni? Fino a che punto la Liturgia è entrata nel concreto vissuto dei fedeli e scandisce il ritmo delle singole comunità? È compresa come via di santità, forza interiore del dinamismo apostolico e della missionarietà eccelsiale?" (n. 6).

NOTE
1 - Giovanni Crisostomo, s., Homilia XVIII in 2 Cor [PG 61, 527]
2 - Cfr Agostino, s., Sermo "Hoc quod videtis" [PL 46, 835-836]
3 - Cfr Gerolamo, s., In epistolam ad Galatas 2, 3 [PL 26, 355 c]
4 - A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Roma, Ed.Liturgiche, 1997, II ed, p. 400.
5 - F. Grivec ? F. Tomsic (eds), Costantinus et Methodius Thessalonicenses, Fontes, Zagreb, Staroslavenski Institut, 1960, p. 205.
6 - I prelati di Venezia pensavano in primo luogo al latino, in secondo luogo al greco. È dubbio che pensassero anche al siriaco, lingua semitica affine all’ebraico.
7 - "L’atteggiamento dei due fratelli di Salonicco è rappresentativo, nell’antichità cristiana, di uno stile tipico di molte Chiese: la rivelazione si annuncia in modo adeguato e si fa pienamente comprensibile quando Cristo parla la lingua dei vari popoli, e questi possono leggere la Scrittura e cantare la liturgia nella lingua e con le espressioni che sono loro proprie, quasi rinnovando i prodigi della Pentecoste" (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Orientale lumen, n. 7)
8 - F. Grivec ? F. Tomsic (eds), Costantinus et Methodius, cit., p. 211.
9 - Societas Goerresiana, Concilium Tridentinum: Diariorum, Actorum, Epistularum, Tractatuum nova collectio, tomus 8, Actorum pars 5, Friburgi Br. 1919, pp. 743 e ss.
10 - "Tutte le Chiese cristiane si fondano sull’unico messaggio di Cristo e condividono necessariamente un patrimonio comune. Pertanto non pochi princìpi della Costituzione conciliare sulla sacra liturgia forniscono elementi validi universalmente per le liturgie di tutte le Chiese e devono essere applicati anche nelle celebrazioni di Chiese che non seguono il rito romano (Congregazione per le Chiese Orientali, Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, n. 4)
11 "Non c’è dubbio clhe la riforma liturgica del Concilio abbia portato grandi vantaggi per una più consapevole, attiva e fruttuosa partecipazione dei fedeli al santo Sacrificio dell'altare […]. Purtroppo, accanto a queste luci, non mancano delle ombre. Infatti vi sono luoghi dove si registra un pressoché completo abbandono del culto di adorazione eucaristica. Si aggiungono, nell’uno o nell’altro contesto ecclesiale,  abusi che contribuiscono a oscurare la retta fede e la dottrina cattolica su questo mirabile Sacramento. Emerge talvolta una comprensione assai riduttiva del Mistero eucaristico. Spogliato del suo valore sacrificale, viene vissuto come se non oltrepassasse il senso e il valore di un incontro conviviale fraterno. Inoltre, la necessità del sacerdozio ministeriale, che poggia sulla successione apostolica, rimane talvolta oscurata e la sacramentalità dell'Eucaristia viene ridotta alla sola efficacia dell'annuncio. Di qui anche, una e là, iniziative ecumeniche che, pur generose nelle intenzioni, indulgono a prassi eucaristiche contrarie alla disciplina nella quale la Chiesa esprime la sua fede. Come non manifestare, per tutto questo, profondo dolore? L'Eucaristia è un dono troppo grande, per sopportare ambiguità e diminuzioni" (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia, n. 10; cfr n. 52).
12 "Occorre purtroppo lamentare che, soprattutto a partire dagli anni della riforma liturgica post-conciliare, per un malinteso senso di creatività e di adattamento, non sono mancati abusi, che sono stati motivo di sofferenza per molti. Una certa reazione al “formalismo” ha portato qualcuno, specie in alcune regioni, a ritenere non obbliganti le “forme” scelte dalla grande tradizione liturgica della Chiesa e dal suo Magistero e a introdurre innovazioni non autorizzate e spesso del tutto sconvenienti" (ivi, n. 52).



Commento 
all'articolo de La Civiltà Cattolica

La Costituzione "Sacrosanctum Concilium", il primo grande dono del Vaticano II



Nel quaderno 3684, del 20 dicembre 2003, de La Civiltà Cattolica primeggia, nella pagina iniziale, un articolo di Cesare Giraudo, S. I., intitolato: La Costituzione "Sacrosanctum Concilium", il primo grande dono del Vaticano II.
L’articolo riveste un certo interesse per vari motivi. 

Come è risaputo, il contenuto de La Civiltà Cattolica è, in qualche modo, espressione delle tendenze presenti nella Segreteria di Stato del Vaticano, si deve ritenere, quindi, che l’articolo, per l’argomento trattato, sia stato commissionato per esporre appositamente delle linee guida, delle direttive alle quali ci si deve attenere. 
L’articolo in questione fa il punto sul dibattito molto complesso che è in atto intorno ai frutti del Concilio Vaticano II e, in particolare, intorno alla crisi liturgica che la Chiesa sta ormai attraversando da diversi anni. L’enciclica Ecclesia de Eucharistia, pubblicata dal Santo Padre lo scorso Giovedí Santo, è stato l’atto ufficiale che ha reso palese un malessere che non poteva piú essere contenuto o dissimulato.

Ormai è chiaro a tutti che a quarant’anni dal Concilio il bilancio che si può tracciare è di segno negativo, occorre dunque correre ai ripari, e quest’articolo cerca di dare il suo contributo fissando dei limiti precisi per questo dibattito e, probabilmente, per i rimedii che si intendono adottare.

Vi è anche un altro aspetto che rende interessante quest’articolo. Per il modo in cui è strutturato e per la tecnica con cui sono espressi i concetti, sembra proprio che ci si trovi al cospetto del lavoro di uno specialista; ma non di uno specialista in liturgia, il che sarebbe del tutto logico, bensí di uno specialista in tecniche di comunicazione di massa. L’argomento principale dell’articolo è trattato in maniera decisa, ma dissimulata, per attenuarne la portata pur non tralasciandolo. Si parla infatti dello stato riprovevole in cui versa la pratica liturgica della Chiesa, ma se ne parla alla fine dell’articolo, dopo aver sollevato una cortina fumogena di discredito e di informazioni distorte sulla antica liturgia e dopo aver issato su un colossale piedistallo la Sacrosanctum Concilium, che, dopo tutto, è il punto di partenza dello stato attuale della pratica liturgica della Chiesa.

Ci sembra del tutto legittimo, quindi, considerare che, non potendo negare la crisi liturgica e dovendo giocoforza ammettere che c’è molto da rifare, l’Autore si veda costretto a premettere alla sua inevitabile critica due elementi in grado di ridurne in qualche modo l’impatto. Per prima cosa cerca di focalizzare l’attenzione del lettore su un elemento del tutto estraneo alla crisi attuale, presentando nella maniera piú fosca, e talvolta grottesca, la liturgia che la Chiesa ha mantenuto per duemila anni, e offrendo la suggestione che prima del Concilio vigesse una sorta di disastro liturgico. Subito dopo cerca di dipingere la Sacrosanctum Concilum come il rimedio illuminato in grado di sanare i supposti mali precedenti, tanto illuminato che, per un verso nessuno può pensare di criticarlo o rivederlo, e per l’altro nessuno può chiamarlo corresponsabile della crisi liturgica attuale. Solo per ultimo l’Autore si sofferma sull’argomento che gli sta a cuore, presentando una stringata serie di appunti all’attuale pratica liturgica come se si trattasse di elencare delle piccole “sbavature”, come lui stesso le chiama.
In altri termini, mentre è evidente a tutti che alla crisi attuale si è giunti anche col concorso non trascurabile del Concilio, la tesi dell’Autore sembra basarsi sul presupposto che il Concilio è intoccabile e che se esiste veramente un male originario questo è da ricercare nella pratica liturgica anteriore al Concilio.

Vediamo allora che cosa ha scritto l’Autore, iniziando il nostro esame proprio dall’argomento principale dell’articolo, e cioè dal fondo e non dall’inizio.

La terza parte di questo articolo è intitolata: A quarant’anni dalla "Sacrosanctum Concilium": il punto sulla situazione.
L’Autore, dopo aver ricordato che la riforma liturgica “è stata una scelta provvidenziale”, constata che “qualcosa non ha funzionato”, richiamandosi all’enciclica Ecclesia de Eucharistia in cui il Santo Padre “segnala l’esistenza di "ombre" e perfino di "abusi".” Ma precisando, subito dopo, che si tratta di “sbavature che hanno offuscato e purtroppo continuano ad offuscare la liturgia”.
Ora, l’uso di tali espedienti lessicali fa subito comprendere che l’Autore fa finta di condividere certe critiche e certe constatazioni, ma in realtà, non potendo negare, si industria a minimizzare.
In effetti non v’è nulla in comune tra un "abuso" e una "sbavatura", se non altro perché, in termini liturgici, a differenza delle “sbavature”, gli abusi finiscono spesso col tradursi nella invalidità dell’atto liturgico e nella eterodossia dottrinale. È in fondo questa la vera preoccupazione del Santo Padre nell’enciclica citata, come peraltro si evince dallo stesso passo dell’enciclica che l’Autore riporta in nota e in cui il santo Padre afferma: “Si aggiungono, nell’uno o nell’altro contesto ecclesiale, abusi che contribuiscono ad oscurare la retta fede e la dottrina cattolica su questo mirabile Sacramento.”

Ma veniamo a quelle che l’Autore chiama “sbavature”.

“Spesso, chi sa cantare in qualche modo, canta, magari improvvisando. Chi sa suonare in qualche modo, suona, dimenticando che la musica ha pure le sue esigenze di preparazione. Nelle celebrazioni intervengono strumenti nuovi, una vera invasione. … I canti in lingua latina sono ostracizzati.            
Spesso, nelle nostre chiese, chi vuole leggere, legge come può, e allora fioccano gli errori, la punteggiatura non è rispettata, la dizione è confusa. … Chi deve fare l'omelia, la fa a braccio e non di rado tralascia ogni riferimento alle letture appena proclamate. Così pure, chi propone le intenzioni della preghiera dei fedeli spesso prolunga la lista delle esperienze dei singoli o della comunità, evocando le situazioni più disparate, a prescindere dal messaggio delle letture. Inoltre, chi deve proclamare la preghiera eucaristica perché è presbitero, la prende a caso o, meglio, prende quella che scelgono tutti, attratti, più ancora che dalla sua bellezza, dalla sua brevità. Non parliamo poi di quei sacerdoti che, talvolta e in taluni luoghi, si arrogano il diritto di utilizzare preghiere eucaristiche selvagge, o di comporne lì per lì il testo o parti di esso.
Spesso, chi ama battere le mani, perché lo vede fare nei comizi o nei concerti, avvia e scatena applausi plateali anche in chiesa, con il conseguente grave rischio talvolta di non riuscire più a distinguere tra chiesa e piazza. …”

È del tutto evidente che l’elenco dovrebbe e potrebbe essere molto, molto piú lungo, ma fermiamoci a quanto ha voluto ricordare l’Autore. 
Pur essendosi limitato ad alcuni aspetti marginali, allo scopo di minimizzare gli “abusi” ricordati dal Santo Padre, resta il fatto che queste appena elencate non sono certo delle “sbavature”. 
Canti, suoni e letture abbandonate all’improvvisazione, sono un indice chiarissimo dell’infimo rispetto che oggi vige nelle nostre chiese, non solo nei confronti della liturgia, ma nei confronti di Nostro Signore stesso; e questo non può essere definito una “sbavatura”, perché si tratta invece della perdita della fede.
Chi, nelle preghiere dei fedeli affastella le cose piú disparate, non lo fa per accidenti, ma con la piena convinzione che le cose importanti sono quelle che ha deciso di dire lui, non la liturgia e la S. Messa.
I celebranti che non si preoccupano di preparare l’omelia, non commettono una semplice leggerezza, perché l’omelia la fanno, ma parlando a ragion veduta delle cose piú disparate, incuranti di Dio e della liturgia. Quando poi arrivano a recitare la preghiera eucaristica scegliendone una a caso o inventandone una di sana pianta, non dimostrano di essere distratti o frettolosi, ma esercitano quello che ritengono sia un loro diritto, e proprio perché, come afferma l’Autore, sono convinti che la preghiera eucaristica sia una composizione declamatoria (“deve proclamare la preghiera eucaristica”), e non una supplica che umilmente si rivolge a Dio.

La battuta sugli applausi, poi, è davvero rivelatrice di tutto l’impianto minimizzante che sostiene questo articolo. Noi non sappiamo dove risieda ordinariamente l’Autore, ma sembra che sia rimasto solo lui a credere che gli applausi in chiesa, prima, durante e dopo la Messa, siano retaggio di un gruppo di fedeli male avvezzi. In verità, gli applausi in chiesa, che la trasformano in una piazza, sono una prerogativa di tutti gli ordinati, preti, Vescovi e Cardinali, come tutti ormai siamo abituati a vedere e a sentire perfino nel corso delle celebrazioni papali.
Ed è proprio questo il punto: l’Autore fa finta di dimenticare che non ci troviamo di fronte a “qualcosa che non ha funzionato”, come afferma e come cerca di mostrare, bensí di fronte a qualcosa che ha funzionato benissimo, esattamente come hanno voluto i Vescovi che dirigono le Diocesi.

Quando si è costretti ad affrontare questa spinosa questione degli abusi, è prassi comune operare un netto distinguo tra i documenti del Concilio e la loro applicazione. Si ribatte sull’idea che il Concilio e i Padri conciliari abbiano fatto tutto con la massima attenzione e in perfetta aderenza all’ortodossia, mentre la pratica attuazione delle disposizioni del Concilio abbia incontrato disattenzione o disinteresse a causa “della nostra incapacità di comprenderla e di valorizzarla [la riforma liturgica]” “perché essa non è ancora penetrata a sufficienza nelle nostre "teste"”, come afferma l’Autore.
Ora, questo modo di ragionare ci sembra alquanto surreale. Da un lato ci sarebbe il Concilio, con i suoi documenti, quasi un ente a sé stante, del tutto indipendente da ogni contingenza e da ogni interferenza umana; dall’altro ci sarebbe una schiera di liturgisti, di preti e di Vescovi che, avendo ricevuto dal di fuori il Concilio e i suoi documenti, non è ancora riuscita a rendersi conto del significato vero di ciò che è sopraggiunto.
Facciamo notare che il Concilio non è stato altro che l’assise del Vescovi, i quali sono arrivati in Vaticano con tutto il loro bagaglio di esperienze e di esigenze. Sulla base di esse hanno elaborato i documenti che hanno ritenuto piú idonei e alla fine del Concilio non sono rientrati nell’empireo, ma sono rientrati nelle loro Diocesi, dove hanno dato corso all’applicazione di quelle stesse cose che avevano deliberato in Concilio. Non v’è alcuna distinzione, quindi, tra la Sacrosanctum Concilium e la sua applicazione, poiché si tratta di due momenti che si trovavano e si trovano riunite nelle medesime persone. 
La tesi dell’Autore, che è poi la tesi che va per la maggiore, può essere valida solo se si guarda ai Vescovi, e quindi ai Padri conciliari, come a degli esseri dissociati e schizofrenici: un momento prima ti scrivono la Sacrosanctum Concilium, il momento dopo ti realizzano gli "abusi".

C’è ancora un’altra sfumatura che va fatta notare. 
L’Autore attribuisce i mali liturgici di questi anni alla “spontaneità fraintesa, che si identifica di fatto con l’improvvisazione, la faciloneria, il pressappochismo, il permissivismo”, tutte cose che affascinerebbero “innumerevoli operatori della pastorale, sacerdoti e laici.
Innanzi tutto occorre notare che l’insieme di questi comportamenti non può certo essere qualificato di “sbavatura”, qui ci troviamo al cospetto di qualcosa che attiene essenzialmente al disprezzo per la liturgia e alla relativizzazione di Dio. Qui siamo di fronte all’uomo che pretende di inventare a propria immagine il culto di Dio e, quindi, Dio stesso.
Ma, cosa ancora piú grave, si cerca di scaricare sulle spalle dei “sacerdoti e dei laici” una responsabilità che è propriamente dei Vescovi.
L’Autore non fa neanche cenno a certi abusi gravissimi che rivelano il proliferare di una nuova religione, li ricordiamo allora noi.

Consacrazioni fuori dalla S. Messa; volgarizzazioni e usi impropri o sacrileghi delle Specie consacrate; simulazione della S. Messa; trasformazione della S. Messa in comizio; uso di sostanze diverse dal pane e dal vino per la consacrazione; concelebrazioni con i non ordinati; celebrazioni in luoghi impropri o dissacrati; abbandono o nascondimento del SS. Sacramento; uso di simboli, di preghiere, di paramenti o di suppellettili non cattolici; interferenza e confusione tra ordinati e laici durante la S. Messa; rifiuto di ogni riverenza per l’Ostia della Comunione; distribuzione dell’Ostia a chiunque, in maniera indifferenziata; disprezzo per l’adorazione eucaristica… e non finisce qui.
 
Tutto questo è qualcosa di piú degli “abusi”, qui dobbiamo constatare che in quarant’anni, nelle nostre chiese, si è diffusa a macchia d’olio una nuova religione:tutto questo non ha niente a che vedere con la religione cattolica e non perché si adotti un punto di vista “nostalgico” o “formale”, come scrive l’Autore, ma perché tutto questo è in palese contrasto con la stessa Sacrosanctum Concilium e con i libri liturgici riformati. 
Ma, se questo è potuto accadere e, soprattutto, ha potuto svilupparsi nel corso di quarant’anni, non si può dire che sia stato causato da incomprensione o da superficialità. Non si tratta di piccole cose scomposte notate qua e là, bensí di un andamento che in tanti anni si è sviluppato e consolidato, tanto che dagli stessi documenti della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti si comprende facilmente come queste cose e questi “abusi”, supposti impensabili alla fine del Concilio, abbiano finito col trovare legittimità, cosí che è stato l’abuso ad averla vinta sulla Sacrosanctum Concilium
Basti per tutti la distribuzione del Santa Comunione sulla mano.

Orbene, se tutto questo è accaduto, cosí che oggi si pensa che si debba correre ai ripari, è innegabile che la responsabilità dei Vescovi non può essere passata sotto silenzio, soprattutto perché non si tratta di semplice tolleranza o permissivismo, ma si deve riconoscere che in troppe occasioni si è trattato e si tratta di connivenza e di cointeressenza.

Possiamo pensare che l’Autore non abbia presente questo aspetto basilare del problema? 
Non è possibile. Lui sa bene che cosa è accaduto, ma fa di tutto per dissimulare.

Quando parla, infatti, di quella supposta nostra “incapacità di comprenderla e di valorizzarla [la riforma liturgica]”, che sarebbe alla base dei mali odierni, incappa in un grosso lapsus. Se, come lui sostiene, la riforma è scaturita da uno stato di necessità, da tutta una serie di esigenze sentite dal "popolo" e dai chierici oppressi da un formalismo soffocante; se la riforma è stata davvero l’espressione di un sentimento radicato che cercava spazio per esprimersi, non è possibile parlare poi di riforma incompresa. 
Tranne che questa riforma, che a parole scaturiva dal "popolo", in realtà non era e non è altro che l’invenzione cervellotica di alcuni addetti ai lavori, i quali, infatuatisi di una visione immaginifica della liturgia e della religione, hanno inventato ed "imposto" tutta una serie di novità che ancora oggi, a quarant’anni dal Concilio, il famoso "popolo" non riesce a comprendere e a valorizzare. Peraltro è lo stesso Autore che lo confessa: la riforma liturgica, egli dice, “non è ancora penetrata a sufficienza nelle nostre "teste"”, Il che, tradotto in lingua volgare, significa che essa è del tutto estranea alle nostre teste, è un elemento che viene dal di fuori, qualcosa che è stato imposto dall’esterno senza alcun fattore comune con quello che c’era nelle nostre teste, qualcosa che, a quarant’anni dal Concilio, le nostre teste si rifiutano ancora di accettare.

Questo è il vero problema. Aggravato dal fatto che non si può impunemente parlare di “naturalezza e spontaneismo, indubbiamente sinceri, ma spesso fraintesi, malintesi…”, facendo finta di dimenticare che una liturgia “naturale e spontanea” non potrebbe neanche esistere, perché allora non sarebbe una "divina liturgia", ma una sceneggiatura meramente umana. Certo, intrisa di tanta buona volontà, ma mossa prioritariamente da pulsioni e da sentimenti che si fondano sull’uomo, non sugli insegnamenti di Dio. 
In fondo è quello che è accaduto. 
In quarant’anni si è lasciato spazio alle pulsioni umane, e queste, com’è naturale, ci hanno condotto sempre più verso il basso. Si è cercato di corrispondere alle incontrollabili e mutevolissime istanze umane e ci si è sempre più allontanati dalla primaria preoccupazione per Dio e per il culto a Lui dovuto. 
In altre parole, invece dello sforzo per ridurre la nostra multiformità, la nostra dispersività e la nostra mutevolezza all’Unicità di Dio, si è finito per innescare un processo che vorrebbe illusoriamente conformare l’Unicità di Dio alle nostre multiformità, dispersività e mutevolezza. 

La terribile conseguenza di tutto questo è che, se è vero come è vero che "si prega come si crede", questo nuovo modo di rendere culto a Dio non può essere ascritto al solo “abuso” nello specifico campo liturgico, ma dev’essere ritenuto fondato su un modo diverso di credere o, per meglio dire, su un nuovo credo, che in molti di questi casi si traduce in una vera e propria nuova teologia e nuova dottrina che non hanno piú niente a che vedere con la Chiesa e con Cristo.

Per quanto questa affermazione possa apparire grave, nondimeno scaturisce dalla semplice constatazione dell’attuale condizione della compagine cattolica, e trova conferma nell’esame che faremo adesso circa i contenuti della Sacrosanctum Concilium.

Seguendo a ritroso l’Autore, vediamo di esaminare ciò che lui afferma circa le riforme liturgiche volute dai Padri conciliari e contenute nella Sacrosanctum Concilium.
“Cosí recita il n. 36: "L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato però che, sia nella messa sia nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua volgare può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda ad essa una parte piú ampia, specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti". La questione della lingua liturgica ritorna al n. 54, che recita: "Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo, si possa concedere una congrua parte alla lingua volgare, specialmente nelle letture e nell’orazione comune […]. Tuttavia si abbia cura che i fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della messa che spettano ad essi"”.

Questa lunga citazione, tratta dallo stesso articolo, aiuta a comprendere quanta contraddizione sia presente in esso. Contraddizione che, in verità, non può essere addebitata interamente all’Autore, poiché egli si limita a presentare le cose secondo un uso invalso fin dalla fine del Concilio. 
Nessuno è mai riuscito a spiegare, in maniera decente, come mai sia scomparso il latino dalla liturgia, né ci è mai capitato di leggere a chi risalga la responsabilità della sua perentoria e subitanea proibizione fin dal 1965.
A leggere i documenti, il Concilio non ne ha colpa, anzi esso ne ha raccomandato la conservazione, sia per il celebrante sia per i fedeli. Chi, come e perché ha stabilito esattamente il contrario?
Insomma, i Padri conciliari raccomandarono l’uso del latino anche per i fedeli, lo scrissero e lo sottoscrissero, mentre i Vescovi, unanimi, ne decretarono la scomparsa e ne sancirono la proibizione.
Qui è successo qualcosa di molto strano. Ci troviamo al cospetto del piú incredibile degli abusi, del palese rigetto da parte dei Vescovi di quanto essi stessi avevano stabilito in sede conciliare.

Questa vicenda, insieme ad altre dello stesso tenore, è tale da costituire la chiave di lettura, non solo di tutto quello che è accaduto dopo il Concilio, ma dello stesso Concilio.
Quando si parla dello “spirito del Concilio”, che avrebbe informato tutta l’"applicazione" del Concilio stesso, si usa a proposito una espressione che rende bene l’idea di quel che è accaduto prima, durante e dopo il Concilio. 
Insomma, sembra proprio che il Concilio e i suoi documenti siano stati solo una scusa, un punto d’appoggio, su cui i Vescovi avrebbero costruito una pastorale, una catechesi e un magistero che avevano lo scopo di “rifondare” la Chiesa, la liturgia e la dottrina. Che poi questo si sia verificato con la piú o meno avvertenza da parte di tanti Vescovi, non cambia nulla della questione.

L’Autore dell’articolo non ne parla, ma noi pensiamo sia utile ricordare che quando i Padri conciliari parlavano della liturgia e delle possibili riforme da apportare,  molti di essi avevano in vista la liturgia fissata col Concilio di Trento, non una nuova liturgia come è poi avvenuto.
Chi, fra costoro, avrebbe mai pensato di dover dir Messa con l’altare girato con le spalle al Signore; di dover dir Messa nelle chiese-garage di nuova concezione o nelle chiese-arene concepite da architetti agnostici; che sarebbero stati riscritti tutti i lezionari, tutti i graduali, tutti i cantuali, tutti i rituali, tutti i pontificali; di dover abolire quasi tutte le pratiche paraliturgiche legate alla devozione popolare; ecc.?
Eppure tutto questo è avvenuto, ed è avvenuto ad opera delle Conferenze Episcopali e cioè ad opera di quegli stessi Vescovi che non avevano mai pensato di doverlo fare.
Delle due l’una, o il Concilio è stato una scusa o il postconcilio è stato diretto da una irresistibile forza preternaturale a cui i Vescovi non hanno saputo e voluto resistere.

Qualcuno potrebbe obiettare che la riforma è stata predisposta in Vaticano ed è stata promulgata dal Papa, quindi i Vescovi e le Conferenze Episcopali non avrebbero alcuna responsabilità. Ma questo è l’aspetto formale della questione. Per poter sostenere una simile tesi anche dal punto di vista sostanziale occorre accettare l’idea che il Vaticano e il Papa abbiano attuato una riforma in contrasto col Concilio e l’abbiano poi imposta a tutti i Vescovi che l’avrebbero semplicemente subita: il che è palesemente insostenibile.

L’Autore non dà alcuna spiegazione di questo fenomeno, anzi si sofferma sulla questione della lingua volgare, introducendola a questo modo: “ … vogliamo soffermarci su quella che giustamente può essere considerata la decisione basilare della riforma liturgica, l’introduzione della lingua parlata nelle celebrazioni, benché il Concilio non volesse abolire l’uso del latino nelle celebrazioni. Si è trattato di un cambiamento storico che, se fu accolto con entusiasmo da chi meglio riuscì a comprenderne il significato e a prevederne gli effetti, non mancò di suscitare apprensioni, disturbare abitudini consolidate, destare nostalgie profonde.”

Ci sembra ce ne sia abbastanza per capire che l’Autore non ha alcuna intenzione di affrontare seriamente il problema, egli svolge il compito di chi deve solo produrre un elogio del Concilio e del postconcilio ad ogni costo.
Ora, che si sia trattato di un evento storico è fuori dubbio, ma in realtà quello che a noi seguaci di Cristo deve maggiormente interessare non è l’evento storico, bensí l’evento religioso. La storia appartiene all’ordine delle contingenze e lascia il tempo che trova, ciò che conta è la religione e il mantenere fermo il vero culto di Dio.
Diciamo subito che la prima cosa che si nota in questo panegirico del volgare è la leggerezza con cui l’Autore afferma che il Concilio non “volesse abolire l’uso del latino nelle celebrazioni”.
Altro che non abolizione, il Concilio "prescrive" l’uso del latino! Come poi si sia giunti alla sua abolizione l’Autore non lo spiega, quasi fosse un dettaglio di poco conto.

Spiega invece, con un esempio un po’ particolare, quello dei santi Cirillo e Metodio, come la Chiesa si sia sempre trovata di fronte al problema dell’uso della lingua volgare.
Coloro che volevano mantenere l’uso del latino, dice l’Autore, “assolutizzavano l’usus receptus di una o due lingue come se quello fosse davvero esclusivo. Insomma non avevano il senso della Tradizione, quella che a partire dal giorno della Pentecoste aveva inaugurato la predicazione della Parola di Dio - e di certo anche la liturgia -  nelle lingue dei popoli.”
È questo un modo davvero singolare di presentare la questione, e siccome noi abbiamo un grande rispetto per la preparazione dei padri gesuiti non possiamo credere che l’Autore sia un ignorante, siamo quindi costretti a pensare che egli cerchi di farci credere che il falso sia vero. 
Il che non è certo una buona credenziale per lui stesso e per l’articolo che ha scritto.

Sollevare il caso dell’uso della lingua slava nelle terre evangelizzate dai santi Cirillo e Metodio, senza precisare che questa lingua è diventata la lingua liturgica di una parte dell’Oriente cristiano e come tale è rimasta invariata per dodici secoli, fino ad oggi, è talmente maldestro che ci fa sospettare della buona fede dell’Autore. D’altronde, lo stesso dicasi per il greco e lo stesso è accaduto per il latino fino al colpo di mano postconciliare.

Ma è ancora piú sorprendente che l’Autore si permetta di riferirsi al dono delle lingue alla Pentecoste, insinuando una confusione incredibile tra predicazione e liturgia. E lo fa a ragion veduta, come rivela il suo inciso “e di certo anche la liturgia”.
Dove si fonda questa certezza dell’Autore? Vorrebbe forse farci credere che gli Apostoli, a Pentecoste, abbiano eseguito cento liturgie nelle cento lingue dei presenti in quel momento?
La verità è che l’Autore deve a tutti i costi presentare le cose in modo che il postconcilio abbia ragione, anche a costo di fare delle affermazioni senza fondamento.

Orbene, la lingua liturgica è qualcosa di strettamente connesso con l’esecuzione del rito, essa, al pari delle prescrizioni emanate solo dall’Autorità competente, è uno degli elementi di garanzia per la corretta esecuzione del rito. La liturgia è l’insieme di quegli elementi, parole, gesti, posture, suoni, suppellettili, paramenti, spazio sacro, tempo rituale, che compongono un preciso rito col quale si rende a Dio il culto dovutogli, nel modo da Lui richiesto e secondo i suoi precisi insegnamenti. Tutto il resto che gira intorno al rito è ammissibile come supplemento e costituisce l’insieme del cerimoniale che accompagna il rito a maggiore edificazione dei fedeli, sulla base della loro sensibilità, della loro specifica cultura e della loro condizione spaziale e temporale.
In particolare, la lingua liturgica, dovendo esprimere precisi concetti dottrinali, deve necessariamente avere una qualche fissità, che sia in grado di mettere al riparo questi stessi concetti dai cambiamenti che comporta necessariamente il trascorrere del tempo e la mutevolezza del linguaggio parlato.
In questi quarant’anni è accaduto proprio questo. A furia di usare il volgare nella liturgia, si è stravolto il senso degli insegnamenti dottrinali contenuti nelle sue parti. Si è perfino stravolto il senso di certi passi della Scrittura, operando delle traduzioni che sono delle vere e proprie libere traslazioni dall’insegnamento di Dio alla sapienza umana. 
Nessuna meraviglia dunque se oggi ne piangiamo le conseguenze.

Per altro verso, l’Autore, mentre si è compiaciuto a soffermarsi sulla vicenda dell’adozione della lingua slava, non solo trascura di ricordare che essa è rimasta invariata per dodici secoli fino ad oggi, ma passa sotto silenzio il fatto che la Chiesa d’Oriente ha conservate intatte fino ad oggi le liturgie dei Padri Greci, come Basilio e Crisostomo, ivi compresi tutti quegli elementi che abbiamo citato prima e su cui ritorneremo tra poco.

Per adesso pensiamo sia necessario ricordare che vi è una bella differenza tra la predicazione, che può essere fatta solo nella lingua volgare, e la preghiera liturgica che dev’essere fatta in modo da non dover subire variazioni continue e conseguenze disastrose come gli abusi di cui stiamo parlando.
L’Autore sa che vi è una grande differenza tra le due parti della liturgia della S. Messa, la prima parte, la Messa dei catecumeni, che contiene l’istruzione e l’omelia, e la seconda parte, la Messa dei fedeli, che contiene il prefazio, il canone con la preghiera eucaristica e la comunione. Egli sa anche che la seconda parte della S. Messa è la parte essenziale, nel corso della quale si rinnova il Santo Sacrificio della Croce e si rende a Dio il culto dovutogli, secondo gli insegnamenti che il Signore Gesú trasmise agli Apostoli, cioè secondo la Tradizione.
Orbene, al fine di confondere meglio le acque, il postconcilio ha introdotto l’uso dell’espressione “liturgia della parola”, con la quale si designerebbe la parte istruttiva della Messa. Cosí facendo ha posto le premesse per far scadere la seconda parte della Messa allo stesso livello della prima.
In realtà, mentre la prima parte della Messa è principalmente, ma non interamente, incentrata sull’attenzione verso i fedeli: confessione, letture e omelia; la seconda parte della messa è essenzialmente e interamente incentrata sull’attenzione verso Dio. Non v’è alcun dubbio che anche un bambino capisce che non ci si può rivolgere a Dio allo stesso modo con cui ci si rivolge ai fedeli.
Anzi, mentre la prima parte della Messa ha una connotazione discendente, per gli elementi divini che vengono ricordati ai fedeli perché si preparino per la seconda parte; quest’ultima ha una connotazione ascendente, nel corso della quale tutti i fedeli si devono rivolgere a Dio per rendergli il culto dovutogli, nel modo prescritto da Dio stesso.
Ora, parlare ai fedeli può anche richiedere la diversificazione del linguaggio perché essi capiscano meglio il messaggio di Dio, ma parlare a Dio richiede obbligatoriamente ciò che si ripete ancora oggi nei diversi prefazi: essere "rivolti al Signore", "rendere grazie a Dio", riconoscere la sua Maestà, inneggiare al suo Nome, cantare "ad una voce" l’inno della sua lode: Santo, Santo, Santo, "uniti agli Angeli e ai Santi e a tutte le schiere delle milizie celesti". 

Si può dire, in piena coscienza, che in questi quarant’anni tutta la Chiesa ha cantato "ad una voce" l’inno di lode al Signore, o piuttosto non si deve constatare che ognuno ha finito con lodare, se possibile, il Signore in maniera del tutto personale, individuale ed estemporanea, trasformando la lode della Chiesa in un rumoroso e incomprensibile coacervo di lingue e di concezioni diverse?

Non solo, ma quando si vuol parlare seriamente del problema della lingua nella liturgia, soprattutto in relazione alla parte sacrificale della S. Messa, dal prefazio alla dossologia, non si può far finta di dimenticare che in quel momento non si sta svolgendo una rappresentazione teatrale, un comizio per il popolo, un racconto storico, un incontro conviviale: al contrario, in quel momento si stanno rinnovando i Santi Misteri, in quel momento i cieli si schiudono e la liturgia celeste si fonde con la liturgia terrestre perché la lode a Dio sia una sola cosa in terra come in cielo. In quel momento il mistero terribile del Sacrificio della Croce si rinnova per la salvezza delle ànime dei fedeli. In quel momento accade sull’altare ciò che nessuna parola umana potrebbe mai esprimere e nessun pensiero umano potrebbe mai concepire: Nostro Signore si rende presente in Corpo, Anima e Divinità.
Cosa ha a che fare con tutto questo l’uso della lingua volgare, la recitazione ad alta voce, la supposta comprensione dei fedeli? 
Forse che i fedeli, col postconcilio, hanno finalmente svelato il mistero della S. Messa? 
O forse, col dopoconcilio, non vi sarebbe piú alcun mistero da svelare, e quindi non vi sarebbe piú alcuna Messa da celebrare?

In effetti però, la questione è ancora piú grave, ce lo svela l’Autore quando afferma: “Oggi siamo più che convinti della necessità che urgeva alla Chiesa del nostro tempo di restituire al discorso tra l’assemblea e Dio le risonanze profonde del linguaggio di ogni popolo.”
Siamo certi che l’Autore ci perdonerà, ma non possiamo esimerci dall’esclamare: che razza di diavoleria è mai questa!? 
Secondo l’Autore, la liturgia non sarebbe altro che un “discorso tra l’assemblea e Dio”. E poi ci si meraviglia se ci sono gli “abusi”!
Allora, se è vero come è vero che la liturgia è opera del Signore Gesú, che ha istituito l’Eucaristia nel corso dell’Ultima Cena, dev’essere altrettanto vero che l’Ultima Cena fu un discorso tra l’assemblea e Dio. Il che, prima che falso, è ridicolo.

Nostro Signore ha istituito l’Eucaristia a porte chiuse, escludendo rigorosamente dalla celebrazione perfino "tutti" i discepoli, salvo i Dodici. Dalla celebrazione della Prima Eucaristia è stata perfino esclusa la Vergine Maria Madre di Dio.
Il supposto “discorso tra l’assemblea e Dio” è una pura fantasia degli innovatori, che si basa su un preciso riferimento: la religiosità sentimentale e superficiale scaturita dall’eresia protestante. 
Laddove, per i protestanti, non v’è piú sacralità, non v’è piú il sacramento dell’Ordine, non v’è piú Sacrificio, non v’è piú Presenza Reale, non v’è piú liturgia - intesa nel vero senso della parola -, ebbene, là resta solo un supposto discorso tra l’assemblea e Dio, una sorta di immaginario dialogo, uno scambio di vedute e, conseguentemente e inevitabilmente, un dibattito: un dibattito tra l’assemblea e Dio. 

Non siamo noi che affermiamo questa cosa incredibile, ma è l’Autore stesso, con un compiacimento e una sicurezza che lascia esterrefatti.
Ci chiediamo: in quale parte dell’enciclica Ecclesia de Eucharistia sta scritto che il rinnovamento del Sacrificio della Croce non è altro che un discorso tra l’assemblea e Dio?
Questo lapsus dell’Autore aiuta a comprendere che lui è uno di quelli che ha finito col credere, col postconcilio, che il soggetto dell’azione liturgica, nella S. Messa, non è Nostro Signore agente per mezzo del ministro ordinato che opera in persona Christi, ma è il popolo, di cui il ministro ordinato è un semplice delegato: il presidente. Con buona pace di tutti i Concili della Chiesa, di tutto il magistero e della stessa Sacrosanctum Concilium di cui l’Autore sembra tessere le lodi.

Veniamo adesso alla terza parte dell’articolo, che l’Autore svolge per prima.
Abbiamo lasciata per ultima questa parte perché è la meno interessante. In essa sono affastellate tante di quelle inesattezze, presentate in maniera talmente grottesca, che veramente non meriterebbe alcuna considerazione. Ma dal momento che l’Autore l’ha posta a presentazione del suo articolo, vediamo di concederle un po’ di attenzione.
La prima cosa che salta all’occhio è l’affermazione secondo cui: “La fisionomia celebrativa di questi decenni [prima del Concilio] è sempre la stessa, né si discosta sostanzialmente da quella dell'intero millennio cui appartengono.” Ed ecco un elemento di questa fisionomia celebrativa che l’Autore presenta in maniera ridicola: la divisione tra il presbiterio e la navata.
Come mai l’Autore ci tiene a precisare la faccenda del primo millennio? Perché si prepara a sostenere la tesi moderna secondo cui la liturgia preconciliare è roba da medioevo, nel corso del quale sarebbe stata stravolta la liturgia del primo millennio e, in particolare, dei tempi apostolici. È opportuno quindi fare qualche precisazione, chissà che l’Autore non abbia a trarne profitto.

La divisione tra il presbiterio e la navata non è un’invenzione del medioevo, ma risale ai primi tempi della Chiesa. Siccome,diversamente di adesso, si aveva il senso dello "spazio sacro", non era possibile trascurare neanche i particolari, poiché tutto doveva essere fatto a maggior gloria di Dio. 
Lo spazio riservato al rinnovamento del Sacrificio della Croce non poteva essere confuso con lo spazio rimanente. Anzi, tutto lo spazio occupato dalla chiesa aveva il suo punto focale nel presbiterio, o, per meglio dire, nell’altare.
Innanzi tutto la chiesa era orientata in modo che il luogo della manifestazione misterica del Signore fosse verso Oriente, avendo cura che lo spazio delimitato dalle mura avesse la forma della croce, o quasi. In tal modo, su questa croce disposta orizzontalmente, il presbiterio, e in particolare l’altare si veniva a collocare all’incrocio dei bracci della croce. Ancora piú a Oriente vi era l’abside, mentre verso Occidente vi era la navata. I bracci Sud e Nord della croce erano posti all’altezza del presbiterio. 
Non ci possiamo dilungare, in questa sede, sui vari significati di questa disposizione, ci limiteremo quindi a ricordare che in tal modo l’altare corrispondeva al cuore del Crocefisso, l’abside alla testa del Crocefisso, la navata al corpo del Crocefisso, i bracci del transetto alle braccia del Crocefisso. Seguendo questa distribuzione, il posto del successore degli Apostoli era nell’abside, in corrispondenza della testa; il posto dell’altare, e quindi del celebrante e dei ministri, era al centro del presbiterio, in corrispondenza del cuore; il posto dei fedeli era nella navata, in corrispondenza del corpo. 
Per di piú, in questa navata, fin dai primi tempi della chiesa, vi erano due zone distinte: la parte centrale riservata agli uomini e le parti laterali riservate alle donne e perciò detti "matronei". 
Ricordiamo anche che l’abside, oltre a delle raffigurazioni relative a Cristo in gloria, giudicante o benedicente, aveva una precisa forma circolare e, in particolare aveva delle finestre da cui entrava la luce del sole al suo nascere e si riversava sull’altare. In seguito, questa funzione venne svolta dalla cupola che, mantenendo sempre la forma circolare, veniva posta in corrispondenza del centro della croce, esattamente sopra l’altare.

Far finta di meravigliarsi della divisione tra il presbiterio e la navata, come fosse una sorta di espediente pretesco per tenere lontani quei fessi dei fedeli, significa offendere, non solo l’intelligenza di chi legge, ma la stessa religione, che non è fatta di mere elucubrazioni intellettuali di specialisti pubblicisti, ma di cose molto piú serie che sarebbe il caso di andare a studiare.

Peraltro, la cura per la disposizione dello spazio sacro è cosa che risale al Vecchio Testamento, dove è Iddio stesso che detta forme, misure e prescrizioni. Che un prete non sappia queste cose è davvero incredibile, soprattutto per un prete cresciuto illuminato dai supposti lumi del  postconcilio. Se poi si pensa che il postconcilio insegna anche che occorre accrescere l’attenzione per le diverse forme di culto esistenti al mondo, si resta davvero esterrefatti, perché non esiste al mondo alcuna forma cultuale, compresa quella delle pseudo-religioni non cattoliche, che non conosca il senso della divisione dello spazio sacro. 
Solo il nostro Autore sembra ignorare queste cose.

Per contro, dà modo di sapere delle cose in esclusiva, come quella strana storia delle chiese piene di donne e senza uomini del tempo di San Paolo. Ora chiunque legga il passo degli Atti citato dall’Autore (16, 13), si rende subito conto che questi, da abile manipolatore, usa San Paolo per dare piú forza alla storia grottesca che gli uomini stavano fuori dalla chiesa.
"E gli uomini, dove sono gli uomini?", si chiede l’Autore. E questo per mille anni. Per mille anni gli uomini non sarebbero andati in chiesa se non alla spicciolata, in ritardo, solo in pochi, senza attenzione, con disinteresse, un po’ annoiati. Incredibile!

Ma viene subito da chiedersi: a cosa servirebbe questa grottesca rappresentazione escogitata dall’Autore?
Semplice, non serve a niente, è solo un espediente da manipolatore pubblicitario per gettare discredito sulla liturgia preconciliare. Tant’è che l’Autore non dice una parola sul significato della liturgia di prima del Concilio.
Dice però un sacco di cose esatte, presentandole tutte come se fossero degli accadimenti grotteschi, ridicoli, che non hanno niente a che vedere con la liturgia, con la Chiesa, con Nostro Signore.
Vediamo.

“II sacerdote, davanti all'altare, volgendo le spalle ai fedeli,…”. Esatto, ma detto in modo ridicolo, il sacerdote volge gli occhi e il corpo a Dio, non volge le spalle ai fedeli, ma, insieme ai fedeli, si rivolge a Dio. Questo ha insegnato il Signore.

“[Il sacerdote] … "dice" messa …”. Esatto, il sacerdote la Messa la "dice", non la "fa"; il sacerdote, a stretto rigore, non "celebra" neanche, poiché il vero celebrante è Cristo, che è il vero Sacerdote, il Sacrificatore e il Sacrificato, il ministro è solo uno strumento di Cristo, egli celebra in persona Christi. Altro che celebrazione del presidente e dell’assemblea! Questo ha insegnato il Signore.

“[Il sacerdote] … quando benedice, a volte sembra che fenda l'aria, con la mano di taglio e con angolazioni da goniometro.” Esatto, il sacerdote esegue gesti misurati, composti e corretti, egli ha il dovere di farlo, perché tutto sia giusto e degno a maggior gloria di Dio. Non c’è posto per la creatività umana, e per lui, che è chiamato da Dio a svolgere una funzione sacra che fa tremare le vene e i polsi, non c’è posto neanche per la sua individualità, lui ha votato tutta la sua vita al Signore. Questo ha insegnato il Signore.

“La messa è governata da una normativa precisa”. Esatto. Dal momento che si tratta della cosa piú importante che la Chiesa fa in obbedienza ai comandi del Signore, non si vede come possa essere diversamente. Solo una mentalità da teatrante, ove c’è posto per le fantasie dello sceneggiatore, potrebbe pensare ad una Messa senza normative precise. Che questo accada oggi col postconcilio, non significa che è giusto. Non è questo che ha insegnato il Signore.

“Ai futuri sacerdoti si ripete che la liturgia è un'arte pratica”. Questo non è molto esatto, ma abbastanza vicino alla verità, poiché la liturgia, che comporta principalmente una disposizione della mente, dell’animo e del corpo, non può essere veramente insegnata se non con la pratica. Non basta leggere il Messale per poter dire Messa. Questo d’altronde spiega perché si hanno pochi documenti scritti sull’uso dei rituali, e quei pochi sono come dei promemoria. Non v’è una scienza liturgica scritta, non v’è mai stata e non potrebbe esserci, poiché la liturgia è una di quelle cose che ha a che fare con la Tradizione degli Apostoli, e cioè con la trasmissione orale. L’unica cosa che è sopraggiunta è la storia della liturgia, ma questa non fa un liturgo, semmai un liturgista. La liturgia l’ha insegnata il Signore agli Apostoli.

“Il sacerdote … fa tutto lui: legge le letture… canta con voce sicura, … poi traccia tanti segni di croce.” Esatto. È lui infatti il celebrante. I fedeli fanno ciò che spetta loro, pregano, rispondono, cantano, e quando previsto accompagnano ciò che fa il celebrante. E si segnano, anche. Fanno anche loro tanti segni di croce, perché loro sono cristiani, i seguaci di Cristo, di quel Cristo che morí per loro sulla Croce, e in nome di Cristo ogni cosa è segnata dalla croce. Trentatré segni di croce fatti dal sacerdote nel corso della Messa, trentatré, come gli anni di Cristo, perché ogni cosa che si riferisce a Cristo è importantissima per il cristiano. Il fedele non conta neanche i segni di croce che fa, a Messa, e in ogni occasione della giornata, si segna, fa memoria di Cristo, si affida a Cristo, si appella a Cristo. Questo ha insegnato il Signore.

Ed ecco il colpetto da persuasore occulto: “ È comunque doveroso riconoscere che allora i sacerdoti "dicevano" messa con grande devozione e i cristiani "ascoltavano" la  messa con sincera pietà. La fede dei nostri vecchi si è nutrita così per oltre mille anni. Anche se il richiamare alla memoria questa loro prassi può farci abbozzare un sorriso, esso non sminuisce affatto l'ammirazione e la venerazione che dobbiamo avere verso quanti ci hanno trasmesso la fede.”
Dopo tanta denigrazione e tanto sarcasmo; dopo aver cercato di far capire che prima del Concilio non vi fosse niente di serio, ecco l’affondo finale.
Traduciamo in lingua volgare. 
Attenzione - intende dire l’Autore -  tutto questo non significa che non siamo tenuti ad ammirare e a venerare chi ci ha trasmesso la fede, nonostante la loro ridicola concezione della fede, nonostante la loro pratica della fede incredibilmente poco seria, nonostante non capissero niente della fede.

Grazie, reverendo padre, di tanta magnanimità e grazie anche per la riforma liturgica che ha capovolto tutto questo offrendoci gli abusi, le eresie e il disprezzo per la religione. Grazie!

Grazie soprattutto per la sua illuminante analisi, con la quale ci ha mostrato “ i gravi limiti di tale modo di celebrare”.
“Il primo consisteva nell'iper-protagonismo del celebrante e nella conseguente passività imposta ai fedeli”. Allora, andiamo per ordine. L’iper-protagonismo del celebrante consisterebbe nel fatto che egli, senza guardare ai fedeli, concentrava tutti i suoi sensi stando rivolto al Signore e seguendo alla lettera quanto prescritto per l’esecuzione del rito. Ebbene, se l’italiano non è il giuoco delle tre carte, per questo atteggiamento del celebrante c’è un termine preciso: concentrazione. Il che corrisponde esattamente a quanto è richiesto dall’operare in persona Christi. Non sono io - diceva San Paolo - ma è Cristo che è in me. Lo stesso dicasi per i fedeli, il cui atteggiamento piú idoneo nel corso della Messa è quello dell’aprirsi e dell’abbandonarsi alla Grazia, rifuggendo da ogni attitudine attivistica e da ogni richiamo personalistico e individualistico.

Un prete che non sa neanche queste cose, può solo essere stato educato in un moderno seminario in cui al posto della teologia dogmatica si insegna la psicologia dell’inconscio.

O vuole che facciamo il paragone col protagonismo da primo attore del celebrante partorito dal postconcilio? O con l’attivismo, il cicaleccio e l’irrequietezza dei fedeli che, dentro e fuori del presbiterio, seguono i suggerimenti imposti loro dal postconcilio?

“Il secondo limite era rappresentato dall’uso esclusivo della lingua latina, conosciuta dai sacerdoti e, in varia misura, anche dalle persone colte, ma inesorabilmente carica di mistero per i più”.
Tanto carica di mistero, che erano regolarmente diffusi i messalini bilingue, i piccoli manuali parrocchiali, i libri della devozione cristiania, la recita del Rosario singola e in gruppo, rigorosamente in latino, ma e soprattutto, era diffuso l’uso di ripetere a memoria intere parti dell’Ordinario della Messa, proprio da quei fedeli “passivi”, ignoranti e bistrattati, che forse non avevano mai studiato il latino, ma comprendevano benissimo le preghiere della Messa, i Salmi, il Rosario, i canti dei Vespri, e tutto il repertorio gregoriano che annoverava centinaia di inni, di sequenze e di cantici. Saranno stati ignoranti, ma per le cose di religione ne sapevano molto di piú dei preti del postconcilio.

O vogliamo contare il numero dei fedeli che oggi corrisponde alle parti della Messa loro spettanti e che canta le nuove composizioni musicali, nonostante l’uso del volgare e nonostante il numero delle presenze si sia enormemente assottigliato?

“Il terzo limite era collegato all'applicazione scrupolosa e quasi meccanica delle rubriche…”.
Ed ecco di nuovo il vecchio ritornello delle rubriche, come se la Messa non l’avesse istituita Nostro Signore e fosse una mera invenzione umana. Ma, ci chiediamo: perché ancora oggi tutti i celebranti, Papa compreso, tengono davanti il testo da recitare o da cantare, nonostante sia lo stesso e nonostante lo abbiano ripetuto migliaia di volte? Vuoi vedere che la preoccupazione prima è quella di non sbagliare e di celebrare in maniera degna la liturgia divina? Vuoi vedere che il Messale va sempre seguito, ancora oggi, perché non si commettano scorrettezze e disattenzioni che offenderebbero Nostro Signore e  lo stesso celebrante? Vuoi vedere che il seguire il testo e le prescrizioni che lo accompagnano, scritte o meno sul messale, corrisponde, ancora oggi, ad evitare che si commettano abusi?
E se è cosí, come in effetti è, piuttosto che fare lo spiritoso sull’applicazione scrupolosa delle rubriche, il nostro Autore farebbe meglio a suggerire il ripristino delle rubriche, e cioè delle istruzioni scritte in rosso nel Messale e intercalate nel testo, cosí da aiutare tanti suoi confratelli distratti a non scadere negli abusi, e da obbligare tanti altri suoi confratelli interessati, presuntuosi e ammalati di protagonismo a non esagerare con gli abusi.

Dopo di che l’Autore fa un elenco di studiosi che, secondo lui, sarebbero i padri della riforma liturgica conciliare e postconciliare. Tralasciamo questo passo della sua esposizione perché sarebbe troppo lungo spiegare che Dom Guéranger non ha niente a che fare con Giacomo Lercaro, al pari della monumentale opera sulla liturgia del Cardinale Schuster che rappresenta una sconfessione dell’attuale riforma liturgica.

Ci soffermiamo invece sul passo successivo, dove l’Autore per sostenere la supposta validità della partecipazione dei fedeli alla liturgia, da lui intesa come una concelebrazione (“Allora "celebravano" la messa con il loro sacerdote”), scomoda San Giovanni Crisostomo.
“ Allora i fedeli capivano quello che si leggeva nelle letture, quello che il sacerdote diceva nelle preghiere, in particolare nella preghiera eucaristica.” Falso. L’Autore mente sapendo di mentire, ed attua la solita tattica dell’archeologismo giustifica-tutto, supponendo l’ignoranza dei suoi lettori e trincerandosi dietro la sua supposta conoscenza esclusiva.

È falso che i fedeli, allora, capivano quello che il sacerdote diceva nella preghiera eucaristica, semmai si può dire  che la conoscessero a memoria, ma certo non potevano neanche sentirla; e non perché il celebrante recitasse a bassa voce, come nei tempi bui di prima del Concilio, ma semplicemente perché la consacrazione avveniva lontano dagli occhi dei fedeli. Al momento della celebrazione dei Misteri il presbiterio veniva chiuso con una tenda, e la consacrazione avveniva nel mistero, appunto.
Altro che balaustra che separa, la parte piú importante della Messa si svolgeva di nascosto, in perfetta coerenza con ciò che realmente accade: il Mistero si svolgeva nascostamente, misteriosamente.

Ora, quest’uso era diffuso in tutta la Chiesa, d’Occidente e d’Oriente. 
In Occidente, l’uso della tenda che separava il presbiterio dalla navata, andò perdendosi e venne sostituito da altre pratiche corrispondenti, come il silenzio assoluto che si doveva mantenere nel corso del Canone insieme alla postura dei fedeli, in ginocchio e col capo chino, mentre della tenda rimase solo un ricordo nella velatura del tabernacolo al centro dell’altare. 
In Oriente l’uso si è mantenuto fino ad oggi, anzi, una delle componenti essenziali della chiesa orientale è proprio l’iconostasi, e cioè la separazione netta tra presbiterio e navata, realizzata  addirittura con un’intera parete colma di icone, con ai lati due porticine che, al momento opportuno, vengono chiuse.

Non è nostra intenzione approfondire questo aspetto del problema, ci limitiamo solo a far notare che un qualunque turista, oggi, sa benissimo come sono fatte le chiese in Oriente. Non sarebbe male che il nostro padre gesuita facesse un giro in qualcuna di queste chiese, magari in una in cui si celebra la liturgia di San Giovanni Crisostomo da lui usato in maniera spudoratamente strumentale. Lo rassicuriamo, non occorre che vada in qualche landa russa o al Monte Athos, basti che si rechi in una qualunque di quelle chiese che sono state cedute in comodato, in Italia, ai vari gruppi ortodossi. Lí imparerà che le cose che gli hanno insegnato a scrivere sono semplicemente false.

Un’ultima cosa. 
Il nostro Autore dichiara entusiasta: “Al tempo di Gerolamo, nelle chiese di Roma l’Amen rimbombava come un tuono dal cielo. I fedeli approvavano con slancio, perché avevano compreso bene quanto il presidente dell'assemblea aveva detto a Dio Padre in nome loro.”
Ecco, questa retorica sfacciata ha davvero dell’incredibile.
Sorvoliamo sulle falsità e facciamo finta di trovarci a Roma, al tempo di Gerolamo (sappiamo ormai che all’Autore piacciono queste finte ricostruzioni). Abbiamo 10 anni, ascoltiamo le parole del presidente (neanche questo esisteva allora… ma, pazienza!) e presi da entusiastica condivisione gridiamo: Amen. L’indomani, stessa cosa: Amen
Passa un anno, uguale: Amen
Passano dieci anni e noi, a vent’anni, ancora a Roma, in chiesa, nel sentire le parole rivolte a Dio a nome nostro,  sorpresi, ammirati e presi da entusiastica condivisione gridiamo: Amen
Passano vent’anni: Amen
Passano quarant’anni e ancora sorpresi e ammirati, sempre presi da entusiastica condivisione, approviamo con slancio e urliamo: Amen.

È incredibile che si possa anche solo pensare una cosa del genere: lo slancio dei fedeli che aderiscono alle stesse parole che il celebrante rivolge a Dio Padre ogni giorno per anni, per secoli, alle parole che conoscono a memoria, alle parole che ogni volta condividerebbero con entusiasmo, approvandole e tuonando: Amen!
Basterebbe solo questo a dare l’idea del vero significato dell’articolo che abbiamo esaminato. 

Ma non possiamo passare sotto silenzio la perla che l’autore ci propina alla fine del suo articolo: “Così dev’essere per la liturgia: la sua spina dorsale dev’essere umana, deve saper comporre armonicamente fedeltà alla Tradizione e adattamento alle presenti situazioni di una Chiesa in perenne divenire.”
Ci permettiamo di dissentire fortemente: la spina dorsale della liturgia dev’essere divina, non umana, non ce ne facciamo niente di una liturgia la cui struttura portante è l’umanità. 
Non solo, ma ci rifiutiamo di accettare l’idea che il nerbo del nostro credo e quello che la stessa Sacrosanctum Concilium chiama “la fonte e il culmine” della vita della Chiesa sia qualcosa di umano. 
Cosí come ci rifiutiamo di accettare l’idea che la Chiesa sia in perenne divenire. La Chiesa è Santa, non soggetta ad alcuna mutevolezza, essa è il Corpo Mistico del Signore che l’ha collocata nel mondo soggetto al divenire perché fosse Pietra fondante e Roccia indefettibile per i figli di Dio. 
È il mondo che diviene continuamente sotto l’imperio del suo Principe, che è il Demonio, non la Chiesa. 
È il mondo che diviene, muta, fraziona e disperde, e in un mondo siffatto la Chiesa è posta dal Signore perché sia, ferma, immutabile, unificante e adunante tutti gli esseri per ricondurli al Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo.

Non ci consola affatto, anzi, ma resta pur sempre importante considerare che, in qualche modo, un articolo di questo tenore è rivelatore dello stato di disagio e della condizione di difficoltà in cui si stanno venendo a trovare sempre piú i fautori del nuovo  e dell’ammodernamento.
Il linguaggio usato dimostra una grossa debolezza argomentativa, poiché per un argomento cosí serio come la liturgia della Chiesa non è possibile tessere elogi sperticati, dal lato della riforma liturgica, e superficiali denigrazioni dal lato della liturgia millenaria della stessa Chiesa.
Articoli come questo rivelano che le argomentazioni di coloro che in questi anni hanno introdotto, anche senza volerlo, la sovversione nella Chiesa e nella Religione, sono ridotte al lumicino.
Quarant’anni fa puntavano tutto sul futuro, a breve o a media scadenza, assicurando cose immaginifiche. Quarant’anni dopo si ritrovano a dover fare i conti con gli abusi, con la perdita della fede, con le chiese vuote, con i presbiteri trasformati in emicicli giacobini, con la perdita di autorità e di credibilità; e cercano di nascondersi dietro la denigrazione della liturgia bimillenaria della Chiesa.

Tutto questo ci rattrista e ci fa pensare che sia in atto una nuova offensiva contro quella parte del corpo ecclesiale che non intende piú soggiacere a tanto sfacelo, che intende reagire recuperando quanto nella Chiesa è stato accantonato e vilipeso in termini di pastorale, di catechesi, di liturgia e di dottrina. 
Ma, con l’aiuto di Dio, è anche possibile sperare che si tratti di un “colpo di coda” che preluda al crollo dell’illusione, come capita per tutte le cose meramente umane e mondane, e in questo caso a noi spetta non abbassare le braccia, anzi, spetta alzare la voce, per contribuire affinché il crollo si verifichi prima possibile. 
Dio lo voglia!
 





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