ASPETTANDO IL DOCUMENTO SUGLI
ABUSI LITURGICI
In attesa che venga finalmente pubblicato il promesso
documento sugli abusi liturgici, raccoglieremo in questa pagina degli altri
documenti, che trattano dell'argomento o che sono ad esso adattabili, cosí
da permettere ai nostri lettori di farsi un'idea di quel che sta effettivamente
succedendo.
Perché qualcosa sta succedendo. Il documento che
si dice verrà pubblicato entro breve tempo, sarebbe alla sua terza
stesura, e cioè avrebbe subito due considerevoli "depurazioni",
per venire incontro alla levata di scudi di tutti coloro che pensano che
le cose vanno male nella liturgia perché non sono ancora applicati
bene i dettati del Concilio. Insomma, per venire incontro a coloro che
vorrebbero che le cose andassero ancora peggio.
Certo che può sembrare che noi si esageri, perché
in fondo potrebbe trattarsi di una differenza di valutazione dovuta a punti
di vista diversi, ma siamo convinti che la cosa sia ancora piú complicata.
Ed è per questo che temiamo che l'annunciato documento, voluto dallo
stesso Pontefice, alla fine si rivelerà una sorta di bolla di sapone.
Cominciamo intanto col pubblicare il testo di un articolo
apparso nel quaderno 3684, del 20 dicembre 2003, de La Civiltà
Cattolica, intitolato: La Costituzione "Sacrosanctum Concilium",
il primo grande dono del Vaticano II.
Data la particolarità dell'argomentazione dell'Autore,
ci è sembrato opportuno accompagnarlo con un nostro commento, se
non altro per fare chiarezza su alcuni aspetti che ci stanno particolarmente
a cuore.
Testo dell'articolo de La Civiltà Cattolica
Il nostro commento all'articolo
LA COSTITUZIONE "SACROSANCTUM CONCILIUM":
IL PRIMO GRANDE DONO DEL VATICANO II
CESARE GIRAUDO S.I.
Tutti sanno che la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II
ha realizzato un rinnovamento nel modo di celebrare, ma pochi sono oggi
in grado di coglierne l’entità, o perché, nati dopo gli anni
Sessanta, non conoscono la realtà anteriore, o perché, polarizzati
sul presente, non sanno ricordare. Proviamo, per qualche istante, a richiamare
alla memoria questo passato, cronologicamente non molto lontano, ma di
fatto lontanissimo se misurato col metro del cambiamento di sensibilità.
Tale evocazione consentirà, per contrasto, di porre in evidenza
i tratti salienti della riforma liturgica e i rischi che una sua comprensione
superficiale sta facendo correre.
Uno sguardo alla liturgia prima del Concilio
Immaginiamo di entrare, durante la celebrazione della messa, in una
chiesa, non importa se di città o di campagna, in una domenica qualunque,
poniamo, a metà degli anni Cinquanta, o Quaranta, o anche Trenta.
La fisionomia celebrativa di questi decenni è sempre la stessa,
né si discosta sostanzialmente da quella dell'intero millennio cui
appartengono. Notiamo subito che i fedeli hanno preso posto tutti nella
navata, che una barriera, spesso munita di cancelli quasi sempre chiusi,
separa dallo spazio riservato al sacerdote. Oltre quella barriera, denominata
"balaustra", nell’area che chiamano "presbiterio", durante i riti i laici
non possono andare, soprattutto le donne. Fanno eccezione gli appartenenti
a quel clero in miniatura che sono i chierichetti.
I fedeli risultano rigorosamente divisi in gruppi, per età e
per sesso. Ognuno di questi, rispettando una prassi collaudata, si vede
assegnato un settore preciso. Nei primi banchi si notano i più piccoli:
da una parte i bambini, dall'altra le bambine. Alle loro spalle stanno
i più grandi: ragazzi di qua e ragazze di là. Più
indietro prendono posto le donne, numerose. D'altronde, fin dal tempo di
san Paolo (cfr. At 16,13), si sa che era proprio la donna, forse
perché istintivamente più religiosa, a dare corpo alle assemblee
liturgiche. Tutti restano quasi sempre in ginocchio; si siedono soltanto
per ascoltare la predica. Pure la comunione, distribuita alla balaustra
sia prima sia dopo la messa — sia, ma non sempre, durante la messa —, è
ricevuta in ginocchio.
"E gli uomini, dove sono gli uomini?", ci domandiamo. Alziamo lo sguardo
e li vediamo in fondo alla chiesa, appoggiati alla porta o come incollati
alle pareti. Gli uomini infatti sono abituati a scrutare l'altare da lontano.
La sede del celebrante non la vedono neppure, perché nessuno ha
mai detto loro che è importante; e poi, anche se c'è, di
fatto il sacerdote non vi si siede mai. Comunque gli uomini non sono numerosi.
Li abbiamo visti entrare alla spicciolata, perlopiù in ritardo.
Sono là, sul limitare della loro chiesa, un po' annoiati, in piedi,
pronti a uscire, pronti a ubbidire al sacerdote non appena avrà
detto Ite, missa est. Ite vuol dire "Andate": questo latino lo capiscono
bene. A dire il vero, in chiesa c'è pure un altro piccolo drappello
di uomini, che però non riusciamo a scorgere perché hanno
preso posto nel coro, cioè dietro la parete dell’altare monumentale,
da dove poco sentono e nulla vedono.
Che cosa fanno i fedeli? Quando c'è da cantare, cantano. Se
la messa è in gregoriano, cantano tutti, con slancio, quei vocalizzi
che sanno a memoria. A volte, nelle ricorrenze solenni, sono costretti
a tacere, perché interviene la corale, magari quella della parrocchia
accanto, con pagine grandiose, sempre a più voci. Quando non si
canta, le persone semplici pregano il rosario. A quelle più progredite
nelle vie dello spirito si consiglia di collegare i singoli momenti della
messa con altrettanti momenti della
passione del Signore. Per designare questo genere di messa meditata,
alcuni parlano di "messa drammatica", altri di "messa allegoristica", altri
ancora di missa picta, ovvero di "messa dipinta", in quanto spesso
nei libri di devozione la spiegazione è agevolata da appositi disegni
che collegano i singoli momenti della messa ad altrettanti momenti della
passione.
II sacerdote, davanti all'altare, volgendo le spalle ai fedeli, "dice"
messa, in latino, perlopiù con un tono di voce così sommesso
che non giunge neppure agli orecchi del chierichetto di turno, inginocchiato
a poca distanza. I gesti del celebrante sono calcolati, misurati. Quando
dice Dominus vobiscum, allarga le braccia e subito le richiude;
quando benedice, a volte sembra che fenda l'aria, con la mano di taglio
e con angolazioni da goniometro.
La messa è governata da una normativa precisa, che ogni sacerdote
conosce a perfezione. Tutti celebrano allo stesso modo. Non c'è
spazio per qualche adattamento. I sacerdoti neppure si sognano di poter
apportare una modifica sia pur minima a quanto è stabilito. Si sono
formati tutti sugli stessi manuali di rubriche, quelli cioè che
contengono le regole della celebrazione. Nessuno ha studiato liturgia,
perché la liturgia non è una scienza. Ai futuri sacerdoti
si ripete che la liturgia è un'arte pratica, da imparare bene da
qualcuno che la sa, per poi fare esattamente come fa lui. Infatti i chierici
dell'ultimo anno, nei quindici giorni che precedono l'ordinazione sacerdotale,
seguono un piccolo apprendistato, che alcuni chiamano corso di liturgia,
nel quale imparano appunto a "dire" messa. Il sacerdote che stiamo osservando
è talmente abituato a fare, che fa tutto lui: legge le letture,
ovviamente in latino, spesso limitandosi a muovere le labbra; canta con
voce sicura, perché le melodie le conosce bene; poi traccia tanti
segni di croce.
Non è necessario diffondersi in ulteriori dettagli. Quelli che
abbiamo evocato bastano per farci un'idea abbastanza precisa di come i
sacerdoti "dicevano" messa e di come i fedeli "ascoltavano" la messa. Si
tratta di espressioni assai comuni, tuttora attestate nel linguaggio parlato.
Mentre il ruolo del sacerdote era affidato, a seconda dei casi, alle locuzioni
"dire messa" o "cantare messa", quello dei fedeli era descritto da una
colorita rosa di espressioni, quali "ascoltare messa", "sentire messa",
"udire messa", "stare a messa", "assistere alla messa", "prendere messa",
"prendere un pezzo di messa". È comunque doveroso riconoscere che
allora i sacerdoti "dicevano" messa con grande devozione e i cristiani
"ascoltavano" la messa con sincera pietà. La fede dei nostri
vecchi si è nutrita così per oltre mille anni. Anche se il
richiamare alla memoria questa loro prassi può farci abbozzare un
sorriso, esso non sminuisce affatto l'ammirazione e la venerazione che
dobbiamo avere verso quanti ci hanno trasmesso la fede.
Fatta questa doverosa precisazione, possiamo mostrare i gravi limiti
di tale modo di celebrare. Il primo consisteva nell'iper-protagonismo del
celebrante e nella conseguente passività imposta ai fedeli. Stante
l'ordinamento rituale e l'indiscussa recezione che lo accreditava, lo scarto
tra i ruoli non era in alcun modo colmabile. La stessa separazione del
presbiterio dalla navata lo ribadiva con l’evidenza delle leggi fisiche.
Il secondo limite era rappresentato dall’uso esclusivo della lingua latina,
conosciuta dai sacerdoti e, in varia misura, anche dalle persone colte,
ma inesorabilmente carica di mistero per i più. Il terzo limite
era collegato all'applicazione scrupolosa e quasi meccanica delle rubriche,
sentite come il bastone rassicurante su cui si appoggiava la mancata formazione
liturgica del clero. Questa adesione incondizionata a una normativa vincolante
e minuziosa faceva della prassi celebrativa una "liturgia di ferro".
Le cose non potevano andare avanti così. Ne erano convinti quei
liturgisti e pastori illuminati che hanno dato vita al movimento liturgico
del XX secolo. Pur trovando sulla loro strada veri macigni rappresentati
da un'adesione acritica alla prassi, da un attaccamento viscerale a ciò
che sempre si era fatto, dalla paura del nuovo, grazie a un impegno paziente
di ricerca e di riflessione essi hanno saputo preparare il terreno sul
quale è cresciuta e fiorita la riforma liturgica di cui godiamo
oggi i frutti. Ci limitiamo a citare alcuni grandi nomi: in Francia Prosper
Guéranger, in Belgio Lambert Beauduin, in Germania Romano Guardini
e Odo Casel, in Austria Pius Parsch eJosef Andreas Jungmann, in Italia
Emmanuele Caronti, Ildefonso Schuster, oggi beato, Giacomo Lercaro, Mario
Righetti, e tanti altri.
Insoddisfatti degli usi ai quali ci si era affezionati, hanno scoperto
che questi corrispondevano spesso alla prassi radicatasi nel secondo millennio,
ma divergevano molte volte dalla Tradizione (con la "T" maiuscola) che,
maggiormente modellata sull'insegnamento dei Padri della Chiesa, aveva
governato le celebrazioni nel primo millennio.
Allora le cose non andavano così. Allora i fedeli partecipavano
attivamente alla messa. Allora "celebravano" la messa con il loro sacerdote:
lui in forza del sacerdozio ordinato, essi in forza del comune sacerdozio
battesimale. Allora, ad esempio, san Giovanni Crisostomo diceva: "II sacerdote
non celebra affatto l'eucaristia da solo (oude […] eucharistei
monos), ma pure l’intero popolo [la celebra con lui]… Perciò
non gettiamo tutto sui sacerdoti..." (1).
Allora i fedeli capivano quello che si leggeva nelle letture, quello
che il sacerdote diceva nelle preghiere, in particolare nella preghiera
eucaristica. Al tempo di Agostino, all’Amen del popolo che segue
la dossologia finale era riconosciuto il valore della firma che sola avvalora
e suggella il documento precedentemente scritto (2). Al tempo di Gerolamo,
nelle chiese di Roma l’Amen rimbombava come un tuono dal cielo (3).
I fedeli approvavano con slancio, perché avevano compreso bene quanto
il presidente dell'assemblea aveva detto a Dio Padre in nome loro.
Furono proprio gli studi dei grandi liturgisti citati a sensibilizzare
a poco a poco la Chiesa, fino a condurla, prima, a modo di assaggio, alla
riforma — voluta da Pio XII — della Veglia pasquale nel 1951 e dell'intera
Settimana santa nel 1955, poi alla grande riforma liturgica del Concilio
Vaticano II.
La costituzione "Sacrosanctum Concilium" e la riforma liturgica
Non è possibile riassumere in poche righe ciò che rappresenta
per la Chiesa di oggi la costituzione Sacrosanctum Concilium (SC).
Essa ha indubbiamente dischiuso orizzonti velati da tempo. Ci ha ricordato,
ad esempio, che "la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione
della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua forza" (SC
10). Ha sottolineato a più riprese la necessità che tutti
i fedeli vengano formati "a quella piena, consapevole e attiva partecipazione
alle celebrazioni liturgiche che è richiesta dalla natura stessa
della liturgia" (SC 14; cfr 11. l9. 21. 27. 30. 41. 48. 49. 50. 79. 113.
114. 121).
Per avviare questo processo di rinnovamento, la costituzione ha riconosciuto
alla liturgia lo statuto di disciplina accademica, stabilendo che "nei
seminari e negli studentati religiosi la sacra liturgia va computata tra
le materie necessarie e più importanti e, nelle facoltà teologiche,
tra le materie principali" (SC 16). Si è preoccupata anzitutto della
speciale formazione di "coloro che sono destinati all'insegnanento della
sacra liturgia" (SC 15), i quali a loro volta dovranno trasmettere ai chierici
"una formazione spirituale a carattere liturgico" (SC 17) e dovranno aiutare
i sacerdoti che già lavorano nella vigna del Signore "a penetrare
sempre più il senso di ciò che compiono nelle sacre funzioni"
(SC 18).
La costituzione ha poi affermato a chiare lettere che "la santa madre
Chiesa […] desidera fare un'accurata riforma generale della liturgia",
riconsiderando "l’ordinamento dei testi e dei riti […], in modo tale che
le realtà sante, da essi significate, siano espresse più
chiaramente e il popolo cristiano per quanto possibile, possa capirle facilmente
e parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria" (SC 21).
Essa ci ha inculcato che "la celebrazione comunitaria, caratterizzata dalla
presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli", è da preferire,
per quanto possibile, "alla celebrazione individuale e quasi privata […]
soprattutto della messa, salva sempre la natura pubblica e sociale di qualsiasi
messa" (SC 27). Ha prospettato il ministero, non più come il protagonismo
esasperato di uno solo, bensì come una compagine articolata di funzioni,
ricordando al singolo ministro che dovrà limitarsi "a compiere tutto
e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche,
è di sua competenza" (SC 28). Ha escluso che nella celebrazione
si possano fare preferenze in rapporto tanto a persone singole quanto a
condizioni sociali (cfr SC 32).
Ha espressamente voluto che nelle sacre celebrazioni "sia disposta
una lettura della sacra Scrittura più abbondante, più varia
e medio scelta" (SC 35). Ha raccomandato vivamente l’omelia, come parte
integrante dell'azione liturgica, con lo scopo preciso di presentare "i
misteri della fede e le norme della vita cristiana, attingendoli dal testo
sacro" (SC 52). Ha ripristinato "l’orazione comune, detta anche dei fedeli"
(SC 53), "una perla - come dirà più tardi Annibale Bugnini
- che era andata perduta e che ora era stata ritrovata in tutto il suo
splendore" (4).
A sua volta, il desiderio di aprire i tesori della Bibbia si è
tradotto nella preoccupazione di renderne comprensibile la proclamazione,
sulla base di una constatazione tanto semplice quanto coraggiosa. Cosi
recita il n. 36: "L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari,
sia conservato nei riti latini. Dato però che, sia nella messa sia
nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia,
non di rado l'uso della lingua volgare può riuscire di grande utilità
per il popolo, si conceda ad essa una parte più ampia, specialmente
nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti". La questione
della lingua liturgica ritorna al n. 54, che recita: "Nelle messe celebrate
con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla
lingua volgare, specialmente nelle letture e nell'orazione comune […].
Tuttavia si abbia cura che i fedeli possano recitare e cantare insieme,
anche in lingua latina, le parti dell'ordinario della messa che spettano
ad essi". Inoltre la costituzione sulla Liturgia ha raccomandato molto
"quella partecipazione più perfetta alla messa, nella quale i fedeli
[…] ricevono il corpo del Signore con il pane consacrato in quello stesso
sacrificio" e ha stabilito che, "fermi restando i princìpi dogmatici
stabiliti dal Concilio di Trento, la comunione sotto le due specie si può
concedere sia ai chierici e religiosi sia ai laici" (SC 55). Ancora: ci
ha ridato "la concelebrazione, che manifesta in modo appropriato l'unità
del sacerdozio" (SC 57).
Nell'impossibilità di illustrare ognuna di queste numerose sfaccettature,
vogliamo soffermarci su quella che giustamente può essere considerata
la decisione basilare della riforma liturgica: l'introduzione della lingua
parlata nelle celebrazioni, benché il Concilio non volesse abolire
l'uso del latino nelle celebrazioni. Si è trattato di un cambiamento
storico, che, se fu accolto con entusiasmo da chi meglio riuscì
a comprenderne il significato e a prevederne gli effetti, non mancò
di suscitare apprensioni, disturbare abitudini consolidate, destare nostalgie
profonde. Ma in che lingua si deve pregare? Alcuni se l'erano chiesto già
in epoche lontane.
Gli storici della liturgia ci informano che la questione della lingua
con la quale rivolgersi a Dio venne sollevata per la prima volta quando
i fratelli Costantino-Cirillo e Metodio furono costretti a giustificarsi
davanti ai prelati di Venezia. Ciò avvenne nell'anno 867, durante
il loro viaggio a Roma compiuto per portare al Papa le reliquie di san
Clemente e ottenere da lui l'uso liturgico della lingua slava. Così
leggiamo nel capitolo 16 della Biografia slava di san Cirillo: "Mentre
si trovava a Venezia, si radunarono contro di lui vescovi e presbiteri
e monaci, come corvi contro un falco, e sollevarono l'eresia delle tre
lingue, dicendo: "Ehi, tu: dicci, perché ora tu hai composto un
alfabeto per gli Slavi e lo insegni, cosa che nessun altro prima escogitò,
né gli Apostoli, né il Papa di Roma, ne Gregorio Magno, ne
Gerolamo, ne Agostino? Noi conosciamo soltanto tre lingue nelle quali è
lecito lodare Dio: l’ebraica, la greca e la latina"" (5). L'immagine del
falco — l'uccello forte che non teme avversari, il rapace sicuro della
sua preda — già anticipa che il vincitore della contesa sarà
proprio lui, Costantino-Cirillo, nei confronti del quale i suoi avversari
altro non sono che uno stormo di corvi gracchianti. Nel seguito del racconto
egli risponde paragonando la lingua in cui pregare alla pioggia che Dio
fa cadere su tutti ugualmente, al sole che risplende su tutti allo stesso
modo (cfr Mt 5, 45) e all'aria nella quale tutti respiriamo. In tal modo
afferma che l'uso liturgico della propria lingua è un diritto per
ogni popolo che si affaccia al Vangelo.
Possiamo immaginare che qualcuno degli accusatori avrà sussunto:
"Non ha importanza che noi comprendiamo o meno quello che si dice nella
liturgia: sufficit ut intellegat Deus". Coloro che così pensavano
assolutizzavano una tradizione o, meglio, una prassi, come se quella dovesse
essere l'unica. In concreto: assolutizzavano l’usus receptus di
una o due lingue (6) come se quello fosse davvero esclusivo. Insomma: non
avevano il senso della Tradizione, quella che a partire dal giorno della
Pentecoste aveva inaugurato la predicazione della Parola di Dio — e di
certo anche la liturgia — nelle lingue dei popoli (7). Invece, per i santi
fratelli di Salonicco, la questione della lingua liturgica non era affatto
marginale: essa costituiva un elemento irrinunciabile della Tradizione.
Nel capitolo 18 della Biografia slava si legge che Costantino morente —
che ormai aveva preso il nome monastico di Cirillo — invocava ancora: "
[…] fa' rovinare l'eresia delle tre lingue!" (8).
Sette secoli dopo, la questione della lingua liturgica tornò
alla ribalta ad opera dei Riformatori, i quali pretendevano che la messa
dovesse essere celebrata necessariamente nella lingua volgare, cosicché
tutti potessero capire. Al quesito An missa nonnisi in lingua vulgari,
quam omnes intelligant, celebrari debeat, il teologo spagnolo Francisco
De Sanctis, esperto al Concilio di Trento per conto del vescovo di Salamanca,
così rispondeva: "[…] la messa non deve essere celebrata in lingua
volgare, ma o in latino o in greco o in ebraico, che sono le tre lingue
scritte sul titolo della croce, destinate a diffondere il Vangelo di Dio.
Infatti nella conversione della Gallia e della Germania mille anni or sono
la messa fu sempre celebrata in latino, per “non gettare le perle ai porci”
(cfr Mt 7, 6), per non rivelare al volgo i misteri di Dio e per non esporli
allo scherno […]. Potrebbe tuttavia il Sommo Pontefice stabilire il contrario,
qualora lo ritenesse opportuno" (9).
Anche a non voler insistere sulle motivazioni che, secondo il teologo
De Sanctis, avrebbero indotto le Chiese della Gallia e della Germania a
adottare per la messa l’uso esclusivo del latino, non possiamo fare a meno
di notare che, a quel tempo, l’aristocrazia dell’intelletto guardava dall’alto
in basso le masse, considerate del tutto incapaci di comprendere e quindi
irrimediabilmente condannate all’ignoranza. In bocca al teologo tridentino,
la stessa citazione evangelica, estrapolata dal contesto originario, non
suona certo apprezzamento per le esigenze e le capacità del "volgo".
Raffrontata con la convinzione dei prelati di Venezia, questa dichiarazione
rappresentava comunque un passo avanti. Infatti, pur appellandosi all’argomento
delle tre lingue, il De Sanctis aggiungeva che il Papa potrebbe decidere
altrimenti, qualora lo ritenesse opportuno. D’altronde, al Papa di Roma,
Adriano II, si erano appellati Cirillo e Metodio, visto che con le loro
argomentazioni non riuscivano a far breccia sui loro irriducibili oppositori.
La storia attesta che Trento non poté accogliere la rivendicazione
dei Riformatori e che il latino rimase l’unica lingua liturgica della Chiesa
d’Occidente. Ci sono voluti quattro secoli, c’è voluto un altro
Concilio, perché il progetto di parlare con Dio nella propria lingua
? un progetto finalmente svestito di contrapposizione polemica e purificato
da ogni spirito di rivendicazione minacciosa per l’unità della fede
? giungesse in porto. È proprio questo che ha fatto il Vaticano
II con la costituzione Sacrosanctum Concilium e con i documenti
attuativi che l’hanno portata ad esecuzione.
Oggi siamo più che convinti della necessità che urgeva
alla Chiesa del nostro tempo di restituire al discorso tra l’assemblea
e Dio le risonanze profonde del linguaggio di ogni popolo. Di conseguenza
abbiamo l’impressione che , a partire da quello storico 7 marzo 1965 ?
data che inaugurà l’impiego del volgare nella liturgia -, ciò
sia avvenuto come d’incanto per tutte le parti della celebrazione liturgica.
Tentando di riandare con la memoria alle intense emozioni di quegli anni,
ci sembra impossibile immaginare uno svolgimento diverso dei fatti. Ma
la memoria inoppugnabile dei documenti ci convince che, proprio in questo
ambito vitale e delicato per la vita della Chiesa, il principio della gradualità
fu scrupolosamente osservato e sapientemente dosato, come risulta dai tre
grandi documenti che hanno scandito il cammino della riforma liturgica:
l'istruzione Inter oecumenici del 29 settembre 1964, l'istruzione
Tres
abhinc annos del 4 maggio 1967 e infine l'istruzione Eucharisticum
mysterium del 25 maggio 1967.
A 40 anni dalla "Sacrosanctum Concilium": il punto sulla situazione
La riforma liturgica è indubbiamente il primo e grande dono
del Vaticano II, dono dello Spirito, non solo alla Chiesa romana, ma alle
Chiese d'Oriente e d'Occidente 10. È stata una scelta provvidenziale,
il cui valore traspare dai rapidi cenni che abbiamo appena fatto ad alcuni
paragrafi della Sacrosanctum Concilium. Ma qualcosa non ha funzionato,
come denuncia anche la voce autorevole di Giovanni Paolo II, che nella
recente enciclica Ecclesia de Eucharistia, accanto alle "luci" e
ai "grandi vantaggi" apportati dalla riforma liturgica, segnala l'esistenza
di "ombre" e perfino di "abusi"".
Dinanzi a queste sbavature che hanno offuscato e purtroppo continuano
a offuscare la liturgia, alcuni si scandalizzano, vanno in crisi e dicono:
"Non c'è più fede!". Altri accusano la riforma liturgica
e contrappongono polemicamente al Messale di Paolo VI il Messale di Pio
V. Altri invocano il ritorno all'uso del latino come rimedio sicuro ai
malanni della stagione postconciliare. Altri vorrebbero girare di
nuovo l'altare contro il muro. Altri ancora rivedrebbero volentieri le
balaustre anche nelle chiese di nuova costruzione. Sogni di inguaribili
nostalgici? Certamente sì, ma al tempo stesso spie di un malessere
liturgico-pastorale da non sottovalutare, anzi da interpretare. Prima abbiamo
evocato i vantaggi che la riforma liturgica doveva apportare. Soffermiamoci
ora sugli inconvenienti che si sono verificati, per stimolarci a riflettere
e allarmarci tutti nella giusta misura.
Spesso, chi sa cantare in qualche modo, canta, magari improvvisando.
Chi sa suonare in qualche modo, suona, dimenticando che la musica ha pure
le sue esigenze di preparazione. Nelle celebrazioni intervengono strumenti
nuovi, una vera invasione. Intanto i nostri preziosi organi dormono sotto
la polvere, cosicché chi vuol vedere organi ben tenuti e organisti
capaci alla consolle deve programmare un viaggio, ad esempio, nei Paesi
germanici. I canti in lingua latina sono ostracizzati.
Spesso, nelle nostre chiese, chi vuole leggere, legge come può,
e allora fioccano gli errori, la punteggiatura non è rispettata
la dizione è confusa. Oppure, se si chiede all'aspirante lettore
"Lei è abituato a leggere in chiesa?", quello si risente e subito
esibisce i suoi titoli di studio, come se il ministero del lettore non
richiedesse una formazione specifica. A volte si presenta all'ambone un
lettore infante e suscita tenerezza vederlo compitare con fatica e diligenza
testi che la sua immaturità non gli permette di comprendere. Chi
deve fare l’omelia, la fa a braccio e non di rado tralascia ogni riferimento
alle letture appena proclamate. Così pure chi propone le intenzioni
della preghiera dei fedeli spesso prolunga la lista delle esperienze dei
singoli o della comunità evocando le situazioni più disparate,
a prescindere dal messaggio delle letture. Inoltre, chi deve proclamare
la preghiera eucaristica perché è presbitero, la prende a
caso o, meglio, prende quella che scelgono tutti, attratti, più
ancora che dalla sua bellezza, dalla sua brevità. Non parliamo poi
di quei sacerdoti che, talvolta e in taluni luoghi, si arrogano il diritto
di utilizzare preghiere eucaristiche selvagge, o di comporne lì
per lì il testo o parti di esso.
Spesso, chi ama battere le mani, perché lo vede fare nei comizi
o nei concerti, avvia e scatena applausi plateali anche in chiesa, con
il conseguente grave rischio talvolta di non riuscire più a distinguere
tra chiesa e piazza. Che dire poi del muoversi imperturbato di fotografi,
cineoperatori, fioristi e scenografi durante la liturgia? Perlomeno che
non rispettano la disciplina del sacro. Ma non possiamo prendercela con
professionisti desiderosi di far bene il loro mestiere. Qui a mancare e
il presidente dell’assemblea che, in virtù del suo ruolo e della
sensibilità liturgica che dovrebbe aver acquisito, ha l’obbligo
di innalzare i giusti paletti nei momenti opportuni, operando con tatto,
ma con determinazione.
Insomma, da un quadro rigido siamo passati a un quadro libero. Più
precisamente: siamo passati da un quadro eccessivamente rigido a un quadro
eccessivamente libero. Se prima c’erano fissità, sclerosi di forme,
innaturalezza, che rendevano la liturgia di allora una "liturgia di ferro",
oggi ci sono naturalezza e spontaneismo, indubbiamente sinceri, ma spesso
fraintesi, malintesi, che fanno ? o perlomeno rischiano di fare ? della
liturgia una "liturgia di caucciù", sgusciante, glissante, saponosa,
che a volte si esprime in ostentato affrancamento da ogni normativa rubricale.
La responsabilità di tutto ciò non è della riforma,
bensì della sua applicazione, cioè della nostra incapacità
di comprenderla e di valorizzarla. Evidentemente la riforma è stata
fatta a livello dei "testi" liturgici, ma non è ancora penetrata
a sufficienza nelle nostre "teste". Questa spontaneità fraintesa,
che si identifica di fatto con l’improvvisazione, la faciloneria, il pressapochismo,
il permissivismo, è il nuovo "criterio" che affascina innumerevoli
operatori della pastorale, sacerdoti e laici. È il culto prestato
a questo nuovo idolo che scatena oggi la reazione ? ingiustificata certo,
ma in parte comprensibile ? degli avversari della riforma liturgica, che
giungono talvolta fino a rifiutare la stessa espressione "riforma liturgica".
Oggi il pericolo per la liturgia viene da due sponde opposte, un pericolo
ugualmente insidioso: da una parte, "un malinteso senso di creatività
e di adattamento" che ingenerano gli abusi cui allude Giovanni Paolo II
nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia 12; dall’altra, un ritorno
nostalgico, che talvolta echeggia il formalismo, alle tradizioni con la
"t" minuscola. La tensione che scuote in questi anni la riforma liturgica
è appunto tra una "liturgia di caucciù", che vorrebbero alcuni,
e una "liturgia di ferro", che vorrebbero altri. Sbagliano gli uni, sbagliano
gli altri, tutti per eccesso.
Sul piano somatico noi siamo quello che siamo, perché abbiamo
una spina dorsale, cioè una struttura che ci sostiene e ci rende
operativi. La nostra spina dorsale non è né di ferro né
di caucciù. Essa è umana, ha una consistenza, rigida quando
occorre, ma nello stesso tempo sa adattarsi mirabilmente alle nostre esigenze
di vita e di azione. Così dev’essere per la liturgia: la sua spina
dorsale dev’essere umana, deve saper comporre armonicamente fedeltà
alla Tradizione e adattamento alle presenti situazioni di una Chiesa in
perenne divenire.
È innegabile che gli abusi ci sono. Essi non dipendono dalla
riforma liturgica, bensì dalla ricezione debole che tanti ne hanno
avuto e dalla loro conseguente, seppure inconsapevole, impermeabilità
pratica allo spirito della liturgia. Tali abusi non si correggono con le
reprimende, Si correggono con quella formazione che i Padri conciliari
non si non stancati di raccomandare: formazione dei docenti di liturgia,
formazione liturgica dei giovani nei seminari e nelle facoltà, formazione
permanente per tutti, sacerdoti e laici, che aiuti a penetrare sempre più
profondamente nello spirito della Chiesa in preghiera.
Anche la recente (4 dicembre 2003) Lettera apostolica di Giovanni Paolo
II nel XL anniversario della Sacrosanctum Concilium invita a compiere
una verifica sul cammino compiuto, Essa, fra l’altro, si chiede: "È
vissuta la Liturgia come “fonte e culmine” della vita ecclesiale, secondo
l’insegnamento della Sacrosanctum Concilium? La riscoperta del valore
della Parola di Dio, che la riforma liturgica ha operato, ha trovato un
riscontro positivo all’interno delle nostre celebrazioni? Fino a che punto
la Liturgia è entrata nel concreto vissuto dei fedeli e scandisce
il ritmo delle singole comunità? È compresa come via di santità,
forza interiore del dinamismo apostolico e della missionarietà eccelsiale?"
(n. 6).
NOTE
1 - Giovanni Crisostomo, s., Homilia XVIII in 2 Cor [PG 61,
527]
2 - Cfr Agostino, s., Sermo "Hoc quod videtis" [PL 46,
835-836]
3 - Cfr Gerolamo, s., In epistolam ad Galatas 2, 3 [PL 26, 355
c]
4 - A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Roma, Ed.Liturgiche,
1997, II ed, p. 400.
5 - F. Grivec ? F. Tomsic (eds), Costantinus et Methodius Thessalonicenses,
Fontes,
Zagreb, Staroslavenski Institut, 1960, p. 205.
6 - I prelati di Venezia pensavano in primo luogo al latino, in secondo
luogo al greco. È dubbio che pensassero anche al siriaco, lingua
semitica affine all’ebraico.
7 - "L’atteggiamento dei due fratelli di Salonicco è rappresentativo,
nell’antichità cristiana, di uno stile tipico di molte Chiese: la
rivelazione si annuncia in modo adeguato e si fa pienamente comprensibile
quando Cristo parla la lingua dei vari popoli, e questi possono leggere
la Scrittura e cantare la liturgia nella lingua e con le espressioni che
sono loro proprie, quasi rinnovando i prodigi della Pentecoste" (Giovanni
Paolo II, Lettera enciclica Orientale lumen, n. 7)
8 - F. Grivec ? F. Tomsic (eds), Costantinus et Methodius, cit.,
p. 211.
9 - Societas Goerresiana, Concilium Tridentinum: Diariorum, Actorum,
Epistularum, Tractatuum nova collectio, tomus 8, Actorum pars 5, Friburgi
Br. 1919, pp. 743 e ss.
10 - "Tutte le Chiese cristiane si fondano sull’unico messaggio di
Cristo e condividono necessariamente un patrimonio comune. Pertanto non
pochi princìpi della Costituzione conciliare sulla sacra liturgia
forniscono elementi validi universalmente per le liturgie di tutte le Chiese
e devono essere applicati anche nelle celebrazioni di Chiese che non seguono
il rito romano (Congregazione per le Chiese Orientali, Istruzione per
l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle
Chiese Orientali, n. 4)
11 "Non c’è dubbio clhe la riforma liturgica del Concilio abbia
portato grandi vantaggi per una più consapevole, attiva e fruttuosa
partecipazione dei fedeli al santo Sacrificio dell'altare […]. Purtroppo,
accanto a queste luci, non mancano delle ombre. Infatti vi sono luoghi
dove si registra un pressoché completo abbandono del culto di adorazione
eucaristica. Si aggiungono, nell’uno o nell’altro contesto ecclesiale,
abusi che contribuiscono a oscurare la retta fede e la dottrina cattolica
su questo mirabile Sacramento. Emerge talvolta una comprensione assai riduttiva
del Mistero eucaristico. Spogliato del suo valore sacrificale, viene vissuto
come se non oltrepassasse il senso e il valore di un incontro conviviale
fraterno. Inoltre, la necessità del sacerdozio ministeriale, che
poggia sulla successione apostolica, rimane talvolta oscurata e la sacramentalità
dell'Eucaristia viene ridotta alla sola efficacia dell'annuncio. Di qui
anche, una e là, iniziative ecumeniche che, pur generose nelle intenzioni,
indulgono a prassi eucaristiche contrarie alla disciplina nella quale la
Chiesa esprime la sua fede. Come non manifestare, per tutto questo, profondo
dolore? L'Eucaristia è un dono troppo grande, per sopportare ambiguità
e diminuzioni" (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia,
n. 10; cfr n. 52).
12 "Occorre purtroppo lamentare che, soprattutto a partire dagli anni
della riforma liturgica post-conciliare, per un malinteso senso di creatività
e di adattamento, non sono mancati abusi, che sono stati motivo di sofferenza
per molti. Una certa reazione al “formalismo” ha portato qualcuno, specie
in alcune regioni, a ritenere non obbliganti le “forme” scelte dalla grande
tradizione liturgica della Chiesa e dal suo Magistero e a introdurre innovazioni
non autorizzate e spesso del tutto sconvenienti" (ivi, n. 52).
Commento
all'articolo de La Civiltà Cattolica:
La Costituzione "Sacrosanctum Concilium", il primo
grande dono del Vaticano II
Nel quaderno 3684, del 20 dicembre 2003, de La Civiltà
Cattolica primeggia, nella pagina iniziale, un articolo di Cesare Giraudo,
S. I., intitolato: La Costituzione "Sacrosanctum Concilium", il primo
grande dono del Vaticano II.
L’articolo riveste un certo interesse per vari motivi.
Come è risaputo, il contenuto de La Civiltà
Cattolica è, in qualche modo, espressione delle tendenze presenti
nella Segreteria di Stato del Vaticano, si deve ritenere, quindi, che l’articolo,
per l’argomento trattato, sia stato commissionato per esporre appositamente
delle linee guida, delle direttive alle quali ci si deve attenere.
L’articolo in questione fa il punto sul dibattito molto
complesso che è in atto intorno ai frutti del Concilio Vaticano
II e, in particolare, intorno alla crisi liturgica che la Chiesa sta ormai
attraversando da diversi anni. L’enciclica Ecclesia de Eucharistia,
pubblicata dal Santo Padre lo scorso Giovedí Santo, è stato
l’atto ufficiale che ha reso palese un malessere che non poteva piú
essere contenuto o dissimulato.
Ormai è chiaro a tutti che a quarant’anni dal Concilio
il bilancio che si può tracciare è di segno negativo, occorre
dunque correre ai ripari, e quest’articolo cerca di dare il suo contributo
fissando dei limiti precisi per questo dibattito e, probabilmente, per
i rimedii che si intendono adottare.
Vi è anche un altro aspetto che rende interessante
quest’articolo. Per il modo in cui è strutturato e per la tecnica
con cui sono espressi i concetti, sembra proprio che ci si trovi al cospetto
del lavoro di uno specialista; ma non di uno specialista in liturgia, il
che sarebbe del tutto logico, bensí di uno specialista in tecniche
di comunicazione di massa. L’argomento principale dell’articolo è
trattato in maniera decisa, ma dissimulata, per attenuarne la portata pur
non tralasciandolo. Si parla infatti dello stato riprovevole in cui versa
la pratica liturgica della Chiesa, ma se ne parla alla fine dell’articolo,
dopo aver sollevato una cortina fumogena di discredito e di informazioni
distorte sulla antica liturgia e dopo aver issato su un colossale piedistallo
la Sacrosanctum Concilium, che, dopo tutto, è il punto di
partenza dello stato attuale della pratica liturgica della Chiesa.
Ci sembra del tutto legittimo, quindi, considerare che,
non potendo negare la crisi liturgica e dovendo giocoforza ammettere che
c’è molto da rifare, l’Autore si veda costretto a premettere alla
sua inevitabile critica due elementi in grado di ridurne in qualche modo
l’impatto. Per prima cosa cerca di focalizzare l’attenzione del lettore
su un elemento del tutto estraneo alla crisi attuale, presentando nella
maniera piú fosca, e talvolta grottesca, la liturgia che la Chiesa
ha mantenuto per duemila anni, e offrendo la suggestione che prima del
Concilio vigesse una sorta di disastro liturgico. Subito dopo cerca di
dipingere la Sacrosanctum Concilum come il rimedio illuminato in
grado di sanare i supposti mali precedenti, tanto illuminato che, per un
verso nessuno può pensare di criticarlo o rivederlo, e per l’altro
nessuno può chiamarlo corresponsabile della crisi liturgica attuale.
Solo per ultimo l’Autore si sofferma sull’argomento che gli sta a cuore,
presentando una stringata serie di appunti all’attuale pratica liturgica
come se si trattasse di elencare delle piccole “sbavature”, come lui stesso
le chiama.
In altri termini, mentre è evidente a tutti che
alla crisi attuale si è giunti anche col concorso non trascurabile
del Concilio, la tesi dell’Autore sembra basarsi sul presupposto che il
Concilio è intoccabile e che se esiste veramente un male originario
questo è da ricercare nella pratica liturgica anteriore al Concilio.
Vediamo allora che cosa ha scritto l’Autore, iniziando
il nostro esame proprio dall’argomento principale dell’articolo, e cioè
dal fondo e non dall’inizio.
La terza parte di questo articolo è intitolata:
A
quarant’anni dalla "Sacrosanctum Concilium": il punto sulla situazione.
L’Autore, dopo aver ricordato che la riforma liturgica
“è stata una scelta provvidenziale”, constata che “qualcosa non
ha funzionato”, richiamandosi all’enciclica Ecclesia de Eucharistia
in cui il Santo Padre “segnala l’esistenza di "ombre" e perfino di "abusi".”
Ma precisando, subito dopo, che si tratta di “sbavature che hanno offuscato
e purtroppo continuano ad offuscare la liturgia”.
Ora, l’uso di tali espedienti lessicali fa subito comprendere
che l’Autore fa finta di condividere certe critiche e certe constatazioni,
ma in realtà, non potendo negare, si industria a minimizzare.
In effetti non v’è nulla in comune tra un "abuso"
e una "sbavatura", se non altro perché, in termini liturgici,
a differenza delle “sbavature”, gli abusi finiscono spesso col tradursi
nella invalidità dell’atto liturgico e nella eterodossia dottrinale.
È in fondo questa la vera preoccupazione del Santo Padre nell’enciclica
citata, come peraltro si evince dallo stesso passo dell’enciclica che l’Autore
riporta in nota e in cui il santo Padre afferma: “Si aggiungono, nell’uno
o nell’altro contesto ecclesiale, abusi che contribuiscono ad oscurare
la retta fede e la dottrina cattolica su questo mirabile Sacramento.”
Ma veniamo a quelle che l’Autore chiama “sbavature”.
“Spesso, chi sa cantare in qualche modo, canta, magari
improvvisando. Chi sa suonare in qualche modo, suona, dimenticando che
la musica ha pure le sue esigenze di preparazione. Nelle celebrazioni intervengono
strumenti nuovi, una vera invasione. … I canti in lingua latina sono ostracizzati.
Spesso, nelle nostre chiese, chi vuole leggere, legge
come può, e allora fioccano gli errori, la punteggiatura non è
rispettata, la dizione è confusa. … Chi deve fare l'omelia, la fa
a braccio e non di rado tralascia ogni riferimento alle letture appena
proclamate. Così pure, chi propone le intenzioni della preghiera
dei fedeli spesso prolunga la lista delle esperienze dei singoli o della
comunità, evocando le situazioni più disparate, a prescindere
dal messaggio delle letture. Inoltre, chi deve proclamare la preghiera
eucaristica perché è presbitero, la prende a caso o, meglio,
prende quella che scelgono tutti, attratti, più ancora che dalla
sua bellezza, dalla sua brevità. Non parliamo poi di quei sacerdoti
che, talvolta e in taluni luoghi, si arrogano il diritto di utilizzare
preghiere eucaristiche selvagge, o di comporne lì per lì
il testo o parti di esso.
Spesso, chi ama battere le mani, perché lo vede
fare nei comizi o nei concerti, avvia e scatena applausi plateali anche
in chiesa, con il conseguente grave rischio talvolta di non riuscire più
a distinguere tra chiesa e piazza. …”
È del tutto evidente che l’elenco dovrebbe e potrebbe
essere molto, molto piú lungo, ma fermiamoci a quanto ha voluto
ricordare l’Autore.
Pur essendosi limitato ad alcuni aspetti marginali, allo
scopo di minimizzare gli “abusi” ricordati dal Santo Padre, resta il fatto
che queste appena elencate non sono certo delle “sbavature”.
Canti, suoni e letture abbandonate all’improvvisazione,
sono un indice chiarissimo dell’infimo rispetto che oggi vige nelle nostre
chiese, non solo nei confronti della liturgia, ma nei confronti di Nostro
Signore stesso; e questo non può essere definito una “sbavatura”,
perché si tratta invece della perdita della fede.
Chi, nelle preghiere dei fedeli affastella le cose
piú disparate, non lo fa per accidenti, ma con la piena convinzione
che le cose importanti sono quelle che ha deciso di dire lui, non la liturgia
e la S. Messa.
I celebranti che non si preoccupano di preparare l’omelia,
non commettono una semplice leggerezza, perché l’omelia la fanno,
ma parlando a ragion veduta delle cose piú disparate, incuranti
di Dio e della liturgia. Quando poi arrivano a recitare la preghiera
eucaristica scegliendone una a caso o inventandone una di sana pianta,
non dimostrano di essere distratti o frettolosi, ma esercitano quello che
ritengono sia un loro diritto, e proprio perché, come afferma l’Autore,
sono convinti che la preghiera eucaristica sia una composizione declamatoria
(“deve proclamare la preghiera eucaristica”), e non una supplica che umilmente
si rivolge a Dio.
La battuta sugli applausi, poi, è davvero rivelatrice
di tutto l’impianto minimizzante che sostiene questo articolo. Noi non
sappiamo dove risieda ordinariamente l’Autore, ma sembra che sia rimasto
solo lui a credere che gli applausi in chiesa, prima, durante e dopo
la Messa, siano retaggio di un gruppo di fedeli male avvezzi. In verità,
gli applausi in chiesa, che la trasformano in una piazza, sono una prerogativa
di tutti gli ordinati, preti, Vescovi e Cardinali, come tutti ormai siamo
abituati a vedere e a sentire perfino nel corso delle celebrazioni papali.
Ed è proprio questo il punto: l’Autore fa
finta di dimenticare che non ci troviamo di fronte a “qualcosa che non
ha funzionato”, come afferma e come cerca di mostrare, bensí di
fronte a qualcosa che ha funzionato benissimo, esattamente come hanno voluto
i Vescovi che dirigono le Diocesi.
Quando si è costretti ad affrontare questa spinosa
questione degli abusi, è prassi comune operare un netto distinguo
tra i documenti del Concilio e la loro applicazione. Si ribatte sull’idea
che il Concilio e i Padri conciliari abbiano fatto tutto con la massima
attenzione e in perfetta aderenza all’ortodossia, mentre la pratica attuazione
delle disposizioni del Concilio abbia incontrato disattenzione o disinteresse
a causa “della nostra incapacità di comprenderla e di valorizzarla
[la riforma liturgica]” “perché essa non è ancora penetrata
a sufficienza nelle nostre "teste"”, come afferma l’Autore.
Ora, questo modo di ragionare ci sembra alquanto surreale.
Da un lato ci sarebbe il Concilio, con i suoi documenti, quasi un ente
a sé stante, del tutto indipendente da ogni contingenza e da ogni
interferenza umana; dall’altro ci sarebbe una schiera di liturgisti, di
preti e di Vescovi che, avendo ricevuto dal di fuori il Concilio e i suoi
documenti, non è ancora riuscita a rendersi conto del significato
vero di ciò che è sopraggiunto.
Facciamo notare che il Concilio non è stato
altro che l’assise del Vescovi, i quali sono arrivati in Vaticano con tutto
il loro bagaglio di esperienze e di esigenze. Sulla base di esse hanno
elaborato i documenti che hanno ritenuto piú idonei e alla fine
del Concilio non sono rientrati nell’empireo, ma sono rientrati nelle loro
Diocesi, dove hanno dato corso all’applicazione di quelle stesse cose che
avevano deliberato in Concilio. Non v’è alcuna distinzione, quindi,
tra la Sacrosanctum Concilium e la sua applicazione, poiché
si tratta di due momenti che si trovavano e si trovano riunite nelle medesime
persone.
La tesi dell’Autore, che è poi la tesi che va
per la maggiore, può essere valida solo se si guarda ai Vescovi,
e quindi ai Padri conciliari, come a degli esseri dissociati e schizofrenici:
un momento prima ti scrivono la Sacrosanctum Concilium, il momento
dopo ti realizzano gli "abusi".
C’è ancora un’altra sfumatura che va fatta notare.
L’Autore attribuisce i mali liturgici di questi anni
alla “spontaneità fraintesa, che si identifica di fatto con l’improvvisazione,
la faciloneria, il pressappochismo, il permissivismo”, tutte cose che affascinerebbero
“innumerevoli operatori della pastorale, sacerdoti e laici.”
Innanzi tutto occorre notare che l’insieme di questi
comportamenti non può certo essere qualificato di “sbavatura”, qui
ci troviamo al cospetto di qualcosa che attiene essenzialmente al disprezzo
per la liturgia e alla relativizzazione di Dio. Qui siamo di fronte all’uomo
che pretende di inventare a propria immagine il culto di Dio e, quindi,
Dio stesso.
Ma, cosa ancora piú grave, si cerca di scaricare
sulle spalle dei “sacerdoti e dei laici” una responsabilità che
è propriamente dei Vescovi.
L’Autore non fa neanche cenno a certi abusi gravissimi
che rivelano il proliferare di una nuova religione, li ricordiamo allora
noi.
Consacrazioni fuori dalla S. Messa; volgarizzazioni
e usi impropri o sacrileghi delle Specie consacrate; simulazione della
S. Messa; trasformazione della S. Messa in comizio; uso di sostanze diverse
dal pane e dal vino per la consacrazione; concelebrazioni con i non ordinati;
celebrazioni in luoghi impropri o dissacrati; abbandono o nascondimento
del SS. Sacramento; uso di simboli, di preghiere, di paramenti o di suppellettili
non cattolici; interferenza e confusione tra ordinati e laici durante la
S. Messa; rifiuto di ogni riverenza per l’Ostia della Comunione; distribuzione
dell’Ostia a chiunque, in maniera indifferenziata; disprezzo per l’adorazione
eucaristica… e non finisce qui.
Tutto questo è qualcosa di piú degli “abusi”,
qui dobbiamo constatare che in quarant’anni, nelle nostre chiese, si è
diffusa a macchia d’olio una nuova religione:tutto questo non ha niente
a che vedere con la religione cattolica e non perché si adotti un
punto di vista “nostalgico” o “formale”, come scrive l’Autore, ma perché
tutto questo è in palese contrasto con la stessa Sacrosanctum
Concilium e con i libri liturgici riformati.
Ma, se questo è potuto accadere e, soprattutto,
ha potuto svilupparsi nel corso di quarant’anni, non si può dire
che sia stato causato da incomprensione o da superficialità. Non
si tratta di piccole cose scomposte notate qua e là, bensí
di un andamento che in tanti anni si è sviluppato e consolidato,
tanto che dagli stessi documenti della Congregazione per il Culto Divino
e la Disciplina dei Sacramenti si comprende facilmente come queste cose
e questi “abusi”, supposti impensabili alla fine del Concilio, abbiano
finito col trovare legittimità, cosí che è stato l’abuso
ad averla vinta sulla Sacrosanctum Concilium.
Basti per tutti la distribuzione del Santa Comunione
sulla mano.
Orbene, se tutto questo è accaduto, cosí
che oggi si pensa che si debba correre ai ripari, è innegabile che
la responsabilità dei Vescovi non può essere passata sotto
silenzio, soprattutto perché non si tratta di semplice tolleranza
o permissivismo, ma si deve riconoscere che in troppe occasioni si è
trattato e si tratta di connivenza e di cointeressenza.
Possiamo pensare che l’Autore non abbia presente questo
aspetto basilare del problema?
Non è possibile. Lui sa bene che cosa è
accaduto, ma fa di tutto per dissimulare.
Quando parla, infatti, di quella supposta nostra “incapacità
di comprenderla e di valorizzarla [la riforma liturgica]”, che sarebbe
alla base dei mali odierni, incappa in un grosso lapsus. Se, come lui sostiene,
la riforma è scaturita da uno stato di necessità, da tutta
una serie di esigenze sentite dal "popolo" e dai chierici oppressi da un
formalismo soffocante; se la riforma è stata davvero l’espressione
di un sentimento radicato che cercava spazio per esprimersi, non è
possibile parlare poi di riforma incompresa.
Tranne che questa riforma, che a parole scaturiva
dal "popolo", in realtà non era e non è altro che l’invenzione
cervellotica di alcuni addetti ai lavori, i quali, infatuatisi di una visione
immaginifica della liturgia e della religione, hanno inventato ed "imposto"
tutta una serie di novità che ancora oggi, a quarant’anni dal Concilio,
il famoso "popolo" non riesce a comprendere e a valorizzare. Peraltro
è lo stesso Autore che lo confessa: la riforma liturgica, egli dice,
“non è ancora penetrata a sufficienza nelle nostre "teste"”, Il
che, tradotto in lingua volgare, significa che essa è del tutto
estranea alle nostre teste, è un elemento che viene dal di fuori,
qualcosa che è stato imposto dall’esterno senza alcun fattore comune
con quello che c’era nelle nostre teste, qualcosa che, a quarant’anni dal
Concilio, le nostre teste si rifiutano ancora di accettare.
Questo è il vero problema. Aggravato dal fatto
che non si può impunemente parlare di “naturalezza e spontaneismo,
indubbiamente sinceri, ma spesso fraintesi, malintesi…”, facendo finta
di dimenticare che una liturgia “naturale e spontanea” non potrebbe
neanche esistere, perché allora non sarebbe una "divina liturgia",
ma una sceneggiatura meramente umana. Certo, intrisa di tanta buona
volontà, ma mossa prioritariamente da pulsioni e da sentimenti che
si fondano sull’uomo, non sugli insegnamenti di Dio.
In fondo è quello che è accaduto.
In quarant’anni si è lasciato spazio alle pulsioni
umane, e queste, com’è naturale, ci hanno condotto sempre più
verso il basso. Si è cercato di corrispondere alle incontrollabili
e mutevolissime istanze umane e ci si è sempre più allontanati
dalla primaria preoccupazione per Dio e per il culto a Lui dovuto.
In altre parole, invece dello sforzo per ridurre la
nostra multiformità, la nostra dispersività e la nostra mutevolezza
all’Unicità di Dio, si è finito per innescare un processo
che vorrebbe illusoriamente conformare l’Unicità di Dio alle nostre
multiformità, dispersività e mutevolezza.
La terribile conseguenza di tutto questo è che,
se è vero come è vero che "si prega come si crede", questo
nuovo modo di rendere culto a Dio non può essere ascritto al solo
“abuso” nello specifico campo liturgico, ma dev’essere ritenuto fondato
su un modo diverso di credere o, per meglio dire, su un nuovo credo, che
in molti di questi casi si traduce in una vera e propria nuova teologia
e nuova dottrina che non hanno piú niente a che vedere con la Chiesa
e con Cristo.
Per quanto questa affermazione possa apparire grave, nondimeno
scaturisce dalla semplice constatazione dell’attuale condizione della compagine
cattolica, e trova conferma nell’esame che faremo adesso circa i contenuti
della Sacrosanctum Concilium.
Seguendo a ritroso l’Autore, vediamo di esaminare ciò
che lui afferma circa le riforme liturgiche volute dai Padri conciliari
e contenute nella Sacrosanctum Concilium.
“Cosí recita il n. 36: "L’uso della lingua latina,
salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato però
che, sia nella messa sia nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre
parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua volgare può
riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda ad essa una
parte piú ampia, specialmente nelle letture e nelle monizioni, in
alcune preghiere e canti". La questione della lingua liturgica ritorna
al n. 54, che recita: "Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo,
si possa concedere una congrua parte alla lingua volgare, specialmente
nelle letture e nell’orazione comune […]. Tuttavia si abbia cura che i
fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti
dell’ordinario della messa che spettano ad essi"”.
Questa lunga citazione, tratta dallo stesso articolo,
aiuta a comprendere quanta contraddizione sia presente in esso. Contraddizione
che, in verità, non può essere addebitata interamente all’Autore,
poiché egli si limita a presentare le cose secondo un uso invalso
fin dalla fine del Concilio.
Nessuno è mai riuscito a spiegare, in maniera
decente, come mai sia scomparso il latino dalla liturgia, né ci
è mai capitato di leggere a chi risalga la responsabilità
della sua perentoria e subitanea proibizione fin dal 1965.
A leggere i documenti, il Concilio non ne ha colpa, anzi
esso ne ha raccomandato la conservazione, sia per il celebrante sia per
i fedeli. Chi, come e perché ha stabilito esattamente il contrario?
Insomma, i Padri conciliari raccomandarono l’uso del
latino anche per i fedeli, lo scrissero e lo sottoscrissero, mentre i Vescovi,
unanimi, ne decretarono la scomparsa e ne sancirono la proibizione.
Qui è successo qualcosa di molto strano. Ci
troviamo al cospetto del piú incredibile degli abusi, del palese
rigetto da parte dei Vescovi di quanto essi stessi avevano stabilito in
sede conciliare.
Questa vicenda, insieme ad altre dello stesso tenore,
è tale da costituire la chiave di lettura, non solo di tutto quello
che è accaduto dopo il Concilio, ma dello stesso Concilio.
Quando si parla dello “spirito del Concilio”, che avrebbe
informato tutta l’"applicazione" del Concilio stesso, si usa a proposito
una espressione che rende bene l’idea di quel che è accaduto prima,
durante e dopo il Concilio.
Insomma, sembra proprio che il Concilio e i suoi documenti
siano stati solo una scusa, un punto d’appoggio, su cui i Vescovi avrebbero
costruito una pastorale, una catechesi e un magistero che avevano lo scopo
di “rifondare” la Chiesa, la liturgia e la dottrina. Che poi questo
si sia verificato con la piú o meno avvertenza da parte di tanti
Vescovi, non cambia nulla della questione.
L’Autore dell’articolo non ne parla, ma noi pensiamo sia
utile ricordare che quando i Padri conciliari parlavano della liturgia
e delle possibili riforme da apportare, molti di essi avevano in
vista la liturgia fissata col Concilio di Trento, non una nuova liturgia
come è poi avvenuto.
Chi, fra costoro, avrebbe mai pensato di dover dir Messa
con l’altare girato con le spalle al Signore; di dover dir Messa nelle
chiese-garage di nuova concezione o nelle chiese-arene concepite da architetti
agnostici; che sarebbero stati riscritti tutti i lezionari, tutti i graduali,
tutti i cantuali, tutti i rituali, tutti i pontificali; di dover abolire
quasi tutte le pratiche paraliturgiche legate alla devozione popolare;
ecc.?
Eppure tutto questo è avvenuto, ed è avvenuto
ad opera delle Conferenze Episcopali e cioè ad opera di quegli stessi
Vescovi che non avevano mai pensato di doverlo fare.
Delle due l’una, o il Concilio è stato una
scusa o il postconcilio è stato diretto da una irresistibile forza
preternaturale a cui i Vescovi non hanno saputo e voluto resistere.
Qualcuno potrebbe obiettare che la riforma è stata
predisposta in Vaticano ed è stata promulgata dal Papa, quindi i
Vescovi e le Conferenze Episcopali non avrebbero alcuna responsabilità.
Ma questo è l’aspetto formale della questione. Per poter sostenere
una simile tesi anche dal punto di vista sostanziale occorre accettare
l’idea che il Vaticano e il Papa abbiano attuato una riforma in contrasto
col Concilio e l’abbiano poi imposta a tutti i Vescovi che l’avrebbero
semplicemente subita: il che è palesemente insostenibile.
L’Autore non dà alcuna spiegazione di questo fenomeno,
anzi si sofferma sulla questione della lingua volgare, introducendola a
questo modo: “ … vogliamo soffermarci su quella che giustamente può
essere considerata la decisione basilare della riforma liturgica, l’introduzione
della lingua parlata nelle celebrazioni, benché il Concilio non
volesse abolire l’uso del latino nelle celebrazioni. Si è trattato
di un cambiamento storico che, se fu accolto con entusiasmo da chi meglio
riuscì a comprenderne il significato e a prevederne gli effetti,
non mancò di suscitare apprensioni, disturbare abitudini consolidate,
destare nostalgie profonde.”
Ci sembra ce ne sia abbastanza per capire che l’Autore
non ha alcuna intenzione di affrontare seriamente il problema, egli svolge
il compito di chi deve solo produrre un elogio del Concilio e del postconcilio
ad ogni costo.
Ora, che si sia trattato di un evento storico è
fuori dubbio, ma in realtà quello che a noi seguaci di Cristo deve
maggiormente interessare non è l’evento storico, bensí l’evento
religioso. La storia appartiene all’ordine delle contingenze e lascia il
tempo che trova, ciò che conta è la religione e il mantenere
fermo il vero culto di Dio.
Diciamo subito che la prima cosa che si nota in questo
panegirico del volgare è la leggerezza con cui l’Autore afferma
che il Concilio non “volesse abolire l’uso del latino nelle celebrazioni”.
Altro che non abolizione, il Concilio "prescrive" l’uso
del latino! Come poi si sia giunti alla sua abolizione l’Autore non lo
spiega, quasi fosse un dettaglio di poco conto.
Spiega invece, con un esempio un po’ particolare, quello
dei santi Cirillo e Metodio, come la Chiesa si sia sempre trovata di fronte
al problema dell’uso della lingua volgare.
Coloro che volevano mantenere l’uso del latino, dice
l’Autore, “assolutizzavano l’usus receptus di una o due lingue come
se quello fosse davvero esclusivo. Insomma non avevano il senso della Tradizione,
quella che a partire dal giorno della Pentecoste aveva inaugurato la predicazione
della Parola di Dio - e di certo anche la liturgia - nelle lingue
dei popoli.”
È questo un modo davvero singolare di presentare
la questione, e siccome noi abbiamo un grande rispetto per la preparazione
dei padri gesuiti non possiamo credere che l’Autore sia un ignorante, siamo
quindi costretti a pensare che egli cerchi di farci credere che il falso
sia vero.
Il che non è certo una buona credenziale per
lui stesso e per l’articolo che ha scritto.
Sollevare il caso dell’uso della lingua slava nelle terre
evangelizzate dai santi Cirillo e Metodio, senza precisare che questa
lingua è diventata la lingua liturgica di una parte dell’Oriente
cristiano e come tale è rimasta invariata per dodici secoli, fino
ad oggi, è talmente maldestro che ci fa sospettare della buona
fede dell’Autore. D’altronde, lo stesso dicasi per il greco e lo stesso
è accaduto per il latino fino al colpo di mano postconciliare.
Ma è ancora piú sorprendente che l’Autore
si permetta di riferirsi al dono delle lingue alla Pentecoste, insinuando
una confusione incredibile tra predicazione e liturgia. E lo fa a ragion
veduta, come rivela il suo inciso “e di certo anche la liturgia”.
Dove si fonda questa certezza dell’Autore? Vorrebbe forse
farci credere che gli Apostoli, a Pentecoste, abbiano eseguito cento liturgie
nelle cento lingue dei presenti in quel momento?
La verità è che l’Autore deve a tutti i
costi presentare le cose in modo che il postconcilio abbia ragione, anche
a costo di fare delle affermazioni senza fondamento.
Orbene, la lingua liturgica è qualcosa di strettamente
connesso con l’esecuzione del rito, essa, al pari delle prescrizioni emanate
solo dall’Autorità competente, è uno degli elementi di garanzia
per la corretta esecuzione del rito. La liturgia è l’insieme di
quegli elementi, parole, gesti, posture, suoni, suppellettili, paramenti,
spazio sacro, tempo rituale, che compongono un preciso rito col quale si
rende a Dio il culto dovutogli, nel modo da Lui richiesto e secondo i suoi
precisi insegnamenti. Tutto il resto che gira
intorno al rito è ammissibile come supplemento e costituisce l’insieme
del cerimoniale che accompagna il rito a maggiore edificazione dei fedeli,
sulla base della loro sensibilità, della loro specifica cultura
e della loro condizione spaziale e temporale.
In particolare, la lingua liturgica, dovendo esprimere
precisi concetti dottrinali, deve necessariamente avere una qualche fissità,
che sia in grado di mettere al riparo questi stessi concetti dai cambiamenti
che comporta necessariamente il trascorrere del tempo e la mutevolezza
del linguaggio parlato.
In questi quarant’anni è accaduto proprio questo.
A
furia di usare il volgare nella liturgia, si è stravolto il senso
degli insegnamenti dottrinali contenuti nelle sue parti. Si è perfino
stravolto il senso di certi passi della Scrittura, operando delle traduzioni
che sono delle vere e proprie libere traslazioni dall’insegnamento di Dio
alla sapienza umana.
Nessuna meraviglia dunque se oggi ne piangiamo le
conseguenze.
Per altro verso, l’Autore, mentre si è compiaciuto
a soffermarsi sulla vicenda dell’adozione della lingua slava, non solo
trascura di ricordare che essa è rimasta invariata per dodici secoli
fino ad oggi, ma passa sotto silenzio il fatto che la Chiesa d’Oriente
ha conservate intatte fino ad oggi le liturgie dei Padri Greci, come Basilio
e Crisostomo, ivi compresi tutti quegli elementi che abbiamo citato prima
e su cui ritorneremo tra poco.
Per adesso pensiamo sia necessario ricordare che vi è
una bella differenza tra la predicazione, che può essere fatta solo
nella lingua volgare, e la preghiera liturgica che dev’essere fatta in
modo da non dover subire variazioni continue e conseguenze disastrose come
gli abusi di cui stiamo parlando.
L’Autore sa che vi è una grande differenza
tra le due parti della liturgia della S. Messa, la prima parte, la Messa
dei catecumeni, che contiene l’istruzione e l’omelia, e la seconda parte,
la Messa dei fedeli, che contiene il prefazio, il canone con la preghiera
eucaristica e la comunione. Egli sa anche che la seconda parte della S.
Messa è la parte essenziale, nel corso della quale si rinnova il
Santo Sacrificio della Croce e si rende a Dio il culto dovutogli, secondo
gli insegnamenti che il Signore Gesú trasmise agli Apostoli, cioè
secondo la Tradizione.
Orbene, al fine di confondere meglio le acque, il postconcilio
ha introdotto l’uso dell’espressione “liturgia della parola”, con la quale
si designerebbe la parte istruttiva della Messa. Cosí facendo ha
posto le premesse per far scadere la seconda parte della Messa allo stesso
livello della prima.
In realtà, mentre la prima parte della Messa è
principalmente, ma non interamente, incentrata sull’attenzione verso i
fedeli: confessione, letture e omelia; la seconda parte della messa è
essenzialmente e interamente incentrata sull’attenzione verso Dio. Non
v’è alcun dubbio che anche un bambino capisce che non ci si può
rivolgere a Dio allo stesso modo con cui ci si rivolge ai fedeli.
Anzi, mentre la prima parte della Messa ha una connotazione
discendente, per gli elementi divini che vengono ricordati ai fedeli perché
si preparino per la seconda parte; quest’ultima ha una connotazione ascendente,
nel corso della quale tutti i fedeli si devono rivolgere a Dio per rendergli
il culto dovutogli, nel modo prescritto da Dio stesso.
Ora, parlare ai fedeli può anche richiedere
la diversificazione del linguaggio perché essi capiscano meglio
il messaggio di Dio, ma parlare a Dio richiede obbligatoriamente ciò
che si ripete ancora oggi nei diversi prefazi: essere "rivolti al Signore",
"rendere grazie a Dio", riconoscere la sua Maestà, inneggiare al
suo Nome, cantare "ad una voce" l’inno della sua lode: Santo, Santo, Santo,
"uniti agli Angeli e ai Santi e a tutte le schiere delle milizie celesti".
Si può dire, in piena coscienza, che in questi
quarant’anni tutta la Chiesa ha cantato "ad una voce" l’inno di lode al
Signore, o piuttosto non si deve constatare che ognuno ha finito con lodare,
se possibile, il Signore in maniera del tutto personale, individuale ed
estemporanea, trasformando la lode della Chiesa in un rumoroso e incomprensibile
coacervo di lingue e di concezioni diverse?
Non solo, ma quando si vuol parlare seriamente del
problema della lingua nella liturgia, soprattutto in relazione alla parte
sacrificale della S. Messa, dal prefazio alla dossologia, non si può
far finta di dimenticare che in quel momento non si sta svolgendo una rappresentazione
teatrale, un comizio per il popolo, un racconto storico, un incontro conviviale:
al contrario, in quel momento si stanno rinnovando i Santi Misteri, in
quel momento i cieli si schiudono e la liturgia celeste si fonde con la
liturgia terrestre perché la lode a Dio sia una sola cosa in terra
come in cielo. In quel momento il mistero terribile del Sacrificio della
Croce si rinnova per la salvezza delle ànime dei fedeli. In quel
momento accade sull’altare ciò che nessuna parola umana potrebbe
mai esprimere e nessun pensiero umano potrebbe mai concepire: Nostro Signore
si rende presente in Corpo, Anima e Divinità.
Cosa ha a che fare con tutto questo l’uso della lingua
volgare, la recitazione ad alta voce, la supposta comprensione dei fedeli?
Forse che i fedeli, col postconcilio, hanno finalmente
svelato il mistero della S. Messa?
O forse, col dopoconcilio, non vi sarebbe piú
alcun mistero da svelare, e quindi non vi sarebbe piú alcuna Messa
da celebrare?
In effetti però, la questione è ancora piú
grave, ce lo svela l’Autore quando afferma: “Oggi siamo più che
convinti della necessità che urgeva alla Chiesa del nostro tempo
di restituire al discorso tra l’assemblea e Dio le risonanze profonde del
linguaggio di ogni popolo.”
Siamo certi che l’Autore ci perdonerà, ma non
possiamo esimerci dall’esclamare: che razza di diavoleria è mai
questa!?
Secondo l’Autore, la liturgia non sarebbe altro che
un “discorso tra l’assemblea e Dio”. E poi ci si meraviglia se ci sono
gli “abusi”!
Allora, se è vero come è vero che la liturgia
è opera del Signore Gesú, che ha istituito l’Eucaristia nel
corso dell’Ultima Cena, dev’essere altrettanto vero che l’Ultima Cena
fu un discorso tra l’assemblea e Dio. Il che, prima che falso, è
ridicolo.
Nostro Signore ha istituito l’Eucaristia a porte chiuse,
escludendo rigorosamente dalla celebrazione perfino "tutti" i discepoli,
salvo i Dodici. Dalla celebrazione della Prima Eucaristia è stata
perfino esclusa la Vergine Maria Madre di Dio.
Il supposto “discorso tra l’assemblea e Dio” è
una pura fantasia degli innovatori, che si basa su un preciso riferimento:
la religiosità sentimentale e superficiale scaturita dall’eresia
protestante.
Laddove, per i protestanti, non v’è piú
sacralità, non v’è piú il sacramento dell’Ordine,
non v’è piú Sacrificio, non v’è piú Presenza
Reale, non v’è piú liturgia - intesa nel vero senso della
parola -, ebbene, là resta solo un supposto discorso tra l’assemblea
e Dio, una sorta di immaginario dialogo, uno scambio di vedute e, conseguentemente
e inevitabilmente, un dibattito: un dibattito tra l’assemblea e Dio.
Non siamo noi che affermiamo questa cosa incredibile,
ma è l’Autore stesso, con un compiacimento e una sicurezza che lascia
esterrefatti.
Ci chiediamo: in quale parte dell’enciclica Ecclesia
de Eucharistia sta scritto che il rinnovamento del Sacrificio della
Croce non è altro che un discorso tra l’assemblea e Dio?
Questo lapsus dell’Autore aiuta a comprendere che lui
è uno di quelli che ha finito col credere, col postconcilio, che
il soggetto dell’azione liturgica, nella S. Messa, non è Nostro
Signore agente per mezzo del ministro ordinato che opera in persona
Christi, ma è il popolo, di cui il ministro ordinato è
un semplice delegato: il presidente. Con buona pace di tutti i Concili
della Chiesa, di tutto il magistero e della stessa Sacrosanctum Concilium
di cui l’Autore sembra tessere le lodi.
Veniamo adesso alla terza parte dell’articolo, che
l’Autore svolge per prima.
Abbiamo lasciata per ultima questa parte perché
è la meno interessante. In essa sono affastellate tante di quelle
inesattezze, presentate in maniera talmente grottesca, che veramente non
meriterebbe alcuna considerazione. Ma dal momento che l’Autore l’ha posta
a presentazione del suo articolo, vediamo di concederle un po’ di attenzione.
La prima cosa che salta all’occhio è l’affermazione
secondo cui: “La fisionomia celebrativa di questi decenni [prima del Concilio]
è sempre la stessa, né si discosta sostanzialmente da quella
dell'intero millennio cui appartengono.” Ed ecco un elemento di questa
fisionomia celebrativa che l’Autore presenta in maniera ridicola: la divisione
tra il presbiterio e la navata.
Come mai l’Autore ci tiene a precisare la faccenda del
primo millennio? Perché si prepara a sostenere la tesi moderna
secondo cui la liturgia preconciliare è roba da medioevo, nel corso
del quale sarebbe stata stravolta la liturgia del primo millennio e, in
particolare, dei tempi apostolici. È opportuno quindi fare qualche
precisazione, chissà che l’Autore non abbia a trarne profitto.
La divisione tra il presbiterio e la navata non è
un’invenzione del medioevo, ma risale ai primi tempi della Chiesa. Siccome,diversamente
di adesso, si aveva il senso dello "spazio sacro", non era possibile trascurare
neanche i particolari, poiché tutto doveva essere fatto a maggior
gloria di Dio.
Lo spazio riservato al rinnovamento del Sacrificio della
Croce non poteva essere confuso con lo spazio rimanente. Anzi, tutto lo
spazio occupato dalla chiesa aveva il suo punto focale nel presbiterio,
o, per meglio dire, nell’altare.
Innanzi tutto la chiesa era orientata in modo che
il luogo della manifestazione misterica del Signore fosse verso Oriente,
avendo cura che lo spazio delimitato dalle mura avesse la forma della croce,
o quasi. In tal modo, su questa croce disposta orizzontalmente, il presbiterio,
e in particolare l’altare si veniva a collocare all’incrocio dei bracci
della croce. Ancora piú a Oriente vi era l’abside, mentre verso
Occidente vi era la navata. I bracci Sud e Nord della croce erano posti
all’altezza del presbiterio.
Non ci possiamo dilungare, in questa sede, sui vari
significati di questa disposizione, ci limiteremo quindi a ricordare che
in tal modo l’altare corrispondeva al cuore del Crocefisso, l’abside alla
testa del Crocefisso, la navata al corpo del Crocefisso, i bracci del transetto
alle braccia del Crocefisso. Seguendo questa distribuzione, il posto del
successore degli Apostoli era nell’abside, in corrispondenza della testa;
il posto dell’altare, e quindi del celebrante e dei ministri, era al centro
del presbiterio, in corrispondenza del cuore; il posto dei fedeli era nella
navata, in corrispondenza del corpo.
Per di piú, in questa navata, fin dai primi tempi
della chiesa, vi erano due zone distinte: la parte centrale riservata agli
uomini e le parti laterali riservate alle donne e perciò detti "matronei".
Ricordiamo anche che l’abside, oltre a delle raffigurazioni
relative a Cristo in gloria, giudicante o benedicente, aveva una precisa
forma circolare e, in particolare aveva delle finestre da cui entrava la
luce del sole al suo nascere e si riversava sull’altare. In seguito, questa
funzione venne svolta dalla cupola che, mantenendo sempre la forma circolare,
veniva posta in corrispondenza del centro della croce, esattamente sopra
l’altare.
Far finta di meravigliarsi della divisione tra il presbiterio
e la navata, come fosse una sorta di espediente pretesco per tenere lontani
quei fessi dei fedeli, significa offendere, non solo l’intelligenza di
chi legge, ma la stessa religione, che non è fatta di mere elucubrazioni
intellettuali di specialisti pubblicisti, ma di cose molto piú serie
che sarebbe il caso di andare a studiare.
Peraltro, la cura per la disposizione dello spazio sacro
è cosa che risale al Vecchio Testamento, dove è Iddio stesso
che detta forme, misure e prescrizioni. Che un prete non sappia queste
cose è davvero incredibile, soprattutto per un prete cresciuto illuminato
dai supposti lumi del postconcilio. Se poi si pensa che il postconcilio
insegna anche che occorre accrescere l’attenzione per le diverse forme
di culto esistenti al mondo, si resta davvero esterrefatti, perché
non esiste al mondo alcuna forma cultuale, compresa quella delle pseudo-religioni
non cattoliche, che non conosca il senso della divisione dello spazio sacro.
Solo il nostro Autore sembra ignorare queste cose.
Per contro, dà modo di sapere delle cose in esclusiva,
come quella strana storia delle chiese piene di donne e senza uomini del
tempo di San Paolo. Ora chiunque legga il passo degli Atti citato dall’Autore
(16, 13), si rende subito conto che questi, da abile manipolatore, usa
San Paolo per dare piú forza alla storia grottesca che gli uomini
stavano fuori dalla chiesa.
"E gli uomini, dove sono gli uomini?", si chiede l’Autore.
E questo per mille anni. Per mille anni gli uomini non sarebbero andati
in chiesa se non alla spicciolata, in ritardo, solo in pochi, senza attenzione,
con disinteresse, un po’ annoiati. Incredibile!
Ma viene subito da chiedersi: a cosa servirebbe questa
grottesca rappresentazione escogitata dall’Autore?
Semplice, non serve a niente, è solo un espediente
da manipolatore pubblicitario per gettare discredito sulla liturgia preconciliare.
Tant’è
che l’Autore non dice una parola sul significato della liturgia di prima
del Concilio.
Dice però un sacco di cose esatte, presentandole
tutte come se fossero degli accadimenti grotteschi, ridicoli, che non hanno
niente a che vedere con la liturgia, con la Chiesa, con Nostro Signore.
Vediamo.
“II sacerdote, davanti all'altare, volgendo le spalle
ai fedeli,…”. Esatto, ma detto in modo ridicolo, il sacerdote volge
gli occhi e il corpo a Dio, non volge le spalle ai fedeli, ma, insieme
ai fedeli, si rivolge a Dio. Questo ha insegnato il Signore.
“[Il sacerdote] … "dice" messa …”. Esatto, il sacerdote
la Messa la "dice", non la "fa"; il sacerdote, a stretto rigore, non "celebra"
neanche, poiché il vero celebrante è Cristo, che è
il vero Sacerdote, il Sacrificatore e il Sacrificato, il ministro è
solo uno strumento di Cristo, egli celebra in persona Christi.
Altro che celebrazione del presidente e dell’assemblea! Questo ha insegnato
il Signore.
“[Il sacerdote] … quando benedice, a volte sembra che
fenda l'aria, con la mano di taglio e con angolazioni da goniometro.” Esatto,
il sacerdote esegue gesti misurati, composti e corretti, egli ha il dovere
di farlo, perché tutto sia giusto e degno a maggior gloria di Dio.
Non
c’è posto per la creatività umana, e per lui, che è
chiamato da Dio a svolgere una funzione sacra che fa tremare le vene e
i polsi, non c’è posto neanche per la sua individualità,
lui ha votato tutta la sua vita al Signore. Questo ha insegnato il Signore.
“La messa è governata da una normativa precisa”.
Esatto.
Dal momento che si tratta della cosa piú importante che la Chiesa
fa in obbedienza ai comandi del Signore, non si vede come possa essere
diversamente. Solo una mentalità da teatrante, ove c’è posto
per le fantasie dello sceneggiatore, potrebbe pensare ad una Messa senza
normative precise. Che questo accada oggi col postconcilio, non significa
che è giusto. Non è questo che ha insegnato il Signore.
“Ai futuri sacerdoti si ripete che la liturgia è
un'arte pratica”. Questo non è molto esatto, ma abbastanza vicino
alla verità, poiché la liturgia, che comporta principalmente
una disposizione della mente, dell’animo e del corpo, non può essere
veramente insegnata se non con la pratica. Non basta leggere il Messale
per poter dire Messa. Questo d’altronde spiega perché si hanno
pochi documenti scritti sull’uso dei rituali, e quei pochi sono come dei
promemoria. Non v’è una scienza liturgica scritta, non v’è
mai stata e non potrebbe esserci, poiché la liturgia è una
di quelle cose che ha a che fare con la Tradizione degli Apostoli, e cioè
con la trasmissione orale. L’unica cosa che è sopraggiunta è
la storia della liturgia, ma questa non fa un liturgo, semmai un liturgista.
La liturgia l’ha insegnata il Signore agli Apostoli.
“Il sacerdote … fa tutto lui: legge le letture… canta
con voce sicura, … poi traccia tanti segni di croce.” Esatto. È
lui infatti il celebrante. I fedeli fanno ciò che spetta loro, pregano,
rispondono, cantano, e quando previsto accompagnano ciò che fa il
celebrante. E si segnano, anche. Fanno anche loro tanti segni di croce,
perché loro sono cristiani, i seguaci di Cristo, di quel Cristo
che morí per loro sulla Croce, e in nome di Cristo ogni cosa è
segnata dalla croce. Trentatré segni di croce fatti dal sacerdote
nel corso della Messa, trentatré, come gli anni di Cristo, perché
ogni cosa che si riferisce a Cristo è importantissima per il cristiano.
Il
fedele non conta neanche i segni di croce che fa, a Messa, e in ogni occasione
della giornata, si segna, fa memoria di Cristo, si affida a Cristo, si
appella a Cristo. Questo ha insegnato il Signore.
Ed ecco il colpetto da persuasore occulto: “ È
comunque doveroso riconoscere che allora i sacerdoti "dicevano" messa con
grande devozione e i cristiani "ascoltavano" la messa con sincera
pietà. La fede dei nostri vecchi si è nutrita così
per oltre mille anni. Anche se il richiamare alla memoria questa loro prassi
può farci abbozzare un sorriso, esso non sminuisce affatto l'ammirazione
e la venerazione che dobbiamo avere verso quanti ci hanno trasmesso la
fede.”
Dopo tanta denigrazione e tanto sarcasmo; dopo aver cercato
di far capire che prima del Concilio non vi fosse niente di serio, ecco
l’affondo finale.
Traduciamo in lingua volgare.
Attenzione - intende dire
l’Autore - tutto questo non significa che non siamo tenuti ad
ammirare e a venerare chi ci ha trasmesso la fede, nonostante la loro ridicola
concezione della fede, nonostante la loro pratica della fede incredibilmente
poco seria, nonostante non capissero niente della fede.
Grazie, reverendo padre, di tanta magnanimità e
grazie anche per la riforma liturgica che ha capovolto tutto questo offrendoci
gli abusi, le eresie e il disprezzo per la religione. Grazie!
Grazie soprattutto per la sua illuminante analisi, con
la quale ci ha mostrato “ i gravi limiti di tale modo di celebrare”.
“Il primo consisteva nell'iper-protagonismo del celebrante
e nella conseguente passività imposta ai fedeli”. Allora, andiamo
per ordine. L’iper-protagonismo del celebrante consisterebbe nel fatto
che egli, senza guardare ai fedeli, concentrava tutti i suoi sensi stando
rivolto al Signore e seguendo alla lettera quanto prescritto per l’esecuzione
del rito. Ebbene, se l’italiano non è il giuoco delle tre carte,
per questo atteggiamento del celebrante c’è un termine preciso:
concentrazione. Il che corrisponde esattamente a quanto è richiesto
dall’operare in persona Christi. Non sono io - diceva San Paolo
- ma è Cristo che è in me. Lo stesso dicasi per i fedeli,
il cui atteggiamento piú idoneo nel corso della Messa è quello
dell’aprirsi e dell’abbandonarsi alla Grazia, rifuggendo da ogni attitudine
attivistica e da ogni richiamo personalistico e individualistico.
Un prete che non sa neanche queste cose, può
solo essere stato educato in un moderno seminario in cui al posto della
teologia dogmatica si insegna la psicologia dell’inconscio.
O vuole che facciamo il paragone col protagonismo da
primo attore del celebrante partorito dal postconcilio? O con l’attivismo,
il cicaleccio e l’irrequietezza dei fedeli che, dentro e fuori del presbiterio,
seguono i suggerimenti imposti loro dal postconcilio?
“Il secondo limite era rappresentato dall’uso esclusivo
della lingua latina, conosciuta dai sacerdoti e, in varia misura, anche
dalle persone colte, ma inesorabilmente carica di mistero per i più”.
Tanto carica di mistero, che erano regolarmente diffusi
i messalini bilingue, i piccoli manuali parrocchiali, i libri della devozione
cristiania, la recita del Rosario singola e in gruppo, rigorosamente in
latino, ma e soprattutto, era diffuso l’uso di ripetere a memoria intere
parti dell’Ordinario della Messa, proprio da quei fedeli “passivi”, ignoranti
e bistrattati, che forse non avevano mai studiato il latino, ma comprendevano
benissimo le preghiere della Messa, i Salmi, il Rosario, i canti dei Vespri,
e tutto il repertorio gregoriano che annoverava centinaia di inni, di sequenze
e di cantici. Saranno stati ignoranti, ma per le cose di religione ne sapevano
molto di piú dei preti del postconcilio.
O vogliamo contare il numero dei fedeli che oggi corrisponde
alle parti della Messa loro spettanti e che canta le nuove composizioni
musicali, nonostante l’uso del volgare e nonostante il numero delle presenze
si sia enormemente assottigliato?
“Il terzo limite era collegato all'applicazione scrupolosa
e quasi meccanica delle rubriche…”.
Ed ecco di nuovo il vecchio ritornello delle rubriche,
come se la Messa non l’avesse istituita Nostro Signore e fosse una mera
invenzione umana. Ma, ci chiediamo: perché ancora oggi tutti
i celebranti, Papa compreso, tengono davanti il testo da recitare o da
cantare, nonostante sia lo stesso e nonostante lo abbiano ripetuto migliaia
di volte? Vuoi vedere che la preoccupazione prima è quella di non
sbagliare e di celebrare in maniera degna la liturgia divina? Vuoi vedere
che il Messale va sempre seguito, ancora oggi, perché non si commettano
scorrettezze e disattenzioni che offenderebbero Nostro Signore e
lo stesso celebrante? Vuoi vedere che il seguire il testo e le prescrizioni
che lo accompagnano, scritte o meno sul messale, corrisponde, ancora oggi,
ad evitare che si commettano abusi?
E se è cosí, come in effetti è,
piuttosto che fare lo spiritoso sull’applicazione scrupolosa delle rubriche,
il nostro Autore farebbe meglio a suggerire il ripristino delle rubriche,
e cioè delle istruzioni scritte in rosso nel Messale e intercalate
nel testo, cosí da aiutare tanti suoi confratelli distratti a non
scadere negli abusi, e da obbligare tanti altri suoi confratelli interessati,
presuntuosi e ammalati di protagonismo a non esagerare con gli abusi.
Dopo di che l’Autore fa un elenco di studiosi che, secondo
lui, sarebbero i padri della riforma liturgica conciliare e postconciliare.
Tralasciamo questo passo della sua esposizione perché sarebbe troppo
lungo spiegare che Dom Guéranger non ha niente a che fare con Giacomo
Lercaro, al pari della monumentale opera sulla liturgia del Cardinale Schuster
che rappresenta una sconfessione dell’attuale riforma liturgica.
Ci soffermiamo invece sul passo successivo, dove l’Autore
per sostenere la supposta validità della partecipazione dei fedeli
alla liturgia, da lui intesa come una concelebrazione (“Allora "celebravano"
la messa con il loro sacerdote”), scomoda San Giovanni Crisostomo.
“ Allora i fedeli capivano quello che si leggeva nelle
letture, quello che il sacerdote diceva nelle preghiere, in particolare
nella preghiera eucaristica.” Falso. L’Autore mente sapendo di mentire,
ed attua la solita tattica dell’archeologismo giustifica-tutto, supponendo
l’ignoranza dei suoi lettori e trincerandosi dietro la sua supposta conoscenza
esclusiva.
È falso che i fedeli, allora, capivano quello
che il sacerdote diceva nella preghiera eucaristica, semmai si può
dire che la conoscessero a memoria, ma certo non potevano neanche
sentirla; e non perché il celebrante recitasse a bassa voce, come
nei tempi bui di prima del Concilio, ma semplicemente perché
la consacrazione avveniva lontano dagli occhi dei fedeli. Al momento
della celebrazione dei Misteri il presbiterio veniva chiuso con una tenda,
e la consacrazione avveniva nel mistero, appunto.
Altro che balaustra che separa, la parte piú
importante della Messa si svolgeva di nascosto, in perfetta coerenza con
ciò che realmente accade: il Mistero si svolgeva nascostamente,
misteriosamente.
Ora, quest’uso era diffuso in tutta la Chiesa, d’Occidente
e d’Oriente.
In Occidente, l’uso della tenda che separava il presbiterio
dalla navata, andò perdendosi e venne sostituito da altre pratiche
corrispondenti, come il silenzio assoluto che si doveva mantenere nel corso
del Canone insieme alla postura dei fedeli, in ginocchio e col capo chino,
mentre della tenda rimase solo un ricordo nella velatura del tabernacolo
al centro dell’altare.
In Oriente l’uso si è mantenuto fino ad oggi,
anzi, una delle componenti essenziali della chiesa orientale è proprio
l’iconostasi, e cioè la separazione netta tra presbiterio e navata,
realizzata addirittura con un’intera parete colma di icone, con ai
lati due porticine che, al momento opportuno, vengono chiuse.
Non è nostra intenzione approfondire questo aspetto
del problema, ci limitiamo solo a far notare che un qualunque turista,
oggi, sa benissimo come sono fatte le chiese in Oriente. Non sarebbe male
che il nostro padre gesuita facesse un giro in qualcuna di queste chiese,
magari in una in cui si celebra la liturgia di San Giovanni Crisostomo
da lui usato in maniera spudoratamente strumentale. Lo rassicuriamo, non
occorre che vada in qualche landa russa o al Monte Athos, basti che si
rechi in una qualunque di quelle chiese che sono state cedute in comodato,
in Italia, ai vari gruppi ortodossi. Lí imparerà che le cose
che gli hanno insegnato a scrivere sono semplicemente false.
Un’ultima cosa.
Il nostro Autore dichiara entusiasta: “Al tempo di Gerolamo,
nelle chiese di Roma l’Amen rimbombava come un tuono dal cielo.
I fedeli approvavano con slancio, perché avevano compreso bene quanto
il presidente dell'assemblea aveva detto a Dio Padre in nome loro.”
Ecco, questa retorica sfacciata ha davvero dell’incredibile.
Sorvoliamo sulle falsità e facciamo finta di trovarci
a Roma, al tempo di Gerolamo (sappiamo ormai che all’Autore piacciono queste
finte ricostruzioni). Abbiamo 10 anni, ascoltiamo le parole del presidente
(neanche questo esisteva allora… ma, pazienza!) e presi da entusiastica
condivisione gridiamo: Amen. L’indomani, stessa cosa: Amen.
Passa un anno, uguale: Amen.
Passano dieci anni e noi, a vent’anni, ancora a Roma,
in chiesa, nel sentire le parole rivolte a Dio a nome nostro, sorpresi,
ammirati e presi da entusiastica condivisione gridiamo: Amen.
Passano vent’anni: Amen.
Passano quarant’anni e ancora sorpresi e ammirati, sempre
presi da entusiastica condivisione, approviamo con slancio e urliamo: Amen.
È incredibile che si possa anche solo pensare una
cosa del genere: lo slancio dei fedeli che aderiscono alle stesse parole
che il celebrante rivolge a Dio Padre ogni giorno per anni, per secoli,
alle parole che conoscono a memoria, alle parole che ogni volta condividerebbero
con entusiasmo, approvandole e tuonando: Amen!
Basterebbe solo questo a dare l’idea del vero significato
dell’articolo che abbiamo esaminato.
Ma non possiamo passare sotto silenzio la perla che
l’autore ci propina alla fine del suo articolo: “Così dev’essere
per la liturgia: la sua spina dorsale dev’essere umana, deve saper comporre
armonicamente fedeltà alla Tradizione e adattamento alle presenti
situazioni di una Chiesa in perenne divenire.”
Ci permettiamo di dissentire fortemente: la spina
dorsale della liturgia dev’essere divina, non umana, non ce ne facciamo
niente di una liturgia la cui struttura portante è l’umanità.
Non solo, ma ci rifiutiamo di accettare l’idea che il
nerbo del nostro credo e quello che la stessa Sacrosanctum Concilium
chiama “la fonte e il culmine” della vita della Chiesa sia qualcosa di
umano.
Cosí come ci rifiutiamo di accettare l’idea
che la Chiesa sia in perenne divenire. La Chiesa è Santa, non
soggetta ad alcuna mutevolezza, essa è il Corpo Mistico del Signore
che l’ha collocata nel mondo soggetto al divenire perché fosse Pietra
fondante e Roccia indefettibile per i figli di Dio.
È il mondo che diviene continuamente sotto
l’imperio del suo Principe, che è il Demonio, non la Chiesa.
È il mondo che diviene, muta, fraziona e disperde,
e in un mondo siffatto la Chiesa è posta dal Signore perché
sia, ferma, immutabile, unificante e adunante tutti gli esseri per ricondurli
al Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo.
Non ci consola affatto, anzi, ma resta pur sempre importante
considerare che, in qualche modo, un articolo di questo tenore è
rivelatore dello stato di disagio e della condizione di difficoltà
in cui si stanno venendo a trovare sempre piú i fautori del nuovo
e dell’ammodernamento.
Il linguaggio usato dimostra una grossa debolezza argomentativa,
poiché per un argomento cosí serio come la liturgia della
Chiesa non è possibile tessere elogi sperticati, dal lato della
riforma liturgica, e superficiali denigrazioni dal lato della liturgia
millenaria della stessa Chiesa.
Articoli come questo rivelano che le argomentazioni
di coloro che in questi anni hanno introdotto, anche senza volerlo, la
sovversione nella Chiesa e nella Religione, sono ridotte al lumicino.
Quarant’anni fa puntavano tutto sul futuro, a breve o
a media scadenza, assicurando cose immaginifiche. Quarant’anni dopo si
ritrovano a dover fare i conti con gli abusi, con la perdita della fede,
con le chiese vuote, con i presbiteri trasformati in emicicli giacobini,
con la perdita di autorità e di credibilità; e cercano di
nascondersi dietro la denigrazione della liturgia bimillenaria della Chiesa.
Tutto questo ci rattrista e ci fa pensare che sia in
atto una nuova offensiva contro quella parte del corpo ecclesiale che non
intende piú soggiacere a tanto sfacelo, che intende reagire recuperando
quanto nella Chiesa è stato accantonato e vilipeso in termini di
pastorale, di catechesi, di liturgia e di dottrina.
Ma, con l’aiuto di Dio, è anche possibile sperare
che si tratti di un “colpo di coda” che preluda al crollo dell’illusione,
come capita per tutte le cose meramente umane e mondane, e in questo caso
a noi spetta non abbassare le braccia, anzi, spetta alzare la voce, per
contribuire affinché il crollo si verifichi prima possibile.
Dio lo voglia!
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