CRISTIANESIMO E GIUDAISMO
Riportiamo qualche passo del libro di mons. FRANCESCO SPADAFORA, Cristianesimo
e Giudaismo (ed. Krinon, Caltanissetta, 1987).
[Partendo dal documento conciliare Nostra Ætate,
mons. Spadafora fa notare come esso sia stato concepito sulla base delle
pressioni esercitate dagli ambienti ebraici.]
«Papa Giovanni XXIII nel giugno 1960 riceve in udienza l'israelita
Jules Isaac che dinanzi a lui perora la causa del suo popolo, secondo le
tesi già formulate nel suo libro Gesú e Israele, e
lo manda dal Card. Bea. Incominciano cosí i contatti con i rappresentanti
piú noti del giudaismo; e nell'udienza del 18 sett. 1960 riceve
dal Pontefice l'incarico di preparare per il Concilio un documento sulla
delicata materia. Era l'inizio del cammino che dopo cinque anni portera
alla Dichiarazione conciliare.
«Per superare la diffidenza, le difficoltà manifestatesi
e per ben disporre favorevolmente i Padri, il Card. Bea preparò
per La CiviltàCattolica un suo ampio articolo dal titolo
impegnativo "Gli Ebrei sono deicidi e maledetti da Dio?". L'articolo
doveva simultaneamente apparire sulla rivista tedesca Stimmen der Zeit
e sulla Nouvelle Revue Théologique di Lovanio. La Segreteria
di Stato però non ne ritenne opportuna la pubblicazione. Il Card.
Bea, tuttavia, cedette all'insistenza del direttore della rivista tedesca
e l'art. vi apparve egualmente sotto la firma del P. Ludovico von Hertling,
s. j., già prof. di Storia ecclesiastica alla Pontificia Università
Gregoriana.
«Quindi, l'articolo, tradotto in italiano e fatto stampare da
un industriale di Genova, anche in varie lingue, fu distribuito ai Vescovi,
al momento opportuno per la presentazione dello schema in Concilio. E il
suo influsso fu notevole e davvero determinante.» [p. 11-12]. »
[Che cosa argomentava il Card. Bea?]
«Promulgato il testo definitivo (28 ott. 1965) della Dichiarazione
Nostra
Ætate, il Cardinale Agostino Bea, l'artefice primario di
essa, - come diremo, tutto zelo per il giudaismo -, ne scrisse in difesa,
cercando di rispondere punto per punto alle argomentazioni ed ai testi
addotti da S. Ecc. Carli nell'art. su citato [La questione giudaica
davanti al Concilio Vaticano II, in Palestra del Clero, 44,
1965, pp. 185-203]. Il popolo ebraico nel piano divino della salvezza,
in La Civiltà Cattolica, 2769, 6 nov. 1965, pp. 209-229.
«Non si parli di "deicidio": “Non vi è dubbio che
la condanna e l'esecuzione di Cristo costituiscono in se stesse,
oggettivamente parlando, un crimine di deicidio, perché Gesú
è Uomo-Dio”. Ma “i capi del Sinedrio e il popolo"
non conoscevano “chiaramente la natura umano-divina del Cristo”.
In essi c'era “una certa ignoranza: questa riguardava in
primo luogo il punto piú difficile a comprendersi per un ebreo,
cioè la divinità di Gesú”. (I corsivi sono
nel testo).
«E il Card. Bea cita le parole di s. Pietro, “il quale,
dopo aver rimproverato ai giudei di Gerusalemme: ‘Voi uccideste l'autore
della vita’, quasi subito aggiungeva: ‘Ora, o fratelli, io so che voi operaste
per ignoranza, come anche i vostri capi’” (Act. 3, 15-17).
Cita s. Paolo (Act. 13, 27); e le parole di Gesú: ‘Padre,
perdona loro, perché non sanno quel che fanno’ (Lc.
23, 34). “Non è possibile - afferma il Card.
-, nel breve spazio concessoci, istituire una esauriente interpretazione
di questi testi” (p. 213). La stessa osservazione o ammissione
fa a p. 217, a proposito dei testi degli Atti degli Apostoli e dei
brani evangelici citati (p. 215 s.) per la domanda "responsabilità
collettiva del popolo ebraico?" da lui negata: “Naturalmente per
rispondere in modo esauriente al nostro quesito bisognerebbe istituire
un'interpretazione particolareggiata dei singoli testi, il che non è
possibile nello spazio concessoci”.
«Sicché abbiamo soltanto i testi citati, presi fuori dal
loro contesto, con l'interpretazione che l'Eminente Autore loro attribuisce,
per le sue tesi.
«Le parole di Gesú in croce - commenta l'Autore - sono
“una vera scusante a favore degli ebrei. I testi citati però
non si possono considerare come un'assoluzione propriamente detta, e tanto
meno completa, dei responsabili della morte di Gesú; per esempio,
la domanda di perdono di Gesú non avrebbe ragione di essere, se
ci fosse stata una ignoranza completa e quindi una completa assenza di
colpa”. Ignoranza dunque della divinità di Gesú.
Eppure i testi evangelici, inequivocabilmente, attestano una grave ignoranza
"colpevole": si sono rifiutati di credere. E implicitamente lo ammette
il Card. Bea con la seguente precisazione: “Con ciò non vogliamo
certo negare l'efficacia delle sufficienti dichiarazioni di Gesú
riguardo alla sua divinità ed il valore delle prove fornite in favore
di essa. Ma da questa sufficienza - aggiunge - segue solo che l'ignoranza
poteva essere colpevole…” (p. 214).
«Basti qui ricordare le parole di Gesú: Se non fossi
venuto e non avessi loro parlato, non avrebbero colpa; ma ora non hanno
scusa per il loro peccato. Se non avessi tra loro compiuto opere, che nessun
altro ha fatte, non avrebbero colpa; ma ora, benché abbiano veduto,
pure odiano e me e il Padre mio. (Giov. 15, 18-25). E nel
c. 10 ai Romani, s. Paolo afferma la stessa cosa per "i Giudei responsabili
della loro riprovazione" (A. Vaccari), nei vv. 18-21. “Rimane
- continua il Card. Bea - la responsabilità piú generica
della condanna dell'innocente, conosciuto come un Maestro santo e magari
anche come profeta, anzi come il profeta, il Messia promesso”. È
essenziale ora stabilire “se in una tale responsabilità è
coinvolto il popolo e nel caso di risposta affermativa, in quale senso”.
E ammonisce: “È importante conservare la piú assoluta
fedeltà al racconto dei Vangeli”. [pp. 8-10] »
[Dopo aver citato i testi proposti del Card. Bea (Act. 2, 22
s.; 2, 36 s.; 3, 15; 5, 30; 7, 52; 13, 27; I Thess. 2, 14 ss.),
mons. Spadafora fa notare.]
«…Non c'è dubbio, qui s. Paolo parla "degli ebrei in generale".
Tuttavia il Card. restringe ai soli abitanti di Gerusalemme gli altri
testi precedenti; ma arbitrariamente e in contrasto con tutto il contesto:
s. Pietro, ad es., in Act. 2 parla ai Giudei convenuti a Gerusalemme
da tutte le regioni dell'impero romano: cf. vv. 5-13, ‘Giudei d'ogni
nazione…; Parti…; abitanti della Mesopotamia, ecc.’. Cita quindi, per
il minacciato castigo di tutto il popolo: la parabola dei vignaioli Mt.
21, 43-46; il lamento di Gesú su Gerusalemme Lc. 19, 43 s.;
e l'annunzio del castigo che cadrà "su questa generazione" Mt.
23, 31-36. E si chiede: "Responsabilità collettiva del popolo
ebraico?". La sua risposta è stranamente negativa; in aperto
conflitto con i testi, restringe ogni responsabilità ai capi ed
a pochi abitanti di Gerusalemme: nega il principio della solidarietà
collettiva.
«Ha avuto buon gioco, S. Ecc. Carli (in Palestra del Clero,
15 marzo 1966, pp. 333-355, e 1 aprile, pp. 398-419: Chiesa e Sinagoga),
nel documentare la validità essenziale del suo primo articolo [La
questione giudaica davanti al Concilio Vaticano II, in Palestra
del Clero, 44, 1965, pp. 185-203], nella fedeltà alla interpretazione
dei testi della Sacra Scrittura; e, comunque, nel rilevare gli arbitri
e l'infondatezza delle deduzioni tratte dal Card. dai medesimi testi. Quanto
alla validità del principio della "responsabilità collettiva"
in atto in tutto il Vecchio Testamento, "per cui l'intero popolo risponde
dinanzi a Iahweh della colpa dei suoi rappresentanti", egli cita il mio
studio, presentato come tesi di laurea, sotto la direzione dei miei professori,
A. Bea e A. Vaccari, Collettivismo e Individualismo nel Vecchio Testamento,
Rovigo, 1953, pp. XXIV - 398, e il mio commento ad Ezechiele, ed.
Marietti, 1951, p. 10 s.; 152 s. (vedi art. cit. 1 apr. 1966, p. 405).
“Soltanto il principio della responsabilità collettiva può,
in particolare, dar sufficiente ragione del fatto che il rimprovero degli
Apostoli venga rivolto anche ai Giudei di altre città palestinesi
o della diaspora, anzi persino ai proseliti: e forse a gente che per la
prima volta sentiva parlare di Gesú” (n. 408). Ed in nota
(45), “Arbitrariamente il Baum, op. cit., restringe Act. 2, 14 agli
abitanti della Giudea (p. 277, nota 2) e Act. 2, 40 ai Gerosolimitani (p.
134)…" [pp. 10-11].
«[…]
«Il libro [di Jules Isaac] fu tradotto in italiano dalla signora
Ebe Finzi Castelfranchi: Gesú e Israele, ed. Nardini, Firenze,
1976, pp. 461; dalla nuova edizione francese del 1970.
«Il grosso volume, dopo la Premessa de L'Amicizia ebraico-cristiana
di Firenze (p. 5), reca la Presentazione dell'edizione italiana
(pp. 7-10), ad opera del domenicano P. Pierre-M. de Contenson, segretario
della Commissione per le relazioni religiose con l'ebraismo; e la Introduzione
(pp. 11-16) del prof. Albert Soggin della Facoltà Valdese di Teologia.
Il Padre domenicano tesse l'elogio di “questa opera… un vero e proprio
'classico' fra quelle opere che hanno contribuito all'instaurazione del
dialogo ebraico-cristiano”. E ne fa espressamente la fonte “degli
insegnamenti di Nostra Ætate e degli Orientamenti del ° dicembre
1974 da parte delle autorità centrali della Chiesa Cattolica”.
«La fonte comune al Baum e al Card. Bea è appunto questo
libro di Jules Isaac.
«Il prof. Soggin, invece, fa anche cenno, nella sua Introduzione
ad “elementi meno positivi” presenti nel libro: “La problematica
dell'Autore - scrive ad es. a p. 13 ss. - è quella della guerra
e parte quindi dalla spinta traumatica, sul piano generale come su quello
personale, prodotta dai campi di sterminio”; … nei quali “si trovavano
anche migliaia di cristiani”.
«Per comodità dei lettori, riportiamo qui brani significativi
del lungo accurato esame critico fatto dal ben noto esegeta il P. Pierre
Benoit nella recensione al libro dell'Isaac, nella prestigiosa Revue
Biblique, 56 (1949), pp. 610-613.
«”Israele - sintetizza P. Benoit - non ha
rigettato Gesú; Gesú non ha riprovato Israele; l'idea di
un 'deicidio' commesso dalla massa del popolo giudaico e che l'avrebbe
votato al castigo di una vita errante tra i popoli, è un mito inventato
dalla teologia cristiana e che non è conforme alla realtà
della storia; disgraziatamente essa è all'origine di un antisemitismo
secolare e sarebbe tempo che la Chiesa reprimesse queste affermazioni che
han causato e causano le persecuzioni di giudei innocenti…; questa è
la tesi difesa in questo libro da Jules Isaac. Egli la sviluppa in 21 proposizioni
distribuite in quattro parti”. Quindi passa all'analisi dei punti
piú significativi. Le prime proposizioni "sfondano una porta aperta";
tutti sono d'accordo: Gesú è nato giudeo, da una madre giudea…
La nona proposizione (o nono argomento della ed. it., pp. 68-89) invece
afferma che Gesú non ha mai sognato di abrogare la legge mosaica.
“Col sacrificio della Croce - conclude il P. Benoit la sua
risposta - Gesú ha soppresso la Legge, come insegna magnificamente
san Paolo (particolarmente cfr. Gal. e Rom.), e, quando la Chiesa primitiva
ha sancito tale affermazione per la sua universalità, l'ha fatto
sotto l'azione dello Spirito Santo, che non è altro che lo Spirito
di Gesú: que M. Isaac veuille bien accepter cette vue 'theologique',
essentielle à la foi chrétienne” [che il sig. Isaac
accetti di buon grado questa veduta 'teologica', essenziale per la fede
cristiana].
«Ancora: non è vero che "la massa del popolo giudeo" ha
rigettato Gesú, per la buona ragione che la maggioranza di questo
popolo si trovava fuori della Palestina e che quelli che si trovavano in
Palestina, nella maggior parte, sentirono parlare di Gesú in maniera
indiretta e molto vaga (undicesimo argomento, pp. 107-111). Furono i capi,
i componenti del Sinedrio, che vollero la morte di Gesú a dispetto
della simpatia delle folle per Lui (pp. 112 e ss.). Cfr. l'art. del Card.
Bea e la Dichiarazione Conciliare.
«Ma questi capi - chiede il Benoit - non rappresentavano Israele?
Il sig. Isaac lo nega. A torto. “Essi di fatto detenevano l'autorità
spirituale d'Israele (Mt. 23, 2). La fable, si fable
il y a, - continua a ragione con forza il P. Benoit - n'est-elle
pas dans cette histoire qu'on veut nous faire croire d'un peuple juif conquis
et enthousiasmé par Jésus, mais dépouillé malgré
lui de ce Prophète par un clique de politicards e de faux dévots,
agissant sans mandat et contre ses intentions? [La favola, se vi
è, non è proprio costituita da questa storia che ci si vorrebbe
far credere di un popolo giudaico conquistato ed entusiasmato da Gesú,
ma suo malgrado privato di questo Profeta da una cricca di politicanti
e di falsi devoti, operanti senza alcun mandato e contro le intenzioni
del popolo?]. Ma come spiegare allora che il popolo giudaico una
volta passato il primo momento di sorpresa, non abbia aderito a questo
caro Profeta che aveva ora l'aureola del Martire? Come spiegare che esso
abbia ratificato, completamente, in pieno, la sentenza dei suoi capi, opponendo
dappertutto, e questa volta mediante la massa dei suoi membri, in Palestina
e nella Diaspora, questa resistenza feroce alla Chiesa nascente, continuando
nei discepoli di Gesú l'opera di persecuzione a morte?”
(p. 610 s.).
«Un'altra ragione addotta dallo Isaac, per cui il popolo giudaico
non ha potuto rigettare il Messia Gesú e commettere un 'Deicidio',
6 che esso non ha visto in Lui il Messia e ancor meno il Figlio di Dio
(vedi ed. it., pp. 147-189). Lo sostiene contro tutti i piú autorevoli
esegeti cattolici e protestanti, usando degli Evangeli sinottici ad usum
delphini e negando ogni valore all'Evangelo di san Giovanni. Pur limitandosi
ai sinottici, il P. Benoit cosí conclude: "Ce que personne
ne peut ignorer, c'est qu'il [Gesú] se dit Envoyé de Dieu,
qu'il le prouve per ses œuvres… [Ciò che nessuno può
ignorare è che Egli si dichiarò Inviato di Dio, e lo
provò con le sue opere] La folla giudaica che l'ha conosciuto
non ha potuto ignorarlo, ma volendo seguirlo quando si aspettava un trionfo,
l'ha abbandonato quando ha visto la croce. Ciò non hanno ignorato
soprattutto i capi giudaici, ma non hanno voluto saperne di un Maestro
nuovo e di una vita nuova aperta a tutti. Abbandonato dalla folla, rigettato
dai capi, Gesú è stato veramente respinto dal suo popolo,
il popolo giudaico, anche se, o, piuttosto perché, questo popolo
non ha voluto rinunciare a sé per credere in Lui” (p. 612).
«[…]
«“Il ressort bien des quatre évangeles que, si les
Romains ont ratifié et exsécuté la sentence de mort
de Jésus, c'est bien du côté des Juifs qu'elle est
venue” (Benoit, p. 612) [Dai quattro Vangeli si comprende chiaramente
che, se i Romani hanno ratificato ed eseguito la sentenza di morte di Gesú,
questa sentenza è venuta certamente da parte degli Ebrei].
«Concludendo, il P. Benoit rileva che J. Isaac “parla di
Gesú con un rispetto e una ammirazione che toccano il cuore cristiano.
E fa voti che i cristiani ripetino le parole di Gesú: ‘Padre, perdona
loro, essi non sanno quello che fanno’. Mais cette prière même
maintient en toute justice que leurs pères ont ‘fait’ quelque chose
de mal et qu'ils ont besoin de ‘pardon’. Ce pardon consistera pour eux
à retrouver, par la misericordie du Père, cette grâce
du vrai Messie Jésus qu'ils ont refusée quand elle leur était
offerte”. (p. 613) [Ma questa stessa preghiera conferma giustamente
che i loro padri hanno fatto qualcosa di male e che hanno bisogno di perdono.
Questo perdono consisterà nel ritrovare, con la misericordia del
Padre, quella stessa grazia del vero Messia Gesú che rifiutarono
quando venne loro offerta].
«Del P. Benoit ancora sono le critiche sostanziali al libro del
P. Gregory Baum, The Jews and the Gospel, 1961 - già cit.
- nella lunga recensione in Revue Biblique, 71 (1964), pp. 80-90.
«Va infine notata la trattazione che del "problème redoutable"
fa una giudea convertita, la sig.ra D. Judant, Les deux Israël.
Essai sur le mystère du salut dd'Israëlselon l'economie des
deux Testaments, ed. du Cerf, Paris, 1960, pp. 249. Cfr. la recensione
del P. Pierre Benoit in Revue Biblique, 68 (1961), pp. 458-462.
“Rifiutando Gesú, Israele s'è diviso in due; la parte
che ha accettato il Cristo è divenuta la Chiesa, il vero Israele,
compimento del V. T. L'altra parte, che rifiutato il Cristo, con un peccato
'collettivo', è l'Israele infedele, che ha perduto la sua elezione,
i suoi privilegi, come gruppo è al di fuori della salvezza, come
gruppo s'intende, perché ci è ignota la responsabilità
di ciascun'anima individuale.” Interpreta quindi Rom. 11
di una conversione progressiva dei singoli, e non necessariamente della
totalità dei giudei.
«“Sarebbe illusorio e falso - scrive il Benoit,
p. 459 - pretendere che la seconda elezione del 'nuovo Israele' ne
resti intatta (per il giudaismo) e che l'Israele attuale conservi proprio
tutti i suoi 'privilegi', come un altro 'popolo di Dio', parallelo alla
Chiesa, dal quale questa dovrebbe attendere l'integrazione per disporre
infine di tutti i suoi mezzi di salvezza”. La predilezione d'amore
da parte di Dio, nel passato d'Israele, influisce tuttavia sul futuro del
suo destino; assicura alla sua conversione una risonanza particolare: se
Dio si rallegra per il ritorno del peccatore (Lc. 15, 7) e del figliol
prodigo (Lc. 15, 32), cosa non sarà di questo prodigio: è
il primogenito che riprende il suo posto nel focolare! (Rom. 11, 15)…
«Pertinente è l'osservazione della Judant a p. 152: “La
carità è inseparabile dalla verità, e noi (cristiani)
abbiamo un dovere di verità da compiere”.
«Spetta ad una sana esegesi, scevra da ogni accenno polemico,
compiere questo dovere di verità nella carità.… [pp. 20-23].
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