LA NUOVA LITURGIA E L'ABOLIZIONE DEL LATINO
(6/97)
Tra bugie e mezze verità
La gerarchia cattolica prova a ripensarci
Alla conferenza stampa nella quale il card. Ratzinger ha presentato
la pubblicazione di due suoi nuovi libri, La Stampa del 16 aprile
1997 ha dedicato due articoli: uno a firma di Domenico Del Rio e un altro
di Marco Tosatti.
Due articoli sullo stesso argomento?
In realtà, mentre il secondo presentava un taglio prettamente
informativo (posto a pag. 16), il primo, di Del Rio, si assumeva il compito
di "insinuare" qualche chiarimento, soprattutto in ordine al problema della
"nuova liturgia" (posto a pag. 1).
Questa questione della "nuova liturgia" è talmente scottante,
per molti cattolici moderni, che sentono subito il bisogno di rettificare
anche quando il Prefetto dell'ex Sant'Uffizio si decide, finalmente, ad
esprimere tutte le sue perplessità circa la sorprendente "innovazione"
sancita da Paolo VI.
Insomma, a certi cattolici non va giú il fatto che la gerarchia
(foss'anche il Papa) incominci a pentirsi degli errori commessi negli anni
'60.
Quando il card. Ratzinger dice che la "nuova liturgia" «ha
comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze
potevano essere solo tragiche», il nostro articolista si
affretta subito a precisare che il Prefetto dell'ex Sant'Uffizio è
un esteta, un intelletuale, per di piú tedesco, e si sa… i tedeschi
sono degli inguaribili romantici, quindi si comprende come il giudizio
del card. Ratzinger, basato in fondo su una visione culturale ed ecclesiastica
«aristocratica», sia viziato benevolmente da una preoccupazione
«culturale»: oh! com'era bello il latino di una volta! Che
peccato averlo messo da parte!
Non si comprende bene se l'articolista non abbia capito il senso della
preoccupazione del card. Ratzinger o se, proprio per averla capita, fa
subito opera di "depistaggio".
Già altre volte il card. Ratzinger ha avuto modo di esprimere
le preoccupazioni che ha in comune con molti altri prelati, circa i guasti
operati in seno al corpo dei fedeli ed alla loro reale adesione alla S.
Messa dalla introduzione del Novus Ordo. Ora, tali
preoccupazioni, se fossero davvero di ordine "culturale", non potrebbero
impensierire piú di tanto la gerarchia, soprattutto in relazione
alla tenuta della Fede da parte dei fedeli: è chiaro allora che
i fondamenti del problema sono di ben altro ordine.
Innanzi tutto è opportuno ricordare che il Novus Ordo
si chiama cosí proprio perché la S. Messa in latino non è
stata mai abolita: si tratta qui di una clamorosa e malevola falsità
diffusa ad arte da chi ha sempre avuto interesse a smantellare la liturgia
della Chiesa, tutta la liturgia, non solo quella di S. Pietro o di San
Pio V o di San Pio X.
Intendiamo dire che, ancora oggi, il Papa celebra in latino, che ogni
mattina la Radio Vaticana trasmette la S. Messa in latino, che tutti i
Messali ufficiali della Santa Sede sono redatti in primis
in latino, che il latino è ancora la lingua ufficiale con la quale
vengono promulgati i documenti ufficiali della Sede Apostolica, ecc.
Chi si ostina a dichiarare che il latino è stato abolito o è
uno che non sa neanche di che parla o è uno che mente sapendo di
mentire.
Cosa diversa è la constatazione che i Vescovi e i presbiteri
celebrino la S. Messa quasi esclusivamente in volgare, e cioè nelle
lingue locali. È proprio da qui che nasce la preoccupazione di quella
parte piú attenta e responsabile della gerarchia. Quello che doveva
essere un uso particolare è divenuto l'unico ammesso, con l'implicita
e mai dichiarata esclusione della lingua latina e del canto gregoriano
dalla liturgia. Preoccupazione che è legata, non tanto all'abbandono
della lingua liturgica in sé, quanto al fatto che tale abbandono
è la conseguenza di una forma mentale che vede nella celebrazione
di tutta la liturgia un'azione "personale" ed "umana", non piú un'azione
che scaturisce dalla "donazione" divina.
In parole povere, la liturgia non è, e non è mai stata
e non potrebbe essere, l'espressione del sentimento del fedele nei confronti
di Dio, ma l'adempimento da parte del fedele di un suo dovere nei confronti
di Dio, che egli deve esprimere conformemente agli stessi insegnamenti
divini. Il Pater noster, che lo si reciti in latino o in
volgare, non è una qualsiasi preghiera che il fedele rivolge spontaneamente
a Dio, bensí "la" preghiera con cui Dio Figlio ci "ha insegnato"
a rivolgerci a Dio Padre: non v'è nulla da inventare, nè
da innovare, nè da adattare, nè da discutere; non v'è
nulla di culturale, nè di estetico, nè di aristocratico.
Il Pater noster è la preghiera con cui "dobbiamo"
rivolgerci a Dio. Cosa che non esclude minimamente la preghiera personale:
solo che la liturgia è la preghiera della Chiesa, non di uno qualsiasi
di noi, preghiera con cui l'intero popolo di Dio rende grazie alla Sua
Gloria Immensa nei modi e con le formule suggerite da Dio stesso.
Non solo, ma la liturgia della Chiesa non è altro, e non potrebbe
essere nient'altro, che una parte della liturgia complessiva che il creato
celebra "senza fine" per inneggiare alla Gloria dell'Altissimo, ripetendo
"ad una voce", con i Beati, con i Santi, con i Cherubini, i Serafini e
tutte le Milizie Celesti l'inno alla Gloria di Dio tre volte santo: Sanctus,
Sanctus,
Sanctus…
Anzi, l'inno alla Gloria di Dio, da sempre, si è raccomandato
di "cantarlo" oltre che recitarlo: e questo è il fondamento del
canto gregoriano, non la piacevolezza estetica e lo stile culturale.
Si comprende, dunque, come le preoccupazioni della gerarchia siano derivate
dalla constatazione che il Novus Ordo, non solo "rompe" con
tutto questo, ma inaugura la stagione dell'anarchia liturgica, della "personalizzazione"
della liturgia e quindi della religione, dell'esclusivismo e dell'egosimo
cultuale, della minimizzazione e della super-umanizzazione della Fede,
della intolleranza per l'autorità della Chiesa e, inevitabilmente,
del rifiuto dell'autorità divina.
Per quanto possa meravigliare qualcuno, e per quanto solo alcuni "integralisti"
si permettano di esprimersi in questi termini, non v'è dubbio che
le preoccupazioni della gerarchia si giustifichino solo se basate sulla
prospettiva di rischi molto grossi, di portata "universale", poiché,
diversamente, si potrebbe solo trattare delle preoccupazioni pastorali
di un povero prete di campagna, e non crediamo che sia questo il caso del
Prefetto dell'ex Sant'Uffizio card. Ratzinger.
Da quanto detto, si comprende che oltre ai problemi sollevati dall'abbandono
della lingua liturgica, che per la sua "universalità" aiutava i
fedeli a sentirsi "membra di un solo corpo", ciò che preoccupa la
gerarchia sono le implicazioni di ordine dottrinale, che comportano la
messa in discussione della stessa Fede.
Intendiamo dire che, da qualche anno a questa parte, è divenuto
piú che evidente che i preti, per esempio, non vestono piú
la talare, non per un calcolato proposito di "avvicinarsi" ai costumi dei
fedeli, ma perché, molto semplicemente, non credono piú nel
loro stato di ministri di Dio, e si reputano solo degli assistenti sociali.
In buona fede, beninteso, ma è proprio questa loro buona fede "umana"
che rivela tutto il rischio della perdita della Fede in Dio.
I fedeli non conoscono piú le parti della S. Messa, nonostante
da quasi trent'anni la si celebri in volgare, e questo non perché
si sia ridotta la frequenza alle funzioni liturgiche, ma perché,
molto semplicemente, anche coloro che vanno in chiesa tutti i giorni non
credono piú che la S. Messa sia un'azione trascendente in cui opera
realmente la Presenza Divina, ma ormai hanno imparato a credere che si
tratti di una particolare preghiera che si recita in Chiesa la domenica,
per dar modo a loro di socializzare meglio e alla Chiesa di esercitarsi
nella continua azione omiletica a carattere morale e sociale. In buona
fede, certo, ma la stessa buona fede che li induce a credere che vale molto
di piú la preghiera che ognuno dice a casa sua, a suo piacimento,
per i suoi bisogni e di quelli del vicino, cosí da instaurare con
Dio un rapporto piú intimo e piú reale; la stessa buona fede,
quindi, che ha permesso a molti fedeli di non sapere piú che cosa
sia la Fede, la Chiesa militante, la Chiesa Trionfante, il Corpo Mistico
di Cristo, il Popolo Santo, ecc.
Non piú la religione di nostro Signore Gesú Cristo, ma
un numero indefinto di religioni personali, ove si intrecciano i piú
diversi motivi contingenti e mondani, ed ove si pongono in un angolo da
"museo" i motivi divini.
Nessuno ha ancora abolito gli articoli di Fede, i dogmi, gli insegnamenti
di nostro Signore, ma tutti sono liberi di interpretarli a loro piacimento,
secondo i propri bisogni, a proprio uso e consumo: cosí che dal
Corpo Mistico di Cristo, dalla Santa Sposa del Signore, ci stiamo velocemente
avviando verso le società di mutuo soccorso, i gruppi di solidarietà
umana e i movimenti misticheggianti; in seno ai quali il prete non è
nemmeno primus inter pares, ma un libero professionista del
"volemose bene".
Che se ne fa un popolo cosí della Chiesa e della liturgia?
Che se ne fa un prete cosí della Chiesa e della liturgia?
Qualcuno potrebbe scandalizzarsi per il fatto che ci siamo permessi
di "spiegare" che cosa pensa il card. Ratzinger, e potrebbe obiettare che,
di fatto, stiamo strumentalizzando una qualche battuta raccolta su una
pagina di giornale, al fine di far dire al card. Ratzinger ciò che
non ha mai neanche pensato.
È possibile, può darsi pure che sia cosí: ma siamo
pronti a giurare che lo abbiamo fatto in buona fede!
Per quanto riguarda poi la terminologia usata dall'articolista, pur
se avvezzi ormai alle piú stravaganti prestazioni linguistiche di
certi professionisti della penna, facciamo notare che vi è una bella
differenza fra "funzioni liturgiche" o "riti" e «cerimonie liturgiche»,
come le chiama impropriamente il nostro redattore. Non sarebbe male che
un "commentatore" di cose di Chiesa si tenesse informato sul significato
delle stesse.
D'altronde, la superficiale informazione di Del Rio sembra davvero
essere parecchio estesa, visto che scambia il «famoso messale di
Pio V» con il Messale di S. S. Giovanni XXIII, per di piú
diffondendo i semi della confusione che possiede in proprio.
Innanzi tutto, quando Paolo VI decise di fare adottare il nuovo Messale,
quello in uso fino ad allora non era il Messale di San Pio V (e non "Pio
V", come scrive il nostro: dimostrando di non conoscere neanche i Santi
della Chiesa), o per lo meno non era "solo" il Messale di San Pio V, o
di San Pio X, ecc., ma era il Messale promulgato da S. S. Giovanni XXIII,
il papa del Concilio, che aveva cosí tanta intenzione di cambiarlo
che curò la nuova promulgazione, lievemente ritoccata rispetto a
quella di San Pio X, niente di meno che nel 1962… no, non nel 1662, ma
nel 1962, in pieno fervore conciliare.
Se abolizione c'é stata, e non c'é mai stata neanche
ad opera di Paolo VI, si tratterebbe dell'abolizione del Messale del Papa
del Concilio, con buona pace degli scalmanati fautori dello "spirito conciliare".
Considerato, poi, che il Messale di Giovanni XXIII non è stato
mai abolito, né il suo uso mai vietato, ne consegue che «papa
Wojtyla», come lo chiama l'articolista, non aveva alcun bisogno di
concedere liceità ad una cosa già lecita di per sé.
La verità è che, nonostante il Messale tradizionale di
S. S. Giovanni XXIII non fosse mai stato abrogato, né fosse mai
stata vietata la celebrazione della S. Messa secondo lo stesso Messale,
nel 1969 si volle fare in modo che "di fatto" si passasse ad una nuova
liturgia: interferendo non solo nei confronti del Messale, ma dell'intera
liturgia della Chiesa, fino ai piú semplici benedizionari; e l'operazione
venne condotta a colpi di "decreti", col beneplacito di tanti Vescovi e
con l'atto di ubbidienza di tanti altri, con l'intento prevaricatore di
molte curie vescovili e l'atto di ubbidienza di molti preti "sbigottiti"
al pari dell'allora mons. Ratzinger.
Tutti coloro che tentarono di opporsi al nuovo andazzo, palesemente
infirmato di mancanza di autorità, vennero votati all'ostracismo;
e qualcuno, come mons. Lefèbvre, anche scomunicato.
La realtà è che il Papa Giovanni Paolo II ha operato il
tentativo di aprire un varco in seno alla roccaforte progressista, concedendo
un "indulto" che sapeva bene non era necessario concedere, ma che gli serví
come mezzo per sollecitare i Vescovi al rispetto della volontà dei
fedeli che intendevano mantenere l'uso mai vietato degli antichi canoni
liturgici.
Tutti sanno che la sollecitazione "ufficiale" del Papa, ha incontrato
ed incontra la diffusa ostilità dei Vescovi progressisti, mentre
gli altri preferiscono non incrinare la "collegialità episcopale",
cosí che risulta falso quello che l'articolista ha cercato di suggerire
nella sua conclusione, e cioè che «a certe condizioni, si
possa usare ancora il famoso messale di [San] Pio V».
Forse l'articolista non sa che l'ostilità in questione è
tutta legata alla certezza che vi è, da parte dei Vescovi, circa
il rischio che la ridiffusione degli antichi libri liturgici e del loro
uso susciti un tale entusiasmo, soprattutto presso i giovani, da determinare
il necessario mutamento di rotta di tutte le pastorali elaborate in questi
anni e per la maggior parte fallite. Il rischio cioè che la Chiesa,
corum
populo, debba ritornare a privilegiare il "culto divino" a scapito
dell'ormai diffuso "culto umano", col quale si sono conquistati i galloni
sul campo un bel numero di Cardinali, di Vescovi e di Monsignori.
A Dio piacendo, è anche possibile che ciò accada!
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