EX VOLVERE: PROGRESSIONE
O REGRESSIONE?
(9/97)
Una delle suggestioni moderne piú perniciose, eppure piú
condivisa e dogmatizzata, è quella del progresso; il quale spesso
viene identificato con l'evoluzione, cosí che, in genere, i due
termini sono usati come fossero sinonimi.
Prendendo spunto dal senso proprio del termine "evoluzione",
cerchiamo allora di riflettere su questo aspetto notevole della mentalità
moderna che è al centro di tanti guasti e di tante confusioni.
Il termine "evoluzione" esprime essenzialmente l'idea di "svolgere"
(dal latino volvere), e tale svolgimento si intende compiuto
a partire da un dato punto (ex volvere). Ora, tale idea non
implica l'accezione che i moderni hanno dato al termine "evoluzione" (che
viene intesa come una sorta di "crescita"), poiché "svolgere da…",
una determinata cosa o una determinata azione, non significa affatto "accrescerla",
potrebbe significare benissimo anche "diminuirla" senza che il termine
"evoluzione" subisca la minima violenza.
Se ci si attiene al senso di "svolgere da…", ci si trova solamente
di fronte ad una cosa data che, invece di essere vista nel suo insieme,
viene vista nel suo "svolgimento". Ci si trova cioè di fronte al
fatto che l'"evoluzione" di una cosa e la cosa stessa sono identici, visti
soltanto da due punti di vista diversi. Dal che si comprende che non si
può legittimamente parlare né di "crescita" né di
"decrescita".
Se, a tutti i costi, si vuole sottolineare una differenza tra la cosa
iniziale e il suo svolgimento, si può solo notare che l'idea di
"svolgere da…" suggerisce la possibilità che tale svolgimento venga
percepito come se si attuasse al di fuori del punto iniziale: ex
volvere; il che implicherebbe, semmai, l'idea di distacco dall'origine,
con tutto quello che tale idea può contenere in termini di "perdita
delle origini".
Nulla autorizza a supporre, quindi, una equivalenza tra "evoluzione"
e "accrescimento".
La concezione tutta moderna dell'evoluzione è basata su di un
presupposto dato per scontato, niente affatto dimostrabile e del tutto
recente (gli ultimi tre secoli rispetto ai millenni precedenti), e cioè
che "all'origine" la cosa di cui si tratta sia incompleta e si vada completando
per via del suo svolgimento; nel corso del quale si andrebbero ad aggiungere
alla cosa stessa degli elementi che essa prima non conteneva, cioè
degli elementi al di fuori di essa, cosí che la cosa ne risulterebbe
accresciuta o arricchita.
Nel caso piú particolare dell'esistenza umana intesa nella sua
globalità (che è poi quello che qui ci interessa), si presupporrebbe
dunque che "all'origine" l'uomo (o l'umanità) sia incompleto e si
vada completando nel corso dello svolgimento della sua esistenza per mezzo
di elementi che ad esso si aggiungerebbero dal di fuori (che ne sarà
dell'uomo iniziale alla fine di un tale processo?).
Ora, se l'esistenza umana si fosse svolta in un modo siffatto, ciò
significherebbe che a partire dall'origine gli uomini, supposti "incompleti",
abbiano permesso, nella loro incompletezza, che dal di fuori si venisse
ad aggiungere qualcosa alla loro esistenza; ma allora non si potrebbe neanche
piú parlare di evoluzione umana, ma solo di continua trasformazione
di un qualcosa di iniziale in tante altre cose successive e diverse dall'iniziale.
Quando poi si volesse sostenere che un fenomeno del genere debba ritenersi
interamente riferito alla intelligenza umana e che quindi l'evoluzione
dell'esistenza sarebbe un prodotto di questa intelligenza, ci si troverebbe
di fronte ad una contraddizione: poiché dire che l'umanità
si evolve a partire dalla sua intelligenza è come dire che essa
"svolge" la sua esistenza a partire da una condizione di "completezza"
e non da una condizione di "incompletezza", visto che niente potrebbe accadere
che non sia già contenuto originariamente nella sua intelligenza.
Lo stesso ragionamento si può fare in relazione a qualunque aspetto
dell'esistenza: in relazione all'aspetto biologico, per esempio. L'embrione
umano "si evolve", e cioè "si sviluppa", per il semplice motivo
che contiene in sé tutto l'essere umano che poi sarà, e lo
contiene in tutte le sue varianti, fino al destino ultimo della morte del
corpo.
Proprio prendendo come esempio lo sviluppo biologico dell'essere umano,
si comprende anche come qualunque processo di "evoluzione" porti inevitabilmente
all'"esaurimento" dell'esistenza: quest'ultima infatti, "svolgendosi" a
partire da una condizione di completezza, per via del suo sviluppo va ad
esaurirsi, mai ad accrescersi; semmai il momento della sua maggiore "ricchezza"
sta all'origine, non certo alla fine dello svolgimento stesso.
Se prendiamo un rotolo di carta (e si potrebbe pensare, per esempio,
al "rotolo della Legge") è indubbio che originariamente il rotolo,
chiuso, contiene in sé tutto ciò che deve contenere; via
via che lo "svolgiamo", e cioè nel corso della "evoluzione" del
rotolo, non potremmo aggiungere nulla al rotolo stesso senza finire con
l'ottenere qualcosa di diverso da esso; e non potremmo sperimentarne il
contenuto senza tenere conto costantemente di tutto il rotolo, cosí
che via via che lo "svolgiamo" l'unica cosa che ci dà il senso di
questo svolgimento (o evoluzione) è la parte del rotolo svolto fino
ad allora, mentre l'unica cosa che ci dà il senso del "progredire"
dello svolgimento stesso è la parte del rotolo da svolgere. In altre
parole si può dire che l'evoluzione dell'esistenza, fino ad un dato
momento, è costituita dal suo svolgimento dall'origine fino a quel
momento, mentre la sua evoluzione futura, a partire da quello stesso momento,
è costituita da ciò che è contenuto fin dall'origine
e che non si è ancora "svolto"; tanto che l'evoluzione stessa può
solo considerarsi, in uno qualunque dei suoi momenti, come una presa d'atto
dell'esistente e mai come l'acquisizione di alcunché di nuovo.
A questo punto ci si potrebbe obiettare che, in ogni caso, la presa
d'atto dell'esistente può considerarsi come l'acquisizione di qualcosa
che fino ad allora non si conosceva, cosí che si ritornerebbe all'idea
che l'evoluzione corrisponde ad un accrescimento.
Tralasciamo quanto si potrebbe dire a confutazione di questo e di altri
ragionamenti simili, e ammettiamo che le cose possano anche guardarsi da
tale punto di vista; ne conseguono, però, due considerazioni che
si scontrano inevitabilmente con la concezione moderna dell'evoluzione.
La prima è che l'acquisizione della nozione del nuovo non aggiunge
nulla all'esistenza e, quindi, non può comportare nessun tipo di
variazione rispetto a quanto dato fin dalle origini; la seconda è
che ogni nuova acquisizione non può essere minimamente considerata
come un prodotto dell'azione umana, per esempio un prodotto dell'intelligenza
umana, in quanto che l'uomo non potrebbe acquisire niente di diverso da
ciò che è dato fin dall'origine.
Queste due considerazioni, tradotte in termini semplici, significano
che ogni cosa nuova acquisita dall'umanità non è altro che
una cosa già data, nei confronti della quale l'intervento umano
non può comportare alcuna variazione sostanziale.
Se, a questo punto, ci volessimo riferire all'insegnamento religioso,
ne conseguirebbe che l'uomo non ha la possibilità di aggiungere
sostanzialmente alcunché a quanto dato fin dalle origini, né
ha alcuna possibilità di cambiarlo, senza cambiare o aggiungere
qualcosa a sé stesso o alla sua esistenza, il che è impossibile,
per il semplice fatto che l'uomo non è la causa di sé stesso,
bensí l'effetto di una causa che sta fuori da lui (cfr. Matteo,
5, 18).
Se si tiene presente l'esempio del rotolo di carta che abbiamo fatto
prima, ci si trova di fronte ad un'altra complicazione.
Se l'evoluzione corrisponde semplicemente alla presa d'atto del contenuto
del rotolo, non si potrebbe pensare alla possibilità che l'uomo
compia questa presa d'atto in maniera immediata e spontanea se non a condizione
che egli ne "ri-conosca" il contenuto, e cioè a condizione che lo
"conosca prima", perché diversamente non potrebbe mai conoscerlo
per quello che realmente è, visto che lo ignora.
Se si prende un uomo qualsiasi e lo si pone di fronte ad una cosa che
non ha mai vista, è impossibile che egli ne comprenda il significato
e la funzione; al massimo somigliando la cosa nuova ad una da lui conosciuta
sarà portato a scambiare la prima per la seconda, considerando magari
questa una variante di quella.
Ne consegue che, nel corso dell'"evoluzione", l'intelligenza umana
o "riconosce" l'esistente o, via via che ne fa esperienza, ha bisogno di
qualcuno o di qualcosa che glielo spieghi o glielo ricordi. Diversamente
si troverebbe ad accumulare dati in modo improprio e confuso, traendone
delle conseguenze arbitrarie e scorrette, ma soprattutto non aggiungendo
altro alla sua ignoranza iniziale che confusione e nuova ignoranza.
Se si postula che l'esperienza umana parte da una condizione di iniziale
ignoranza (postulato moderno), si deve necessariamente ammettere che tale
ignoranza non può fondare alcuna conoscenza successiva: o l'umanità
nasce nella piena consapevolezza, che perde via via nel corso dell'evoluzione,
o nasce nell'ignoranza senza avere alcuna possibilità di conoscere
alcunché. Ora, nell'un caso o nell'altro l'idea moderna di evoluzione
non ha alcuna giustificazione: quindi è falsa.
Ciò che si può ragionevolmente ammettere è che
l'umanità non potrebbe svolgere la sua esistenza senza l'intervento
di una apposita guida: sia che ci si voglia riferire ad un processo di
"richiamo della memoria", sia che ci si voglia riferire alla possibilità
di acquisire il nuovo.
Volendo usare un linguaggio diverso, possiamo dire che quel rotolo
di prima è la Tradizione e la guida è la Rivelazione, entrambe
derivate dalla volontà di Dio che provvede a fornire all'uomo anche
le cose e gli individui che serviranno da supporti alle prime due (i riti
e i santi, per esempio) ai fini della comprensione umana.
Consideriamo adesso un altro aspetto dell'evoluzione, forse il piú
rilevante dal punto di vista della confutazione del dogma moderno del progresso
indefinito.
Dicevamo prima che ogni concetto di "svolgimento" implica necessariamente
l'idea di esaurimento, di compimento ultimo; ed è facile comprendere
come lo "svolgimento" del rotolo implichi l'idea della fine dello svolgimento
stesso. Ne consegue che la stessa esistenza umana (di un singolo uomo o
dell'intera umanità) si può svolgere solo in vista del suo
esaurimento, della sua fine o, se si vuole, del suo compimento. Nulla autorizza
legittimamente a supporre che l'esistenza dell'umanità, pur avendo
avuto un inizio, non avrà mai fine; e per quanto questa fine la
si possa allontanare nel tempo in maniera indefinita, resta il fatto che
in ogni momento del suo svolgimento ogni cosa è data "anche" in
vista di essa e, quindi, è cosí che dev'essere intesa e vissuta
l'esistenza.
Quest'idea della fine certa dell'umanità è inevitabile
che sia associata all'idea di esaurimento: esattamente come accade per
l'esistenza di un singolo uomo; e ogni esaurimento dell'esistenza significa
per l'uomo "spendere" tutto il suo patrimonio vitale fino alla consunzione.
Ogni altra concezione del destino dell'uomo e dell'umanità,
che pretendesse di supporre una crescita indefinita, sarebbe insostenibile,
contraddittoria e falsa.
Eppure oggi accade proprio questo.
*
* *
Per un cristiano tutte queste considerazioni devono trovare fondamento
nell'insegnamento religioso, altrimenti non corrisponderebbero al vero;
anzi, proprio partendo dall'insegnamento religioso si deve poter giungere
a queste considerazioni.
Se apriamo la Bibbia (Genesi, 1, 26; 2, 19), leggiamo che Dio
disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza…»,
poi, dopo la caduta, «… finché tornerai alla terra,
perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!».
Questo primo riferimento al testo biblico ci permette di considerare
la condizione dell'uomo originario come "completa", in forza della sua
somiglianza con Dio; condizione successivamente "sminuita" a causa della
caduta, che introduce il primo elemento di "riduzione" rispetto all'origine.
Lo svolgimento della vicenda biblica dopo la cacciata dal Paradiso
terrestre, è costituito da un insieme di eventi che compongono un
"processo decrescente": da una condizione di perdita precedente si passa
sempre ad una ulteriore condizione di nuova e piú grave perdita;
soprattutto ove si pensi che questo processo si accompagna ai rinnovati
interventi divini atti a ristabilire sempre nuovi equilibri relativi.
Dopo Caino ed Abele, il rinnovato impegno di Set, permette di ristabilire
l'equilibrio relativo di un mondo che si è ulteriormente allontanato
dalla completezza originaria: «Anche a Set nacque un figlio,
che egli chiamò Enos. Allora si cominciò ad invocare il nome
del Signore.» (Genesi, 4, 26).
Ciò nonostante si produce un nuovo squilibrio, un ulteriore
allontanamento dalla condizione originaria, una nuova perdita, un rinnovato
allontanamento da Dio: «Allora il Signore disse: "Il mio spirito
non resterà sempre nell'uomo, perché egli è carne
e la sua vita sarà di centoventi anni.”» (Genesi,
6, 3); cosí che si comincia ad intravedere anche una "diminuzione"
della durata della vita umana, e cioè una riduzione delle possibilità
anche dal punto di vista fisico.
«Il Signore vide che la malvagità degli uomini era
grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era
altro che male.» (Genesi, 6, 5). Il che significa
che gli uomini si sono ulteriormente allontanati da Dio, cosí che
il loro cuore, volto in direzione del mondo, riesce a concepire solo il
male; e nel male rimane coinvolta l'umanità intera e il mondo intero,
tanto che Dio interviene in modo pesante e indifferenziato: col diluvio.
Dopo il diluvio, l'intervento divino procura un nuovo equilibrio: tenuto
conto delle condizioni umane del momento Dio si serve di Noè per
restaurare l'ordine delle cose. «Dio benedisse Noè e
i suoi figli e disse loro: “Il timore e il terrore di voi sia in tutte
le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del
cielo.”» (Genesi, 9, 1-2). In cui si vede chiaramente
come lo stesso creato abbia subito una "involuzione": da Adamo che utilizza
la terra (ancora "integra") con i suoi sforzi, a Noè che deve imporsi
sugli altri esseri viventi col timore e il terrore.
Il processo di decadimento continua, ad iniziare proprio dai figli
di Noè. Cam infatti non è piú in grado di comprendere
l'"ebrezza mistica" di Noè, legata all'assunzione rituale del succo
della terra (il vino), e riesce solo a provare ilarità al cospetto
della dimensione "originaria" del padre (la nudità); dimensione
che gli altri due figli invece riconoscono come cosa da preservare e da
non profanare (Genesi, 9, 20-23).
Questo processo si muove con moto sempre piú accelerato, fino
a giungere alla presunzione di condursi al cielo con le sole forze umane,
in una imitazione titanica, temeraria e impossibile di Dio, la cui conseguenza
è emblematicamente descritta come la confusione delle lingue (Genesi,
11, 1-9); momento cruciale della involuzione umana da cui si dipartiranno
ulteriori e sempre piú complicate confusioni.
Particolarmente significativo è il fatto che la Bibbia, a partire
da quel momento, non segnala nessun episodio riconducibile all'intera umanità,
di cui si dà per scontata la dispersione, la frammentazione e la
divisione: conseguenze della decadenza e dell'accentuarsi dell'allontanamento
dalla originaria condizione di completezza. Se la vicenda umana ha inizio
con l'esistenza unitaria, simboleggiata da un uomo e da una donna, essa,
nel suo svolgersi (e cioè nel suo "evolversi"), si traduce in una
divisione, in una frammentazione, in una sempre piú accentuata separazione;
inevitabile conseguenza della divisione primaria che contrassegnò
la vicenda della cacciata dal Paradiso terrestre: la separazione dell'uomo
dalla vicinanza con Dio.
L'intervento riparatore di Dio, però, non viene mai a mancare,
e a questo punto la Bibbia accentra l'attenzione in un àmbito particolare
dell'umanità, quasi a significare che la possibilità di comprensione
umana in ordine al ripristino dell'armonia col divino si sia fatta sempre
piú ristretta e limitata.
Nonostante che a partire dal capitolo 12 della Genesi abbia
inizio la storia sacra della tradizione abramica e quindi di Israele, è
inequivocabile che la Bibbia descriva una situazione emblematica, il cui
significato piú profondo (soprattutto dall'angolo di visuale in
cui ci siamo posti) è valido per l'umanità intera; cosa questa
che si presenterà in tutta la sua evidenza solo con l'Incarnazione
del Verbo.
«Il Signore disse ad Abramo…» (Genesi,
12-14); e questa volta l'intervento divino viene descritto in maniera da
porre in evidenza gli ormai diffusi focolai di disordine che caratterizzano
lo stato di involuzione dell'umanità. Diversamente da come era accaduto
fino ad allora per i personaggi utilizzati dall'intervento divino, lo stesso
Abramo non è in grado di svolgere la missione divina se non dopo
aver ricevuto una preventiva preparazione, che la Bibbia presenta con le
due vicende della liberazione di Lot da parte di Abramo e dell'investitura
di Abramo da parte di Melchisedek (Genesi, 14, 13-20). Solo a questo
punto Abramo può compiere la missione predisposta da Dio, tant'è
che Dio stesso gli dà un altro nome (Abram diventa
Abraham:
Genesi,
17, 1-16), a significare che prima, come semplice uomo del suo tempo, non
era in grado di capire e di agire "spontaneamente" in armonia col divino
(come invece accadeva per i suoi predecessori); è estremamente significativo,
da questo punto di vista, che anche la moglie di Abramo riceva un nome
nuovo da Dio (Sarai diventa Sara), proprio
in vista della "discendenza" che dovrà derivare da Abramo stesso,
e questa volta con un intervento divino ad hoc. Da notare
che questa condizione manchevole di Abramo e di sua moglie, viene simboleggiata
nella Bibbia con lo stato di "vecchiezza" di entrambi, il quale viene risolto
dall'intervento diretto di Dio che ridà ad entrambi lo stato di
"giovinezza", e cioè che li riconduce alla condizione originaria.
Da questo momento le vicende della discendenza di Abramo, sono un continuo
alternarsi di interventi divini e di ulteriori ricadute umane (Esodo,
Numeri,
Deuteronomio,
Giosuè,
Giudici,
Samuele,
Re, Cronache), con un crescendo
sempre piú rapido ed ampio, fino a giungere all'indurimento dei
cuori di cui si parla nei Vangeli e che sfocia nella crocifissione del
Figlio di Dio.
Sia ben chiaro che questi pochi riferimenti non hanno la pretesa di
essere esaustivi di alcunché, li abbiamo solo richiamati per indicare
una traccia di lettura del testo sacro che, con evidenza, dovrebbe far
riflettere tutti coloro che ritengono legittima e coerente la pretesa moderna
di un mondo in continuo "progresso evolutivo".
Al fine di prevenire eventuali obiezioni, precisiamo subito che il
ragionamento che abbiamo svolto fin qui non contraddice minimamente il
progresso materiale e tecnologico, che è stato sempre presente nel
corso della evoluzione umana, anche se in questi ultimi secoli è
letteralmente esploso nel solo Occidente (cosa questa che, da sola, dovrebbe
far riflettere molta gente); esso deve considerarsi come facente parte
integrante della "evoluzione", in seno alla quale svolge addirittura una
sua precisa funzione.
L'uomo (o l'umanità) nasce con un certo potenziale di vita,
sia in termini di pensiero, sia in termini di azione. Questo suo potenziale
è finalizzato a che l'uomo mantenga costantemente il suo legame
con l'origine, con la sua causa prima, con Dio; senza di che smetterebbe
immediatamente perfino di esistere.
La sua esistenza si svolge però in "questo mondo", di modo che
la sua attenzione può anche essere richiamata dalle "cose del mondo"
(libero arbitrio). Ora, fin dall'inizio (Genesi, 3) l'uomo ha dato
ascolto alle cose del mondo, "distraendosi" dal fine che caratterizza la
sua esistenza e innescando cosí quel processo di "involuzione" che
ha segnato la vita dell'umanità e la segnerà fino alla "consumazione
dei secoli".
Tutto questo significa, molto semplicemente, che mentre l'uomo seguiva
un processo "di diminuzione" nei confronti del suo rapporto con Dio, date
le sue potenzialità ne seguiva contemporaneamente uno "di aumento"
nei confronti del suo rapporto col mondo.
Nessuna meraviglia, dunque, di fronte al progresso materiale e tecnologico:
esso è del tutto logico e prevedibile. Piú l'uomo si allontana
da Dio, piú si avvicina al mondo; piú rivolge la sua attenzione
al mondo, piú distrae la sua attenzione da Dio.
Si potrebbe dire che piú un uomo è pio e dedito a Dio,
meno sente il bisogno del mondo e del progresso.
Potremmo fare un elenco interminabile di episodi in grado di sostenere
quanto abbiamo appena detto (per esempio guardando alla vita dei Santi),
ma ci limiteremo a proporne solo uno, di carattere generale. Chi non ricorda
che a scuola ci è stato insegnato che i Cinesi conoscevano la polvere
da sparo da qualche millenio prima che la si incominciasse ad usare in
Europa, dove in poco tempo è divenuta una potente arma da guerra?
Se si riflette su questo semplicissimo esempio, si comprende facilmente
come i Cinesi, pur "progrediti" tecnologicamente in linea teorica, non
si lasciassero distrarre piú di tanto dal richiamo del mondo, e
non si preoccupassero minimamente di "sviluppare" la tecnologia applicativa
della polvere da sparo; eppure ne conoscevano e ne usavano il potenziale:
limitandosi all'uso dei fuochi d'artificio.
Lo stesso si potrebbe dire di tutti i popoli dell'antichità,
e della stessa Cristianità fino al XIII secolo circa; cosa questa
che, a ben riflettere, porterebbe a inquietanti interrogativi sul perché
di quanto accaduto in Occidente in questi ultimi cinque secoli; ma non
possiamo attardarci adesso su questo aspetto della questione.
La verità è che ogni processo di "crescita" scientifica
e tecnologica, ogni "conquista" materiale e mondana, aiuta l'uomo ad allontanarsi
da Dio, e non perché si siano mosse le cose "anche" in maniera scorretta,
ma perché innanzi tutto non è dato all'uomo "servire due
padroni"; cioè non è possibile che l'uomo impegni le sue
forze, spirituali, intellettive, razionali, morali e fisiche per le cose
del mondo (si chiamino pure "benessere") senza che questo gli impedisca
di avere sempre meno forze per rivolgersi a Dio.
Tutto questo accade, peraltro, non in forza della sola volontà
degli individui umani, ma in stretto rapporto con quanto accaduto all'inizio:
il processo di "discesa" innescato dalla trasgressione di Adamo (comunque
si voglia leggere l'insegnamento della Genesi) informa di sé
l'esistenza dell'intera umanità (cosí come insegna la dottrina
cristiana del peccato originale), ed è destinato inesorabilmente
ad "esaurire" la sempre piú ridotta capacità umana di tenersi
collegata a Dio; cosí che quando questo limite verrà raggiunto
il mondo finirà, mentre il richiamo di "questo mondo" si sarà
fatto cosí grande da far illudere l'Anticristo del suo trionfo.
Non a caso l'Incarnazione del Figlio è la "ricapitolazione"
di tutte le cose, l'ultimo intervento divino in seno all'umano per riequilibrare
quel che è rimasto e permettere il compimento di ogni cosa; compimento
costituito dalla definitiva applicazione della giustizia di Dio: poiché
neanche la Legge poteva fermare il peccato, la grazia di Dio si è
riversata su tutti gli uomini per mezzo del solo Gesú Cristo; cosí
che laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia (cfr.
Romani,
5, 12-21).
Il che significa che, a fronte dell'inevitabile dilagare del disordine,
l'intervento "sovrabbondante" di Dio permette la salvezza di coloro che
rinasceranno in Gesú Cristo, quelli che morranno a sé stessi
e al mondo per rinascere a una vita nuova.
Per il resto, la prossima venuta del Figlio sarà tutt'uno con
la fine di questa umanità, la quale renderà il conto definitivo
della sua esistenza.
Che il progresso materiale, tecnologico e sentimentale ci sia, non v'è
alcun dubbio: anzi, sarebbe ben strano che non ci fosse; ma che si tratti
di una crescita legata all'"involuzione" dell'umanità è cosa
altrettanto indubbia.
Che questo processo di "involuzione" sia strettamente connesso al disegno
divino, è cosa scontata; ma che lo si scambi per "crescita" interiore,
morale o spirituale, è davvero singolare e demoniaco.
Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano
scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!
(Matteo, 18, 7).
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