EX VOLVERE: PROGRESSIONE O REGRESSIONE? 
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Una delle suggestioni moderne piú perniciose, eppure piú condivisa e dogmatizzata, è quella del progresso; il quale spesso viene identificato con l'evoluzione, cosí che, in genere, i due termini sono usati come fossero sinonimi.
Prendendo spunto dal senso proprio del termine "evoluzione", cerchiamo allora di riflettere su questo aspetto notevole della mentalità moderna che è al centro di tanti guasti e di tante confusioni.

Il termine "evoluzione" esprime essenzialmente l'idea di "svolgere" (dal latino volvere), e tale svolgimento si intende compiuto a partire da un dato punto (ex volvere). Ora, tale idea non implica l'accezione che i moderni hanno dato al termine "evoluzione" (che viene intesa come una sorta di "crescita"), poiché "svolgere da…", una determinata cosa o una determinata azione, non significa affatto "accrescerla", potrebbe significare benissimo anche "diminuirla" senza che il termine "evoluzione" subisca la minima violenza.
Se ci si attiene al senso di "svolgere da…", ci si trova solamente di fronte ad una cosa data che, invece di essere vista nel suo insieme, viene vista nel suo "svolgimento". Ci si trova cioè di fronte al fatto che l'"evoluzione" di una cosa e la cosa stessa sono identici, visti soltanto da due punti di vista diversi. Dal che si comprende che non si può legittimamente parlare né di "crescita" né di "decrescita".
Se, a tutti i costi, si vuole sottolineare una differenza tra la cosa iniziale e il suo svolgimento, si può solo notare che l'idea di "svolgere da…" suggerisce la possibilità che tale svolgimento venga percepito come se si attuasse al di fuori del punto iniziale: ex volvere; il che implicherebbe, semmai, l'idea di distacco dall'origine, con tutto quello che tale idea può contenere in termini di "perdita delle origini".
Nulla autorizza a supporre, quindi, una equivalenza tra "evoluzione" e "accrescimento".

La concezione tutta moderna dell'evoluzione è basata su di un presupposto dato per scontato, niente affatto dimostrabile e del tutto recente (gli ultimi tre secoli rispetto ai millenni precedenti), e cioè che "all'origine" la cosa di cui si tratta sia incompleta e si vada completando per via del suo svolgimento; nel corso del quale si andrebbero ad aggiungere alla cosa stessa degli elementi che essa prima non conteneva, cioè degli elementi al di fuori di essa, cosí che la cosa ne risulterebbe accresciuta o arricchita.
Nel caso piú particolare dell'esistenza umana intesa nella sua globalità (che è poi quello che qui ci interessa), si presupporrebbe dunque che "all'origine" l'uomo (o l'umanità) sia incompleto e si vada completando nel corso dello svolgimento della sua esistenza per mezzo di elementi che ad esso si aggiungerebbero dal di fuori (che ne sarà dell'uomo iniziale alla fine di un tale processo?).
Ora, se l'esistenza umana si fosse svolta in un modo siffatto, ciò significherebbe che a partire dall'origine gli uomini, supposti "incompleti", abbiano permesso, nella loro incompletezza, che dal di fuori si venisse ad aggiungere qualcosa alla loro esistenza; ma allora non si potrebbe neanche piú parlare di evoluzione umana, ma solo di continua trasformazione di un qualcosa di iniziale in tante altre cose successive e diverse dall'iniziale. 
Quando poi si volesse sostenere che un fenomeno del genere debba ritenersi interamente riferito alla intelligenza umana e che quindi l'evoluzione dell'esistenza sarebbe un prodotto di questa intelligenza, ci si troverebbe di fronte ad una contraddizione: poiché dire che l'umanità si evolve a partire dalla sua intelligenza è come dire che essa "svolge" la sua esistenza a partire da una condizione di "completezza" e non da una condizione di "incompletezza", visto che niente potrebbe accadere che non sia già contenuto originariamente nella sua intelligenza. Lo stesso ragionamento si può fare in relazione a qualunque aspetto dell'esistenza: in relazione all'aspetto biologico, per esempio. L'embrione umano "si evolve", e cioè "si sviluppa", per il semplice motivo che contiene in sé tutto l'essere umano che poi sarà, e lo contiene in tutte le sue varianti, fino al destino ultimo della morte del corpo. 
Proprio prendendo come esempio lo sviluppo biologico dell'essere umano, si comprende anche come qualunque processo di "evoluzione" porti inevitabilmente all'"esaurimento" dell'esistenza: quest'ultima infatti, "svolgendosi" a partire da una condizione di completezza, per via del suo sviluppo va ad esaurirsi, mai ad accrescersi; semmai il momento della sua maggiore "ricchezza" sta all'origine, non certo alla fine dello svolgimento stesso.

Se prendiamo un rotolo di carta (e si potrebbe pensare, per esempio, al "rotolo della Legge") è indubbio che originariamente il rotolo, chiuso, contiene in sé tutto ciò che deve contenere; via via che lo "svolgiamo", e cioè nel corso della "evoluzione" del rotolo, non potremmo aggiungere nulla al rotolo stesso senza finire con l'ottenere qualcosa di diverso da esso; e non potremmo sperimentarne il contenuto senza tenere conto costantemente di tutto il rotolo, cosí che via via che lo "svolgiamo" l'unica cosa che ci dà il senso di questo svolgimento (o evoluzione) è la parte del rotolo svolto fino ad allora, mentre l'unica cosa che ci dà il senso del "progredire" dello svolgimento stesso è la parte del rotolo da svolgere. In altre parole si può dire che l'evoluzione dell'esistenza, fino ad un dato momento, è costituita dal suo svolgimento dall'origine fino a quel momento, mentre la sua evoluzione futura, a partire da quello stesso momento, è costituita da ciò che è contenuto fin dall'origine e che non si è ancora "svolto"; tanto che l'evoluzione stessa può solo considerarsi, in uno qualunque dei suoi momenti, come una presa d'atto dell'esistente e mai come l'acquisizione di alcunché di nuovo.

A questo punto ci si potrebbe obiettare che, in ogni caso, la presa d'atto dell'esistente può considerarsi come l'acquisizione di qualcosa che fino ad allora non si conosceva, cosí che si ritornerebbe all'idea che l'evoluzione corrisponde ad un accrescimento.
Tralasciamo quanto si potrebbe dire a confutazione di questo e di altri ragionamenti simili, e ammettiamo che le cose possano anche guardarsi da tale punto di vista; ne conseguono, però, due considerazioni che si scontrano inevitabilmente con la concezione moderna dell'evoluzione.
La prima è che l'acquisizione della nozione del nuovo non aggiunge nulla all'esistenza e, quindi, non può comportare nessun tipo di variazione rispetto a quanto dato fin dalle origini; la seconda è che ogni nuova acquisizione non può essere minimamente considerata come un prodotto dell'azione umana, per esempio un prodotto dell'intelligenza umana, in quanto che l'uomo non potrebbe acquisire niente di diverso da ciò che è dato fin dall'origine.
Queste due considerazioni, tradotte in termini semplici, significano che ogni cosa nuova acquisita dall'umanità non è altro che una cosa già data, nei confronti della quale l'intervento umano non può comportare alcuna variazione sostanziale.

Se, a questo punto, ci volessimo riferire all'insegnamento religioso, ne conseguirebbe che l'uomo non ha la possibilità di aggiungere sostanzialmente alcunché a quanto dato fin dalle origini, né ha alcuna possibilità di cambiarlo, senza cambiare o aggiungere qualcosa a sé stesso o alla sua esistenza, il che è impossibile, per il semplice fatto che l'uomo non è la causa di sé stesso, bensí l'effetto di una causa che sta fuori da lui (cfr. Matteo, 5, 18). 
Se si tiene presente l'esempio del rotolo di carta che abbiamo fatto prima, ci si trova di fronte ad un'altra complicazione.
Se l'evoluzione corrisponde semplicemente alla presa d'atto del contenuto del rotolo, non si potrebbe pensare alla possibilità che l'uomo compia questa presa d'atto in maniera immediata e spontanea se non a condizione che egli ne "ri-conosca" il contenuto, e cioè a condizione che lo "conosca prima", perché diversamente non potrebbe mai conoscerlo per quello che realmente è, visto che lo ignora.
Se si prende un uomo qualsiasi e lo si pone di fronte ad una cosa che non ha mai vista, è impossibile che egli ne comprenda il significato e la funzione; al massimo somigliando la cosa nuova ad una da lui conosciuta sarà portato a scambiare la prima per la seconda, considerando magari questa una variante di quella.
Ne consegue che, nel corso dell'"evoluzione", l'intelligenza umana o "riconosce" l'esistente o, via via che ne fa esperienza, ha bisogno di qualcuno o di qualcosa che glielo spieghi o glielo ricordi. Diversamente si troverebbe ad accumulare dati in modo improprio e confuso, traendone delle conseguenze arbitrarie e scorrette, ma soprattutto non aggiungendo altro alla sua ignoranza iniziale che confusione e nuova ignoranza.
Se si postula che l'esperienza umana parte da una condizione di iniziale ignoranza (postulato moderno), si deve necessariamente ammettere che tale ignoranza non può fondare alcuna conoscenza successiva: o l'umanità nasce nella piena consapevolezza, che perde via via nel corso dell'evoluzione, o nasce nell'ignoranza senza avere alcuna possibilità di conoscere alcunché. Ora, nell'un caso o nell'altro l'idea moderna di evoluzione non ha alcuna giustificazione: quindi è falsa. 

Ciò che si può ragionevolmente ammettere è che l'umanità non potrebbe svolgere la sua esistenza senza l'intervento di una apposita guida: sia che ci si voglia riferire ad un processo di "richiamo della memoria", sia che ci si voglia riferire alla possibilità di acquisire il nuovo.
Volendo usare un linguaggio diverso, possiamo dire che quel rotolo di prima è la Tradizione e la guida è la Rivelazione, entrambe derivate dalla volontà di Dio che provvede a fornire all'uomo anche le cose e gli individui che serviranno da supporti alle prime due (i riti e i santi, per esempio) ai fini della comprensione umana.

Consideriamo adesso un altro aspetto dell'evoluzione, forse il piú rilevante dal punto di vista della confutazione del dogma moderno del progresso indefinito.
Dicevamo prima che ogni concetto di "svolgimento" implica necessariamente l'idea di esaurimento, di compimento ultimo; ed è facile comprendere come lo "svolgimento" del rotolo implichi l'idea della fine dello svolgimento stesso. Ne consegue che la stessa esistenza umana (di un singolo uomo o dell'intera umanità) si può svolgere solo in vista del suo esaurimento, della sua fine o, se si vuole, del suo compimento. Nulla autorizza legittimamente a supporre che l'esistenza dell'umanità, pur avendo avuto un inizio, non avrà mai fine; e per quanto questa fine la si possa allontanare nel tempo in maniera indefinita, resta il fatto che in ogni momento del suo svolgimento ogni cosa è data "anche" in vista di essa e, quindi, è cosí che dev'essere intesa e vissuta l'esistenza. 
Quest'idea della fine certa dell'umanità è inevitabile che sia associata all'idea di esaurimento: esattamente come accade per l'esistenza di un singolo uomo; e ogni esaurimento dell'esistenza significa per l'uomo "spendere" tutto il suo patrimonio vitale fino alla consunzione.
Ogni altra concezione del destino dell'uomo e dell'umanità, che pretendesse di supporre una crescita indefinita, sarebbe insostenibile, contraddittoria e falsa. 
Eppure oggi accade proprio questo.

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Per un cristiano tutte queste considerazioni devono trovare fondamento nell'insegnamento religioso, altrimenti non corrisponderebbero al vero; anzi, proprio partendo dall'insegnamento religioso si deve poter giungere a queste considerazioni.
Se apriamo la Bibbia (Genesi, 1, 26; 2, 19), leggiamo che Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza…», poi, dopo la caduta, «… finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!».
Questo primo riferimento al testo biblico ci permette di considerare la condizione dell'uomo originario come "completa", in forza della sua somiglianza con Dio; condizione successivamente "sminuita" a causa della caduta, che introduce il primo elemento di "riduzione" rispetto all'origine.
Lo svolgimento della vicenda biblica dopo la cacciata dal Paradiso terrestre, è costituito da un insieme di eventi che compongono un "processo decrescente": da una condizione di perdita precedente si passa sempre ad una ulteriore condizione di nuova e piú grave perdita; soprattutto ove si pensi che questo processo si accompagna ai rinnovati interventi divini atti a ristabilire sempre nuovi equilibri relativi.
Dopo Caino ed Abele, il rinnovato impegno di Set, permette di ristabilire l'equilibrio relativo di un mondo che si è ulteriormente allontanato dalla completezza originaria: «Anche a Set nacque un figlio, che egli chiamò Enos. Allora si cominciò ad invocare il nome del Signore.» (Genesi, 4, 26). 
Ciò nonostante si produce un nuovo squilibrio, un ulteriore allontanamento dalla condizione originaria, una nuova perdita, un rinnovato allontanamento da Dio: «Allora il Signore disse: "Il mio spirito non resterà sempre nell'uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni.”» (Genesi, 6, 3); cosí che si comincia ad intravedere anche una "diminuzione" della durata della vita umana, e cioè una riduzione delle possibilità anche dal punto di vista fisico.
«Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male.» (Genesi, 6, 5). Il che significa che gli uomini si sono ulteriormente allontanati da Dio, cosí che il loro cuore, volto in direzione del mondo, riesce a concepire solo il male; e nel male rimane coinvolta l'umanità intera e il mondo intero, tanto che Dio interviene in modo pesante e indifferenziato: col diluvio.
Dopo il diluvio, l'intervento divino procura un nuovo equilibrio: tenuto conto delle condizioni umane del momento Dio si serve di Noè per restaurare l'ordine delle cose. «Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: “Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo.”» (Genesi, 9, 1-2). In cui si vede chiaramente come lo stesso creato abbia subito una "involuzione": da Adamo che utilizza la terra (ancora "integra") con i suoi sforzi, a Noè che deve imporsi sugli altri esseri viventi col timore e il terrore.
Il processo di decadimento continua, ad iniziare proprio dai figli di Noè. Cam infatti non è piú in grado di comprendere l'"ebrezza mistica" di Noè, legata all'assunzione rituale del succo della terra (il vino), e riesce solo a provare ilarità al cospetto della dimensione "originaria" del padre (la nudità); dimensione che gli altri due figli invece riconoscono come cosa da preservare e da non profanare (Genesi, 9, 20-23). 
Questo processo si muove con moto sempre piú accelerato, fino a giungere alla presunzione di condursi al cielo con le sole forze umane, in una imitazione titanica, temeraria e impossibile di Dio, la cui conseguenza è emblematicamente descritta come la confusione delle lingue (Genesi, 11, 1-9); momento cruciale della involuzione umana da cui si dipartiranno ulteriori e sempre piú complicate confusioni.
Particolarmente significativo è il fatto che la Bibbia, a partire da quel momento, non segnala nessun episodio riconducibile all'intera umanità, di cui si dà per scontata la dispersione, la frammentazione e la divisione: conseguenze della decadenza e dell'accentuarsi dell'allontanamento dalla originaria condizione di completezza. Se la vicenda umana ha inizio con l'esistenza unitaria, simboleggiata da un uomo e da una donna, essa, nel suo svolgersi (e cioè nel suo "evolversi"), si traduce in una divisione, in una frammentazione, in una sempre piú accentuata separazione; inevitabile conseguenza della divisione primaria che contrassegnò la vicenda della cacciata dal Paradiso terrestre: la separazione dell'uomo dalla vicinanza con Dio.
L'intervento riparatore di Dio, però, non viene mai a mancare, e a questo punto la Bibbia accentra l'attenzione in un àmbito particolare dell'umanità, quasi a significare che la possibilità di comprensione umana in ordine al ripristino dell'armonia col divino si sia fatta sempre piú ristretta e limitata.
Nonostante che a partire dal capitolo 12 della Genesi abbia inizio la storia sacra della tradizione abramica e quindi di Israele, è inequivocabile che la Bibbia descriva una situazione emblematica, il cui significato piú profondo (soprattutto dall'angolo di visuale in cui ci siamo posti) è valido per l'umanità intera; cosa questa che si presenterà in tutta la sua evidenza solo con l'Incarnazione del Verbo.
«Il Signore disse ad Abramo…» (Genesi, 12-14); e questa volta l'intervento divino viene descritto in maniera da porre in evidenza gli ormai diffusi focolai di disordine che caratterizzano lo stato di involuzione dell'umanità. Diversamente da come era accaduto fino ad allora per i personaggi utilizzati dall'intervento divino, lo stesso Abramo non è in grado di svolgere la missione divina se non dopo aver ricevuto una preventiva preparazione, che la Bibbia presenta con le due vicende della liberazione di Lot da parte di Abramo e dell'investitura di Abramo da parte di Melchisedek (Genesi, 14, 13-20). Solo a questo punto Abramo può compiere la missione predisposta da Dio, tant'è che Dio stesso gli dà un altro nome (Abram diventa Abraham: Genesi, 17, 1-16), a significare che prima, come semplice uomo del suo tempo, non era in grado di capire e di agire "spontaneamente" in armonia col divino (come invece accadeva per i suoi predecessori); è estremamente significativo, da questo punto di vista, che anche la moglie di Abramo riceva un nome nuovo da Dio (Sarai diventa Sara), proprio in vista della "discendenza" che dovrà derivare da Abramo stesso, e questa volta con un intervento divino ad hoc. Da notare che questa condizione manchevole di Abramo e di sua moglie, viene simboleggiata nella Bibbia con lo stato di "vecchiezza" di entrambi, il quale viene risolto dall'intervento diretto di Dio che ridà ad entrambi lo stato di "giovinezza", e cioè che li riconduce alla condizione originaria.
Da questo momento le vicende della discendenza di Abramo, sono un continuo alternarsi di interventi divini e di ulteriori ricadute umane (Esodo, Numeri, Deuteronomio, Giosuè, Giudici, Samuele, Re, Cronache), con un crescendo sempre piú rapido ed ampio, fino a giungere all'indurimento dei cuori di cui si parla nei Vangeli e che sfocia nella crocifissione del Figlio di Dio.

Sia ben chiaro che questi pochi riferimenti non hanno la pretesa di essere esaustivi di alcunché, li abbiamo solo richiamati per indicare una traccia di lettura del testo sacro che, con evidenza, dovrebbe far riflettere tutti coloro che ritengono legittima e coerente la pretesa moderna di un mondo in continuo "progresso evolutivo".
Al fine di prevenire eventuali obiezioni, precisiamo subito che il ragionamento che abbiamo svolto fin qui non contraddice minimamente il progresso materiale e tecnologico, che è stato sempre presente nel corso della evoluzione umana, anche se in questi ultimi secoli è letteralmente esploso nel solo Occidente (cosa questa che, da sola, dovrebbe far riflettere molta gente); esso deve considerarsi come facente parte integrante della "evoluzione", in seno alla quale svolge addirittura una sua precisa funzione. 
L'uomo (o l'umanità) nasce con un certo potenziale di vita, sia in termini di pensiero, sia in termini di azione. Questo suo potenziale è finalizzato a che l'uomo mantenga costantemente il suo legame con l'origine, con la sua causa prima, con Dio; senza di che smetterebbe immediatamente perfino di esistere.
La sua esistenza si svolge però in "questo mondo", di modo che la sua attenzione può anche essere richiamata dalle "cose del mondo" (libero arbitrio). Ora, fin dall'inizio (Genesi, 3) l'uomo ha dato ascolto alle cose del mondo, "distraendosi" dal fine che caratterizza la sua esistenza e innescando cosí quel processo di "involuzione" che ha segnato la vita dell'umanità e la segnerà fino alla "consumazione dei secoli".
Tutto questo significa, molto semplicemente, che mentre l'uomo seguiva un processo "di diminuzione" nei confronti del suo rapporto con Dio, date le sue potenzialità ne seguiva contemporaneamente uno "di aumento" nei confronti del suo rapporto col mondo.
Nessuna meraviglia, dunque, di fronte al progresso materiale e tecnologico: esso è del tutto logico e prevedibile. Piú l'uomo si allontana da Dio, piú si avvicina al mondo; piú rivolge la sua attenzione al mondo, piú distrae la sua attenzione da Dio.
Si potrebbe dire che piú un uomo è pio e dedito a Dio, meno sente il bisogno del mondo e del progresso.
Potremmo fare un elenco interminabile di episodi in grado di sostenere quanto abbiamo appena detto (per esempio guardando alla vita dei Santi), ma ci limiteremo a proporne solo uno, di carattere generale. Chi non ricorda che a scuola ci è stato insegnato che i Cinesi conoscevano la polvere da sparo da qualche millenio prima che la si incominciasse ad usare in Europa, dove in poco tempo è divenuta una potente arma da guerra? Se si riflette su questo semplicissimo esempio, si comprende facilmente come i Cinesi, pur "progrediti" tecnologicamente in linea teorica, non si lasciassero distrarre piú di tanto dal richiamo del mondo, e non si preoccupassero minimamente di "sviluppare" la tecnologia applicativa della polvere da sparo; eppure ne conoscevano e ne usavano il potenziale: limitandosi all'uso dei fuochi d'artificio.
Lo stesso si potrebbe dire di tutti i popoli dell'antichità, e della stessa Cristianità fino al XIII secolo circa; cosa questa che, a ben riflettere, porterebbe a inquietanti interrogativi sul perché di quanto accaduto in Occidente in questi ultimi cinque secoli; ma non possiamo attardarci adesso su questo aspetto della questione.
La verità è che ogni processo di "crescita" scientifica e tecnologica, ogni "conquista" materiale e mondana, aiuta l'uomo ad allontanarsi da Dio, e non perché si siano mosse le cose "anche" in maniera scorretta, ma perché innanzi tutto non è dato all'uomo "servire due padroni"; cioè non è possibile che l'uomo impegni le sue forze, spirituali, intellettive, razionali, morali e fisiche per le cose del mondo (si chiamino pure "benessere") senza che questo gli impedisca di avere sempre meno forze per rivolgersi a Dio.
Tutto questo accade, peraltro, non in forza della sola volontà degli individui umani, ma in stretto rapporto con quanto accaduto all'inizio: il processo di "discesa" innescato dalla trasgressione di Adamo (comunque si voglia leggere l'insegnamento della Genesi) informa di sé l'esistenza dell'intera umanità (cosí come insegna la dottrina cristiana del peccato originale), ed è destinato inesorabilmente ad "esaurire" la sempre piú ridotta capacità umana di tenersi collegata a Dio; cosí che quando questo limite verrà raggiunto il mondo finirà, mentre il richiamo di "questo mondo" si sarà fatto cosí grande da far illudere l'Anticristo del suo trionfo.
Non a caso l'Incarnazione del Figlio è la "ricapitolazione" di tutte le cose, l'ultimo intervento divino in seno all'umano per riequilibrare quel che è rimasto e permettere il compimento di ogni cosa; compimento costituito dalla definitiva applicazione della giustizia di Dio: poiché neanche la Legge poteva fermare il peccato, la grazia di Dio si è riversata su tutti gli uomini per mezzo del solo Gesú Cristo; cosí che laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia (cfr. Romani, 5, 12-21). 
Il che significa che, a fronte dell'inevitabile dilagare del disordine, l'intervento "sovrabbondante" di Dio permette la salvezza di coloro che rinasceranno in Gesú Cristo, quelli che morranno a sé stessi e al mondo per rinascere a una vita nuova.
Per il resto, la prossima venuta del Figlio sarà tutt'uno con la fine di questa umanità, la quale renderà il conto definitivo della sua esistenza.

Che il progresso materiale, tecnologico e sentimentale ci sia, non v'è alcun dubbio: anzi, sarebbe ben strano che non ci fosse; ma che si tratti di una crescita legata all'"involuzione" dell'umanità è cosa altrettanto indubbia. 
Che questo processo di "involuzione" sia strettamente connesso al disegno divino, è cosa scontata; ma che lo si scambi per "crescita" interiore, morale o spirituale, è davvero singolare e demoniaco.
Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo! (Matteo, 18, 7). 

Giovanni Servodio


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