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I preti modernisti imparano e insegnano a leggere le Sacre Scritture ESEGESI MODERNA E NUOVE ERESIE
Dalla Tradizione alla formengeschichte e al Ravasi-pensiero
La pubblicistica cattolica è ormai talmente vasta che
non si
riesce a star dietro neanche ai documenti ufficiali del Magistero,
figuriamoci
poi agli scritti di questo o di quello.
Questo suo libro è nell'intenzione dell'autore, una
sorta di
guida per poter leggere e comprendere il Vecchio Testamento, guida che
colmerebbe una lacuna in àmbito cattolico, quella lacuna che
avrebbe
impedito, soprattutto agli Italiani di questi due ultimi millenni, di
leggere
e comprendere il Vecchio e il Nuovo Testamento (cfr. l'Introduzione).
A pag. 138 e ss., troviamo una dotta disquisizione circa i significati di "santo" e di "sacro"; dalla quale apprendiamo che il sacro è prevaricatore dell'esistenza, che la visione sacrale è tipica dei movimenti o delle ideologie integraliste, che il sacro, mentre tutela la purezza del concetto e della realtà di Dio (che l'autore sembrerebbe considerare una quisquilia), isola, rigetta e si pone in tensione col profano. Apprendiamo anche che esiste un'accezione del "santo", inteso in senso esistenziale e morale, talché la santità non si isola, coesiste col profano, mentre il "santo" anima l'esistenza e le realtà mondane senza annientarle. Tralasciamo la lezione di etimologia fornitaci circa il significato del termine ebraico qadosh (santo) e dei termini latini sanctus e sacrum, per la quale invitiamo il Ravasi ad essere piú attento nelle sue affermazioni, perché, forse con sua sorpresa, in giro c'è anche gente che sa benissimo che non può confondersi il significato di "santo" con quello di "sacro", come fa lui strumentalmente e capziosamente. D'altronde, la sua supponenza è tale che egli si permette di affermare che «la radice verbale QDSH [da cui l'ebraico qadosh], … significa in prima istanza "separare", porre una frontiera tra l'area del tempio e del palazzo reale e quella profana». Il Ravasi, nella sua foga volgarizzatrice e dissacratoria, dimentica che c'è gente che sa benissimo che al tempo della radice verbale QDSH, Israele, non solo non aveva un tempio e un palazzo reale, ma addirittura era impedito ad averli per precisa prescrizione divina, cosí che l'esegesi di Ravasi e compagni si mostra per quella che è: un cumulo di deduzioni semplicistiche e superficiali fondate sui pregiudizi della scuola ateo-razionalista. Facciamo invece notare subito, al Ravasi e ai suoi dotti
amici, che
non è mai esistita e non potrebbe mai esistere una realtà
mondana o una realtà profana; tutto quello che si può
dire
circa il profano e il mondano è che si tratta di una visione del
mondo, di un semplice punto di vista: il punto di vista dell'uomo che
guarda
alla realtà dell'universo senza volgersi ad Dominum,
cosí da illudersi che l'universo stesso, come tale, abbia una
sua
autonoma realtà, per di piú contrapponibile alla
realtà
delle cose divine, cioè delle cose sante e delle cose sacre.
Per rinfrescare la memoria ai modernisti, ricordiamo che l'unica vera e autosufficiente realtà esistente a questo mondo e in tutti gli altri mondi possibili e immaginabili è Dio, che è la Causa di ogni realtà possibile e impossibile. Quindi ogni realtà umanamente constatabile o ipotizzabile è tale solo perché trae tutta la sua esistenza dal divino, senza il quale non potrebbe essere che un puro niente. Non v'è nulla di profano a questo mondo: tutto è sacro. Quello che invece si può dire è che l'uomo, in seguito alla caduta e a causa della sua condizione di peccatore, non è in grado di vedere il sacro, il divino, in ogni cosa, non è in grado cioè di riconoscere la reale natura dell'esistente e il senso vero dell'esistenza: egli vive nell'inganno e nell'illusione, e scambia la parte con il tutto, crede che la realtà sensibile e relativa del mondo sia tutta la realtà, confondendo la realtà umana con la realtà divina. Nella migliore delle situazioni si giunge cosí all'idolatria e al panteismo. Il profano è il risultato del punto di vista errato dell'uomo, non è una realtà a sé stante. La grazia di Dio sopperisce a questa manchevolezza dell'uomo, offrendogli gli strumenti del sacro, i soli che gli permettano di guardare al mondo rivolgendosi a Dio, e senza i quali egli rimarrebbe preda delle sue illusioni e delle sensazioni suscitate dal mondo sensibile. Quando Ravasi, credendo di offrire dei lumi, spiega che «Il
santo anima l'esistenza e le realtà mondane senza annientarle ma
lasciando loro consistenza»; non si rende conto che sta
affermando
che il "suo" cosí decantato «santo inteso in senso
esistenziale
e morale» è da ritenersi tanto piú
meritevole
per quanto piú mantenga gli uomini nell'errore. Ma forse se ne
rende
conto, solo che per lui non si tratta di errore, accecato com'è
dai pregiudizi illuministici, laici e atei. Infatti afferma (pp.
139-140)
che è scorretto dissacrare «il sacro secolarizzandolo»
mentre è corretto desacralizzarlo «santificandolo,
storicizzandolo».
Quindi: desacralizzare il sacro, storicizzandolo, è
cosa meritoria,
a fronte dell'inaccettabile dissacralizzare, secolarizzando. Come se
storicizzare
e secolarizzare non fossero la stessa cosa! Evidentemente, per Ravasi,
le cose stanno diversamente.
Lui dice: desacralizziamo il sacro (che vuol dire togliamo
sacralità
al sacro) cosí da ottenere la sua santificazione. Il che
significa,
innanzi tutto, che il sacro, secondo Ravasi non ha nulla di santo. Da
dove
viene allora? È chiaro che per il Ravasi il sacro viene
dall'uomo
e non dal Santo, tanto che, secondo lui, il sacro finisce con lo
scadere
nel "sacralismo": allora, noi uomini moderni, del tipo di Ravasi, che
abbiamo
capito tutto e che finalmente sappiamo tutto, comprendiamo bene che
basta
desacralizzare il sacro per santificarlo.
Evidentemente Nostro Signore non aveva ancora capito che le cose potessero risolversi cosí facilmente. Meno male che adesso abbiamo Ravasi e i suoi compagni! Quando il Ravasi afferma che «il sacro isola, rigetta e si pone in tensione col profano; si fa autosufficiente, tutto ciò che non appartiene alla sua sfera diventa il male, il peccato, l'impuro; suo sogno è quello di sacralizzare il maggior ambito possibile (politica, cultura, società) cosí da porlo sotto la sua ferrea tutela» (pag. 139), ci fa chiaramente capire che la sua funzione di prete che amministra i sacramenti egli l'ha sempre svolta non credendo a una sola parola di quanto recita sull'altare e di quanto proclama dall'ambone. Ci spiega cioè che ogni sacramento da lui amministrato è invalido, e primariamente il sacramento dell'Eucarestia, poichè egli lo amministra con una intenzione diversa da quella della Santa Chiesa. D'altronde, per uno che dà per scontato che il Vecchio Testamento è stato elaborato dai sacerdoti di Israele, e che poi si permette di concludere le letture della S. Messa con la formula "Parola di Dio", senza crederci minimamente, il meno che si possa dire è che si tratta di un dissociato, di uno schizofrenico, poiché diversamente si dovrebbe dire che si tratta di un agente del Demonio. Non è per pura polemica, ma portando alle estreme
conseguenze
il ragionamento del Ravasi, che egli ovviamente presenta come un dato
scontato
e indiscutibile, si giunge a questa assurda conclusione: il male fa
parte
del mondo, è uno degli elementi che compongono la "realtà
profana", quindi il sacro può dirsi legittimo solo se preserva
tutta
la natura del male, riuscendo a convivere con esso senza intaccarne la
consistenza, animandolo, addirittura, senza assorbirlo.
Per finire, accenniamo solamente ad un altro passo da cui si
può
comprendere un certo stile tutto moderno, lo stile che caratterizza
soprattutto
la cosiddetta esegesi moderna. A pag. 36 il Ravasi afferma: «Ma
è noto che l'antropologia biblica non distingueva cosí
nettamente
anima e corpo, materia e spirito.» Siamo informati
cosí
di una verità accertata ed acclarata (è noto a chi?!).
Prova
ne è, dice il Ravasi, che l'ebraico conosce i termini Ruah,
Nefesh
e Basar, e cioè i termini corrispondenti a
"spirito",
"anima" e "corpo". Ora, o siamo del tutto rimbecilliti o il Ravasi non
sapendo come spiegare, con la sua esegesi razionalista, il senso dei
termini
ebraici, liquida il tutto con l'affermazione precedente: cioè
con
una chiara contraddizione, della quale fa mostra perfino di
compiacersi.
Cosa possiamo concluderne?
Ora, in simili condizioni, come può collocarsi la
Grazia di Dio?
Piuttosto, il non prevalebunt dei Vangeli non
bisogna
pensarlo in riferimento alla Santa Chiesa intesa, ancora una volta, in
maniera quantitativa; cioè intendendo per Santa Chiesa tutto
l'insieme
dei Cattolici iscritti nei registri parrocchiali. Si tratterebbe dello
stesso errore che commettono i modernisti quando sognano un illusorio
ecumene
cristiano in cui riunire tutti indistintamente coloro che credono o
addirittura
sono semplicemente informati della venuta del Cristo; costoro
vaneggiano
di un malinteso trionfo dei Vangeli perché agognano di contare i
cristiani per miliardi, anziché per milioni.
NOTA - Su tale questione, di notevole importanza, avremo modo di soffermarci in altra occasione. Per il momento ci accontentiamo di alcuni veloci rimandi: SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Salita al Monte Carmelo (in particolare i capp. 26 e 39 del libro 3); La Notte Oscura (in particolare i capp. 2 e 23 del libro 2). SANTA TERESA D'AVILA, Mansioni 7, capp. 1 e 2. Giovanni Servodio
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