LETTERA APERTA ALL'ARCIVESCOVO DI TORINO (6/98)
In occasione della vicenda del piccolo Gabriele, morto dopo l'espianto,
abbiamo inviato, come Associazione, una lettera al nostro Arcivescovo,
il Card. Giovanni Saldarini. Non avendo ancora ricevuto risposta, abbiamo
pensato che fosse il caso di renderla pubblica.
Eminenza Reverendissima,
ci perdoni, innanzi tutto, il disturbo che Le arrechiamo, ma certe
preoccupazioni di ordine dottrinale ci spingono a sottoporre a Vostra Eminenza
alcune considerazioni relative a quanto accaduto ultimamente a Torino al
povero Gabriele (che Dio lo accolga tra i suoi!) a cui è stato asportato
il cuore.
Questa triste vicenda ci ha dato modo di interrogarci sul significato
morale di certe costumanze e di certi orientamenti che ormai si diffondono
a macchia d'olio in seno alla comunità cristiana. Abbiamo l'impressione
di trovarci di fronte ad una penetrazione subdola eppure incisiva, in seno
al popolo di Cristo, di concezioni che minano alla base la morale e la
dottrina cattoliche.
Facciamo subito presente a Vostra Eminenza che, indipendentemente dal
merito di un qualunque dibattito sull'argomento, vi sono migliaia e migliaia
di fedeli che, seppure rimangono in timido e dubbioso silenzio, vivono
con un senso di ripulsa l'idea stessa che l'uomo possa essere fatto oggetto
di manipolazioni di qualunque tipo, trasformando di fatto i manipolati
in mere cose inanimate e i manipolatori in orgogliosi imitatori di Dio,
con i primi ridotti a súccubi illusi di chissà quali prospettive
di pseudo-immortalità corporale e i secondi miseramente oppressi
da manie di onnipotenza connesse al disconoscimento di Dio e dei suoi comandamenti.
Tali resistenze, fondate sulla millenaria educazione morale cristiana,
sembra che non riscuotano la dovuta attenzione.
Vostra Eminenza sa che i trapianti di organi sono basati sul principio,
elementare, che gli organi stessi devono essere ben vitali ed efficienti
perché possano funzionare nel nuovo organismo in cui vengono trapiantati.
In termini tecnici, essi devono essere ben irrorati di sangue, il che significa
che devono essere espiantati da un organismo pulsante e, quindi, ancora
vivo. Certo, si potrebbe discutere per giorni interi sul sottile distinguo
medico-scientifico circa il momento della morte cosiddetta "fisiologica",
ma non sposteremmo di una virgola il problema centrale: gli organi devono
essere ancora pulsanti e ricchi di sangue, pena il loro disfacimento e
la loro inutilizzazione. Ora, non potendosi stabilire con certezza, dal
punto di vista reale, il momento della morte, ne deriva che fino alla prova
evidente della iniziata putrefazione, l'organismo umano deve ritenersi
ancora vivo, e nessuna pretesa scientifica, peraltro sempre indefinita,
incerta, discussa fra gli stessi scienziati e comunque sempre cangiante,
può affermare di conoscere il momento della morte dell'uomo carnale.
Ci è stato insegnato che l'uomo è composto dal corpo
che lo sostanzia e dall'anima che lo informa, e che il concetto di vita
è il risultato della combinata azione dell'anima che, informando
il corpo, rende un essere umano "animato", cosí che quest'essere
può considerarsi estinto nel corpo, o "inanimato", solo quando viene
meno quest'azione dell'anima: cioè quando l'anima abbandona il corpo.
Solo allora il corpo dell'uomo è veramente morto: ogni altro discorrere
sui sintomi corporei piú diversi, tanto dibattuti e tanto sconosciuti,
che si pretende per di piú misurare con degli strumenti artificiali,
è mera presunzione tutta umana e dispregio del mistero della vita
che ci viene da Dio e di cui a Lui solo dobbiamo rendere conto.
Come si vede chiaramente, Eminenza, non si tratta di un semplice problema
di applicazione tecnologica, quasi si dovesse decidere se andare a piedi
o in carrozza, bensí della inaudita responsabilità di squarciare
il petto di un uomo ancora vivo, almeno di fronte al dubbio che non sia
ancora morto, per esportargli, per esempio, il cuore ancora caldo e palpitante.
Il che, ci sembra, forse ingenuamente, ma in modo del tutto evidente, sia
cosa inammissibile, mostruosa e quasi sicuramente contraria alla volontà
di Dio. Non ci è stato detto: non uccidere?
Si potrebbe osservare che ci sono tanti scienziati, cristianamente informati,
che si occupano attentamente del problema; ed è anche col loro consenso
che si è giunti alla pratica dei trapianti e alle legislazioni civili
che stabiliscono le norme per questi macabri rituali moderni. È
vero, il problema infatti è molto complesso e non potrebbe essere
liquidato con qualche argomentazione basata sulla ripulsa istintiva di
certe pratiche moderne. Ma, date le condizioni complessive del mondo in
cui viviamo, in noi alberga il sospetto che uno dei fattori che presiede
alla formazione delle opinioni di chiunque consista nell'accettazione,
anche passiva o inconsapevole, della tecnologia manipolatoria della vita
umana; magari sostenuta da argomentazioni che, a prima vista, possono apparire
caritatevoli.
Abbiamo l'impressione che il processo che ha informato il rapporto
fra la morale cattolica e il mondo scientifico moderno, in questi ultimi
secoli si sia svolto in maniera alquanto anomala: prima si è giunti
alla sperimentazione di certe pratiche, fuori dalla disciplina della Chiesa
e spesso contro la Chiesa, poi queste pratiche sono state proposte, applicate
e diffuse fra la gente, e quindi la Chiesa è stata costretta a misurarle
con la sua dottrina e a considerarle lecite o illecite.
Non è una sottigliezza, Eminenza, qui ci troviamo di fronte
ad una realtà tanto complessa quanto sovversiva, una realtà
che, ormai da qualche secolo, pone prima la Chiesa di fronte al fatto compiuto
e poi la costringe a pronunciarsi pro o contro, mettendola nella triste
situazione di sconcertare i fedeli o di rassicurarli. Nasce da una tale
condizione il problema dell'adeguamento del magistero morale della Chiesa,
adeguamento che, giorno dopo giorno, si è talvolta rivelato come
un cedimento alle esigenze tutte umane di questo mondo che di Dio non vuol
sentir parlare.
Chi può mettere in dubbio che il trapianto di un organo vitale
ha dato a molte persone la possibilità di vivere ancora, a fronte
della certezza di una morte immediata? È anche su considerazioni
come queste che si basa la condivisione dei trapianti: su considerazioni
intrise di pietà per le sorti terrene di un individuo! Anche a voler
ammettere che il prolungamento della vita di un individuo sia un atto di
misericordia, cosa che da sola solleva un numero enorme di pesanti interrogativi,
sia per il metodo sia per il merito, è accettabile che un problema
cosí complesso, che attiene al mistero piú oscuro della esistenza
umana, al mistero della vita e della morte, possa ridursi alla semplice
pietà per un uomo che non vuole morire e che riesce a prolungare
la propria permanenza in questo mondo magari per qualche anno e spesso
per pochi giorni?
Ci permettiamo fare osservare, Eminenza, che nelle nostre parrocchie
si sente parlare sempre meno della preparazione ad una buona morte, dell'affidarsi
alla volontà di Dio che ci chiama a Sé quando vuole e come
vuole, della sofferenza come oblazione dell'uomo. Anzi, mentre una volta
si considerava, per esempio, la morte improvvisa come una eventualità
da cui si pregava Iddio di liberarci, oggi ci si compiace nel considerare
che… poveretto, cosí non ha sofferto! e non si fa piú caso
al fatto che magari, il poveretto, non è morto in grazia di Dio
e che per questo, probabilmente, perderà l'anima sua. Anzi, i morti
non in grazia di Dio, i suicidi, per esempio, vengono considerati alla
pari di altri che muoiono con la dovuta preparazione cristiana; e sempre
con motivazioni di malintesa pietà cristiana.
È questa la triste realtà, Eminenza: dalla pazienza all'accettazione,
dall'accettazione alla condivisione e alla soggiacenza, magari fino alla
riduzione al minimo della dottrina e della morale.
Può sembrare, Eminenza, che qualcuna delle nostre considerazioni
sia esagerata, eppure quando ci chiediamo qual è l'atto di maggiore
responsabilità che, in termini morali, coinvolge il destino ultimo
dell'uomo, non possiamo che correre con la mente e col cuore agli innumerevoli
richiami di nostro Signore, dei Padri e dei Santi: la vita non ci appartiene
e non possiamo prepararci ad essa, possiamo solo viverla e dobbiamo viverla
in ossequio ai comandamenti del Creatore; alla morte possiamo invece prepararci,
con una vita santa. Come dire che di fronte ai due momenti cruciali del
nascere e del morire, solo nei confronti della morte abbiamo un certo potere:
imitando nostro Signore che ha sconfitto la morte e unendoci a Lui che
è il Signore della vera Vita.
Ora, se le preoccupazioni correnti fanno prevalere il desiderio del
prolungamento di questa vita terrena, come stupirsi se si arriva poi fino
allo scambio fra un moribondo e un sopravvivente? Come far capire che è
piú importante considerare dubbia la morte di un uomo piuttosto
che, nel dubbio, considerarlo morto per far sopravvivere un altro? Su cosa
possiamo seriamente basare l'idea che ci sia un vero valore nel prolungamento
artificiale della vita di un uomo? Ma, soprattutto, come possiamo continuare
a dirci cristiani di fronte al dubbio che abbiamo ucciso un uomo, sia pur
moribondo, per prolungare la vita di un altro moribondo?
Quando la scienza dà per certa la morte del "donatore" (eufemismo
per indicare colui a cui si strappano le viscere), la cosa può anche
essere vera: con la scienza non si può mai dire. Ma questa stessa
scienza ci fa dire che può anche essere non vera. Per esempio, la
scienza è in grado di fecondare un ovulo di una donna in "coma irreversibile
con encefalogramma piatto" con uno spermatozoo di un uomo in "coma irreversibile
con encefalogramma piatto"; è in grado di assistere e di far portare
a compimento la gestazione di questa donna, ed è in grado di far
nascere un figlio da questa mostruosa operazione subumana. Ebbene, il figlio
nato da questi due esseri, che è un essere vivo, è il figlio
di due vivi o di due morti? Se egli è vivo è quasi certo
che è il frutto della vita, cioè figlio di due vivi, quindi
i due esseri in "coma irreversibile con encefalogramma piatto", non essendo
morti, non potrebbero e non dovrebbero essere sottoposti a espianto di
organi. Questo invece accade, normalmente, con tanto di avallo da parte
di tutti, anche dell'autorità religiosa. Se invece i due esseri
da cui è nato questo figlio fossero morti, non v'è dubbio
che si tratterebbe di una sorta di operazione necromantica, che invero
avrebbe molto dell'assurdo oltre che del diabolico: una vita generata da
due morti. Certamente sorgerebbero una miriade di interrogativi. Il figlio
nato è un essere normale? La sua vita sarebbe da considerare alla
pari con quella di un nato da due vivi? E ancora. Di chi è figlio
questo nuovo nato? Figlio dei morti?
Certo, come non pensare che non vi sono limiti alla Onnipotenza divina!
Chi ci dice che un tale sviluppo non rientri nei disegni imperscrutabili
di Dio? E via di questo passo. Oh! Eminenza! Quante volte, in questi ultimi
anni, abbiamo sentito discorsi siffatti lanciati dai "pulpiti" delle nostre
chiese! E a proposito delle cose piú diverse: della salvezza dei
miscredenti o della giustificazione degli impenitenti, per esempio. Il
varco è aperto: per quanto angusto, da esso fluiranno tutti i piú
perniciosi fumi e i piú vischiosi liquami del Demonio.
Tutto si giustifica, oggigiorno, tutto diviene oggetto di malintesa
misericordia, tutto viene accettato come passibile di "confronto", di "dialogo":
perché no! parliamone! E ci si dimentica molto spesso che il Diavolo
è buon teologo.
Tutto ciò che avviene in questo mondo, pur rientrando necessariamente
nei disegni di Dio, non per questo può essere giustificato, anzi,
in linea di principio, tutto ciò che attiene a questo mondo attiene,
per ciò stesso, al Príncipe di questo mondo.
Diremo allora che tutta la preoccupazione dell'uomo per la sua esistenza
terrena è da guardare con disprezzo? Certo che no! Ma altrettanto
sicuramente staremo attenti a considerare che il Suo Regno non è
di questo mondo e che, quindi, le opere del mondo e per il mondo vanno
tutte soggette a cauzione: non è guardando al mondo come bene che
si può scoprire in esso l'errore, ma è sapendolo ferito dal
peccato originale che in esso si può e si deve cercare di compiere
il bene; e il bene del mondo è massimamente la sua giustificazione
ultima in Cristo, che ricapitola in sé tutte le cose, quelle del
cielo e quelle della terra.
Diremo allora che tutta la medicina è malvagia? Certo che no!
Ma con altrettanta sicurezza sappiamo che non della medicina si tratta,
se intesa come tentativo per alleviare le sofferenze corporee della debolezza
umana, bensí di un pericoloso andazzo che guarda al futuro come
se la morte potesse essere sconfitta per mano d'uomo. Il che, in altri
termini, significa che ci troviamo di fronte al totale misconoscimento
della vera realtà: che cioè la morte è stata sconfitta
una volta per tutte dall'Unico vero Uomo totale e perfetto: il nuovo Adamo,
il Figlio di Dio e Salvatore nostro Gesú Cristo.
Senza parlare di certe disastrose conseguenze che si producono con la
diffusione di certa tecnologia. Conseguenze che potrebbero elencarsi per
giorni interi, in relazione a tutti i campi del vivere odierno. Ma in relazione
al problema dei trapianti, come impedire che l'illusione dell'uomo della
strada, senza piú alcun freno neanche da parte della Chiesa, conduca
fino all'errato convincimento che qualunque "fastidio" fisico, e perfino
psichico, possa essere alleviato ed anche eliminato con la tecnologia medica?
Come frenare la pericolosa tendenza che ormai vede coinvolte milioni di
persone che si fanno trapiantare di tutto? Che si fanno ritoccare, correggere,
manipolare ogni piú impensabile parte del corpo? E cosa ancora piú
grave: come frenare, come impedire che, anche in questo campo, si instauri
la corsa alla ricerca affannosa, indiscriminata, talvolta criminale, molte
volte disonesta, dei pezzi di ricambio umani, al fine di soddisfare la
sempre maggiore richiesta del "mercato"?
Certo, Eminenza, la Chiesa ha condannato, condanna e continua a condannare
ogni eccesso. Non v'è dubbio. Ma è anche fuori d'ogni dubbio
che l'eccesso che oggi si condanna è relativo ad una norma che solo
l'altro ieri veniva considerata essa stessa un eccesso. Cosí che
molti credenti finiscono col convincersi che ciò che è condannato
oggi non lo sarà piú domani, quindi, perché aspettare
domani? Le stesse legislazioni "civili" prevedevano che una persona poteva
essere dichiarata morta solo dopo l'assenza di attività cardiaca
verificata per 24 o 48 ore: adesso, invece, basta un apparecchio che dica
che il cervello non emette piú segnali (?!), ed eccoti bello e pronto
un corpo ancora caldo da squartare e un cuore ancora pulsante da espiantare.
Dove andremo a finire di questo passo? Non esageriamo, Eminenza, poiché
è risaputo che quanto ha insegnato la Chiesa fino a qualche anno
fa, oggi viene considerato come "superato"… no, non solo dai miscredenti,
non solo dai laici, ma dai credenti, dai chierici, dai Parroci, dai Pastori,
anche se, grazie a Dio, non da tutti.
È questo un fatto di cui l'Eminenza Vostra può darci
atto meglio di tanti altri, vista la possibilità che Vostra Eminenza
ha di sentire piú da vicino un certo "polso" della Chiesa militante.
La vicenda del piccolo Gabriele è piú che mai indicativa,
a questo riguardo: una povera madre e un povero padre cattolici praticanti
e convinti del valore dell'atto di carità, hanno deciso, sono stati
indotti, hanno finito col ritenere (non sappiamo bene in che modo, ma poco
importa) che si potesse portare a compimento la gravidanza di un bambino
malformato per poi usare i suoi organi in medicina. Vero è che il
primo moto dell'animo loro fu costituito dal rifiuto, piú che corretto,
dell'aborto cosiddetto terapeutico, ma, oseremmo dire, inevitabilmente
sono giunti a considerare come un valore affidare la vita del proprio infelice
figlio, non alla misericordia ed alla volontà di Dio, ma alla volontà
dell'uomo, della medicina umana. Come potevano accorgersi, cosí
presi dalla valorizzazione a senso unico dell'atto di carità, che
sarebbero stati utilizzati (anche senza alcuna cattiva volontà),
loro e il loro figlio, come esempio lodevole per trasformare il mancato
uso dell'aborto terapeutico in una pratica ancora piú agghiacciante:
la gestazione "produttiva" di pezzi di ricambio umani? Se la vicenda non
si fosse conclusa in maniera tragica, se non si fosse sollevato un vespaio,
per le poche resistenze ancora in atto, sarebbe stato facile, in seguito,
sollecitare l'imitazione di altri genitori. Chi avrebbe avuto qualcosa
da ridire se poi si fosse giunti a tenere in vita i bambini malformati
fino ad una certa età, per avere organi piú sviluppati da
trapiantare? Eccesso, certo, ma derivato da un atto ormai considerato lecito,
come sarebbe poi divenuto lecito l'eccesso del momento.
Possiamo pensare, Eminenza, che la cosa sia finita lí? Che non
ci saranno nuove prove e nuovi tentativi, magari esperiti attraverso percorsi
differenti?
Ma, Eminenza Reverendissima, c'è anche un altro aspetto del problema
che ci angustia e ci pone in uno stato di timore quasi panico.
Ci è stato insegnato che l'anima informa il corpo e che questo
"composto" costituisce l'essere umano: un essere la cui componente essenziale
è la parte non sensibile, l'anima, a fronte della parte sensibile,
il corpo, che è quella non essenziale. Una siffatta intrinseca solidarietà
fra l'anima e il corpo è caratterizzata, tra l'altro, dalla immortalità
dell'anima a fronte della mortalità del corpo. Ne deriva che potendosi
verificare la morte di una parte del corpo, come nel caso dell'amputazione
di un arto, questo fatto non può implicare una corrispondente limitazione
dell'anima. Cosa questa tanto vera per quanto è possibile concepire
la resurrezione dei corpi sulla base della persistenza dell'interezza dell'anima
nonostante la distruzione del corpo.
Da questi brevissimi ed incompleti cenni si può dedurre che
la intrinseca solidarietà fra l'anima e il corpo non subisce violenza
alcuna per la morte di una parte del corpo: che la persistenza dell'anima
non dipende dalla "quantità" di corpo sussistente in vita.
Ora, non sorge spontaneo chiedersi che cosa accade a questo "composto"
umano, di anima e corpo, allorché il cuore di un uomo, per esempio,
continua a vivere nel corpo di un altro uomo? Che significa questa commistione
tra due "composti" umani? L'anima del primo uomo morto, ma il cui cuore
vive nel corpo di un altro uomo, come si relazionerà, se cosí
si può dire, con l'anima dell'uomo vivo nel cui corpo batte il cuore
dell'uomo morto? Si verificherà una "interferenza" tra le due anime,
se è lecito esprimersi cos’? Si può pensare che l'anima dell'uomo
considerato morto possa, in qualche modo, subire degli inconvenienti a
causa della persistenza in vita di una o piú parti del corpo? Si
può supporre che, in ultima analisi, né l'anima del morto
possa liberarsi dal vincolo sensibile del corpo, né il vivo possa
sottrarsi all'interferenza dell'anima del morto?
Tutti questi interrogativi, che potrebbero essere ancora piú
estesi e piú profondi, hanno già una risposta nella dottrina
della Chiesa? E se sí, tale risposta è legittimamente rientrata
nella definizione dell'avallo della pratica dei trapianti da parte della
Chiesa?
Eminenza Reverendissima, dove dobbiamo cercare per questa risposta?
Una volta c'erano i nostri Parroci, ma oggi anch'essi, come noi, sono
perduti e impotenti in mezzo a questo turbinio di voci, di grida, di cose,
di fatti, di vita che non si sa piú dove vada! A chi dobbiamo rivolgerci,
Eminenza?
È un grido quasi disperato il nostro, se non fosse che troviamo
ancora conforto nelle promesse di nostro Signore e nella speranza della
salvezza che da Lui ci viene. Ma è tempo che la gerarchia che regge
le sorti terrene di Santa Madre Chiesa si scrolli di dosso un certo timore
nei confronti di certa "civiltà", un certo "complesso di inferiorità"
nei confronti di tante decantate "conquiste" che puzzano troppo di zolfo:
i fedeli piú attenti si sentono abbandonati e misconosciuti, i fedeli
piú forti si sentono confusi e intimiditi, i fedeli piú deboli
cadono ogni giorno di piú in preda all'illusione e alla deviazione,
i fedeli piú lontani non scorgono neanche piú da che parte
stia la Chiesa.
Ci perdoni questo sfogo, Eminenza, ma sentivamo il bisogno di confessarLe
queste nostre sofferte riflessioni, per le quali ci scusiamo di non essere
in grado di saperle esporre in maniera compita e completa. Ma sentivamo
anche il dovere, come cattolici, di esprimere con sincerità le nostre
perplessità, i nostri imbarazzi, le nostre rimostranze. Sentivamo
soprattutto come un nostro obbligo il dover sottoporre all'Eminenza Vostra
le nostre sincere, disinteressate e convinte proteste per certo andazzo
che nella nostra Chiesa sta diventando ogni giorno piú inaccettabile.
Certi della paterna benevolenza e della pastorale comprensione di Vostra
Eminenza, ci permettiamo di pregarLa di concederci la santa benedizione,
mentre assicuriamo le nostre preghiere per il bene dell'Eminenza Vostra
Reverendissima e di tutta la Santa Chiesa, che rivolgiamo devoti, per intercessione
della santa Madre di Dio, Maria Santissima, al Sacratissimo Cuore del suo
figlio, Unigénito dal Padre: il nostro Signore e Salvatore Gesú
Cristo, a Lui lode e gloria nei secoli dei secoli.
Sia lodato Gesú Cristo.
Carmagnola, 24 febbraio, san Mattia Apostolo, a. D. 1998.
Il Presidente: Calogero Cammarata
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