CONSIDERAZIONI A MARGINE DEL PELLEGRINAGGIO ROMANO
(12/98)
Per chi ha avuto la possibilità di recarsi a Roma, si è
trattato di una esperienza inaspettata (per la nostra Associazione si sono
recati a Roma il Presidente e un consigliere).
Non tanto per le celebrazioni liturgiche, né per il contenuto
dei discorsi fatti dai diversi oratori, quanto piuttosto per la piacevole
constatazione che la realtà del tradizionalismo cattolico non è
solo costituita da persone “legate ad alcune forme liturgiche e disciplinari
anteriori”, come affermava dieci anni fa il Papa nel “motu proprio” e come
ha stranamente ribadito nel suo saluto ai pellegrini; ma è costituita
anche da un nutrito numero di laici, di religiosi e di preti, molto giovani,
che non potendo certo essere “legati ad alcune forme liturgiche anteriori”,
si sono rivolti alla antica liturgia della Chiesa per dare una risposta
seria ed adeguata al loro bisogno, di uomini e di donne di questo tempo,
di rendere grazie a Dio in spirito di verità.
Certo è, che se questi giovani avessero potuto trovare una tale
risposta nella nuova liturgia, in quei giorni non sarebbero stati lí,
a Roma, a ricordare al Papa e ai loro vescovi che il “rinnovamento liturgico”
post-conciliare con loro ha fallito.
Intendiamoci, considerato che ai giorni nostri tutto si misura in termini
di quantità, non è certo alle migliaia di pellegrini e alle
centinaia di religiosi e di preti che pensiamo: sarebbero poca cosa rispetto
ai milioni di cattolici. Ma, considerato che in questi trent'anni si è
fatto di tutto per criminalizzare moralmente e religiosamente chi intendeva
rimanere fedele alla liturgia tradizionale, usando e abusando della semantica
e del diritto canonico; e considerato altresí il dispregio usato
da molti vescovi nei confronti di quei fedeli che hanno sperato e ancora
sperano nel mantenimento della liturgia tradizionale; non v'è dubbio
che quei giovani convenuti a Roma sono da guardare come degli ardimentosi.
La constatazione di questo dato di fatto è cosa che deve indurre
ad una seria riflessione, poiché occorre mettere in essere tutto
quando è possibile per dare man forte a questi giovani, soprattutto
a questi giovani preti e a questi giovani religiosi.
Tuttavia, tale riflessione deve tenere conto anche degli altri elementi
che sono emersi nei tre giorni di pellegrinaggio.
Innanzi tutto va considerata la strana dicotomia tra il contenuto del
“motu proprio” e le istanze dei pellegrini. In realtà il “motu proprio”
non è altro che una risposta del tutto contingente alla situazione
che si venne a determinare con la scomunica di mons. Lefebvre e dei quattro
vescovi da lui ordinati. La comprensione dichiarata dal Papa in quel documento
era fondata sulla convinzione che, in fondo, si trattasse di persone appartenenti
ad una categoria in via di estinzione. Sarebbe bastato costringerli in
qualche modo a non andare con mons. Lefebvre e concedere loro qualche Messa
ogni tanto, perché tutto si sarebbe ridimensionato. Ma i pellegrini
che sono convenuti a Roma hanno dimostrato, col loro numero, con la loro
perseveranza e con la loro età, che non solo hanno poco a che vedere
con quello che è accaduto 10 anni fa, ma che rappresentano una realtà
della Chiesa e nella Chiesa formatasi nella piena consapevolezza che il
Concilio e il post Concilio sono completamente da rivedere.
La dicotomia di cui parliamo si manifesta ancora di piú
per il fatto che il Papa ritiene di potersi rivolgere a questi fedeli,
non solo considerandoli per quello che non sono: e cioè delle persone
legate “ad alcune forme liturgiche”, ma invitandole, per un verso, a restare
sulle loro posizioni e, per l'altro, a riconoscere la bontà della
riforma liturgica post-conciliare.
È evidente che c'è qualcosa che non va; e certo non da
parte dei fedeli, i quali, ci sembra, siano stati chiari abbastanza.
D'altronde, non è neanche possibile pensare che il Papa non conosca
a sufficienza la realtà in questione. Il Papa sa bene che coloro
che si rivolgono alla liturgia tradizionale lo fanno proprio perché
non riescono ad accettare la nuova liturgia; perché la nuova liturgia
è manchevole, insoddisfacente e perniciosa sotto molto aspetti,
sia in sé stessa, come è stato fatto notare a Paolo VI fin
dall'inizio (vedi il Breve esame critico della nuova Messa,
presentato a Paolo VI nel 1969 dai cardinali Bacci e Ottaviani), sia perché
ha introdotto la banalizzazione del rito cattolico, con la conseguente
banalizzazione della dottrina.
Com'è possibile che questi fedeli possano guardare con
rispetto e ubbidienza al Vaticano II, che come dice lo stesso Papa ha prodotto
la nuova liturgia?
Ecco un altro elemento di riflessione offerto dal pellegrinaggio a Roma.
C'è chi fa osservare che il Papa e il card. Ratzinger in fondo
hanno ragione a ripetere che è necessario l'ossequio al Vaticano
II, perché non è tanto il Concilio il responsabile dello
sconquasso liturgico, ma piuttosto le interpretazioni che ne sono state
fatte e le applicazioni che, di conseguenza, ne sono scaturite.
Una tale osservazione può anche avere una sua giustificazione,
ma è difficile svolgere il ragionamento fino alle sue estreme conseguenze,
senza incappare in un ostacolo ancora piú grande di quello costituito
dalla tenacia dei tradizionalisti.
Seguendo il filo logico di un tale ragionamento, si dovrebbe giungere
alla "reinterpretazione" dei documenti conciliari; reinterpretazione che
necessiterebbe inevitabilmente di una guida solida e infallibile.
Chi dovrebbe ricominciare tutto daccapo o, come dice il card. Ratzinger,
“riformare la riforma”? I vescovi? Quegli stessi vescovi che hanno male
interpretato il Concilio? Quegli stessi che hanno sconvolto le facoltà
teologiche e che hanno allevato una nuova generazione di preti a immagine
e somiglianza delle loro cattive interpretazioni post-conciliari?
Ma c'è di piú. Affermare che il post Concilio ha stravolto
il Concilio (cosa che hanno fatto persino certi vescovi tra i piú
convinti della necessità del "rinnovamento"), significa ammettere
che in maggioranza i vescovi hanno sbagliato. Ma soprattutto significa
ammettere che sono possibili almeno due diverse interpretazioni del Concilio:
quale delle due è quella giusta? E per quale strano motivo si è
potuti giungere a tanto: se non perché le dichiarazioni del Concilio
sono equivoche? E chi potrà risolvere gli equivoci senza di fatto
riscrivere buona parte dei testi conciliari?
E qui sorgono altre due questioni su cui è altrettanto indispensabile
riflettere.
La prima è che bisogna dire chiaramente che il problema di cui
si tratta non è relativo solo alla celebrazione della S. Messa,
anche se questa è chiaramente il punto focale di tutta la liturgia
della Chiesa, ma alla amministrazione di tutti i sacramenti, alla liturgia
delle ore e alla celebrazione di tutti i tempi piú importanti dell'anno
liturgico: Avvento, Natale, Quaresima, Passione, Pasqua, Ascensione e Pentecoste,
senza contare le festività del Signore e della Santa Vergine.
È evidente che, considerando le cose da questo punto di vista
piú ampio, vengono ad essere interessate, oltre alla liturgia, la
dottrina e la pastorale: com'è logico, d'altronde; poiché
il problema della liturgia è tale non per le sue implicazioni estetiche
o formali o sentimentali, ma essenzialmente per le sue implicazioni dottrinali.
La seconda questione scaturisce direttamente dalla prima, e consiste
nella impossibilità di poter ammettere la eventuale coesistenza
di due diverse liturgie, interscambiali a piacimento, tanto da complicare
piuttosto che risolvere il problema: per l'inevitabile prodursi di nuova
confusione.
Verrebbe subito da pensare che la strada da seguire debba avere come
punto di arrivo il ritorno di tutta la Chiesa alla liturgia di sempre:
il problema verrebbe cosí risolto. Ma si comprende facilmente che
si tratta di una impossibilità, almeno a medio termine, poiché
sarebbe come non tenere in alcun conto il fatto importantissimo che il
Concilio e la riforma sono stati un punto di arrivo e non un punto di partenza.
Si è trattato sí di una sperimentazione spericolata, ma che
ha tradotto in pratica, sia pure in maniera maldestra, i profondi convincimenti
di una vasta corrente di prelati che erroneamente ritenevano e ritengono
superata la vecchia Chiesa e ne volevano e ne vogliono una nuova.
Si può pensare allora alla possibilità di giungere ad
una sorta di via di mezzo: che tenga conto della realtà ormai consolidata
della nuova liturgia e, al tempo stesso, della necessità di recuperare
tutti gli elementi fondanti della vecchia liturgia. Una sorta di avvicinamento
progressivo delle due liturgie che conduca ad una terza: in grado di coniugare
le istanze della nuova con le esigenze dell'antica.
In teoria una strada del genere potrebbe essere praticabile, ma in
pratica si tratterebbe solo di un espediente per aggirare gli ostacoli;
poiché si sa bene che stiamo trattando di una materia che non ammette
compromessi o mediazioni: solo una chiara adesione alla sana dottrina e
un concorde assenso dei cuori e delle menti possono permettere che si apportino
alla antica liturgia certi adattamenti, ma in questo modo si torna subito
al punto di partenza.
Come si vede, la questione è molto complicata, ed allora si comprende
anche perché a Roma, in questa occasione, le cose non dette sono
state piú di quelle che abbiamo ascoltate, spesso con un vago senso
di insoddisfazione e di delusione.
L'unica personalità che si è un po' sbilanciata, per quanto
attiene alle proposte di lavoro, è stato Dom Gérard. Le sue
proposte, che riportiamo in un altro articolo, delineano forse l'unica
strada praticabile.
La possibilità di costituire un ámbito specifico in seno
alla Chiesa, che mantenga l'antica liturgia, curi la crescita delle vocazioni,
regga nuovi seminari ed amministri i Sacramenti ai fedeli, è da
considerare con molta attenzione e benevolenza, poiché si tratterebbe
di una soluzione che non mira, a breve o a medio termine, a risolvere tutte
le questioni.
La costituzione di un ámbito siffatto potrebbe produrre due
effetti importanti.
Primo: risolverebbe ogni contrasto attuale, perché, da un lato
assicurerebbe la tranquilla esistenza dei tradizionalisti, che non potrebbero
piú essere considerati come dei sospetti reazionari, permettendo
loro di accedere ai Sacramenti senza piú problemi; e dall'altro
lascerebbe la riforma liturgica attuale come quella generale della Chiesa,
senza che nessuno dei novatori possa sentirsi minacciato.
Secondo: a fronte di questa esperienza quotidiana della liturgia antica,
con tutto quello che questo comporta dal punto di vista dottrinale e pastorale,
si aprirebbe un tempo di riflessione ponderata sulla portata delle innovazioni,
permettendo la nascita di gruppi di studio che, nei tempi e nei modi dovuti,
potrebbero esprimersi sugli sbocchi futuri della liturgia, della dottrina
e della pastorale stesse; usando della antica saggezza della Chiesa che
ha sempre lasciato al tempo il compito di fare decantare le turbolenze.
Ci rendiamo conto che una soluzione del genere non risolve tutti i problemi,
anzi ne crea anche degli altri; ma riteniamo che questi ultimi possano
considerarsi meno importanti a fronte di quelli esistenti.
Per esempio, si corre il rischio che un tale ámbito finisca
con l'assumere connotazioni da ghetto, sia dal punto di vista dei novatori,
sia da quello degli stessi tradizionalisti: con i primi che guardano ai
secondi come alla "riserva indiana", e con questi ultimi che si considerano
dei "puri".
Questo ed altri rischi simili si possono correre: poiché allo
stato attuale le cose non stanno molto meglio, anzi sicuramente peggio.
In quanto a stabilire con quale forma un tale ámbito dovrebbe
essere organizzato, non è cosa di difficile soluzione, poiché
basterebbe che fossero salvaguardate le prerogative dell'autonomia dagli
Ordinari e della autonoma gestione dei seminari; fermo restando l'obbligo
di attenersi ai libri liturgici antichi e alla disciplina ecclesiastica.
Un altro elemento di notevole importanza su cui riflettere è
che i laici di area tradizionalista devono prendere coscienza della necessità
che la loro presenza divenga sempre piú tangibile e piú organizzata,
tale da rendere con evidenza che ci si trova al cospetto di una realtà
non trascurabile. Poiché, anche dopo questo pellegrinaggio romano,
di questo si tratta: di una realtà che non può piú
essere trascurata da nessuno, neanche dai piú convinti modernisti.
Ovviamente, non ci riferiamo tanto all'aspetto quantitativo, ma piuttosto
al profondo significato che esprime la convinta e tenace sussitenza dei
tradizionalisti a trent'anni dall'entrata in vigore della liturgia post-conciliare.
Soprattutto se si tiene conto dei tanti ripensamenti che si sono prodotti
in seno alla gerarchia a fronte dei risultati ottenuti con la riforma.
Ove si pensi, poi, che la buona volontà di tanti chierici trova
spesso degli ostacoli insormontabili nel loro stesso stato, per ovvi motivi
di disciplina ecclesiastica, si comprende bene come spetti in primo luogo
ai laici offrire quella testimonianza di fede che, a Dio piacendo, potrebbe
produrre gli effetti piú insperati.
Vi sono molti modi per realizzare iniziative adatte a seconda delle
circostanze, ma, per prima cosa, occorre abbandonare l'atteggiamento di
riservatezza cosí diffuso nell'area tradizionalista, ed incominciare
a realizzare una rete di collegamenti reale e produttiva. Si otterrebbero
cosí alcuni risultati immediati: contarsi, informarsi a vicenda,
agire di concerto, se è il caso, e insieme se e quando è
possibile.
In conclusione non è azzardato dire che il pellegrinaggio a Roma
ha segnato, in qualche modo, un punto fermo, una svolta, che, a Dio piacendo,
potrebbe condurre a nuove prospettive tutto il mondo tradizionalista cattolico,
e, com'è logico, la stessa intera Chiesa.
Per intanto una cosa di grande importanza è stata fissata dai
fatti: il tradizionalismo cattolico non è un "fenomeno" marginale,
né una cosa da "conventicola", come vorrebbero far credere i modernisti
e i novatori; al contrario, è una realtà della Chiesa e nella
Chiesa: una realtà che, per il semplice fatto che si sforza di tenere
la difficile posizione "controcorrente", dimostra che nella Chiesa vi è
ancora gente disposta a vivere con sacrificio e con disinteresse l'insegnamento
di Nostro Signore, senza curarsi del facile consenso degli uomini e del
mondo.
Tutto si può dire dei tradizionalisti, anche le sciocchezze da
quattro soldi degli psicologi e dei sociologi che ormai imperversano nei
seminari, ma la loro sussistenza, nonostante tutto, in questi trent'anni
di cambiamenti interminabili è la prova che la loro strada è
percorribile, la loro convinzione è fondata, la loro tenacia è
premiata, e che tutto questo, in un mondo come il nostro cosí disordinato
e dimentico di Dio, non sarebbe stato possibile senza la provvidenziale
assistenza dello Spirito Santo e la materna benevolenza della Santa Vergine.
Rendiamo grazie a Dio!
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