A. D. 2000: 26° Giubileo cristiano

Peregrinatio ad Dòminum

(12/99)




Col Natale di quest’anno avrà inizio l’anno giubilare che chiude il secondo millennio dalla nascita di nostro Signore Gesú Cristo.
Fino al 1300 la Cristianità non conobbe un vero e proprio anno giubilare: appositamente promulgato dal Papa; erano invece diffusi i pellegrinaggi verso vari luoghi di culto ove erano custodite le reliquie dei santi: per chiedere il perdono dei peccati usando della loro intercessione. Ovviamente i luoghi principali di pellegrinaggio erano quelli che custodivano le tombe degli Apostoli o reliquie di nostro Signore oppure quelli legati a particolari manifestazioni del sacro: come le apparizioni del Signore o della Madonna. 
A fianco dei pellegrinaggi, talvolta anche di breve tragitto, era diffuso l’uso dell’acquisto delle indulgenze, concesse prevalentemente dal Papa ma anche dai Vescovi, con le quali la Chiesa, soddisfatte certe condizioni, rimetteva le pene derivate dalle colpe commesse e che erano state rimesse con la Confessione.

Questa pratica del pellegrinaggio, oltre al suo aspetto immediato relativo alla espiazione, rappresentò per la Cristianità un segno tangibile del cammino del fedele verso Dio. Il cammino materiale del fedele era espressione sensibile del suo cammino spirituale: i punti di partenza erano diversi, uno per ogni individuo, le stesse vie seguite erano necessariamente diverse, anche perché relative alle diverse individualità, ma la meta da raggiungere era una sola: ad Dominum. 
Che i pellegrini avessero o meno presente questo significato simbolico ed efficace della peregrinatio ad Dominum, poco importa e nulla toglie alla realtà del significato stesso: tanto piú che era ben presente e vissuto il senso della “conversione”, cosí che i pellegrini non si muovevano solo per “lucrare” la remissione delle pene, ma per usare di essa per “convergere” nuovamente a Dio.

Prima del 1300, anno del primo Giubileo promulgato dal Sommo Pontefice Bonifacio VIII, questa pratica della peregrinatio ad Dominum era largamente diffusa: si andava a Roma, centro della Cristianità, o in Terra Santa, centro del mondo: lí ove il Verbo di Dio si è fatto Carne e da dove la sua Grazia si è irradiata per il mondo intero. Era come una anticipazione della Terra Promessa ai giusti: ci si recava nella Geru-salemme terrestre, nella Casa di Dio, presso il suo Santo Sepolcro, quasi per porre una ipoteca, se possibile, sull’accesso futuro alla Gerusalemme Celeste. E ci si comportava in maniera tale da meritarlo: espiando per le colpe e mirando alla conversione.
Non possono esservi dubbi circa la buona volontà dei pellegrini: una buona volontà che si faceva di tutto perché corrispondesse veramente alla “retta volontà”, perché ognuno potesse identificarsi con quegli homines bonæ voluntatis a cui gli Angeli della Natività avevano annunciato la pax che dal cielo scende in terra a seguito della Incarnazione del Verbo.
Uomini diversi, di lingua e cultura mondana diverse usavano un unico linguaggio simbolico per professare e per vivere la fede, si votavano a divenire un unum: volti al medesimo fine, col medesimo mezzo ed usando un’unica e medesima lingua per rivolgersi a Dio.
Per ogni pellegrino che giungeva alla meta era come se avesse percorso il cammino di una vita: una vita vecchia da consumare e da rinnovare, una sorta di morte dell’uomo vecchio che si consumava con i disagi e i pericoli del pellegrinare. E di questi pellegrini non tutti giungevano alla meta, alcuni morivano lungo il cammino, cosí che le vie dei pellegrini erano anche le vie della morte, con una accentuazione sensibile del significato simbolico del pellegrinaggio. Che si giungesse o che si morisse prima, lo scopo del pellegrinaggio era il morire alla vita vecchia per acquistarsi una vita nuova da condurre in comunione col Signore. Morire lungo la via del pellegrinaggio era un morire sulla via che conduce a Cristo. 
Perfino nei suoi aspetti piú elementari, legati al semplice sentire del malato, per esempio, che si recava a chiedere la guarigione, erano presenti gli stessi significati: si andava per ottenere il “rinnovellamento”, la morte del vecchio e la grazia dell’acqui-sizione del nuovo. A suo modo era una sorta di imitatio Christi che cercava di anticipare in vita la promessa della resurrezione futura.
Fu a partire da questa pere-grinatio ad Dominum che nacquero le Crociate, indipendentemente da ciò che accadde poi per le debolezze degli stessi uomini.

Oggi le cose sono cambiate, inevitabilmente, ed è molto difficile per noi uomini moderni riuscire a cogliere appieno il sentire religioso dei nostri lontani antenati. Le disquisizioni storiche a cui ci siamo assuefatti da tempo invece di aiutarci ci fuorviano: e riusciamo a stento a concepire come un tempo si potesse intraprendere un viaggio periglioso al solo scopo di andare a pregare sulla tomba dell’Apostolo Pietro per chiedere la grazia della conversione.
Allo stesso modo è difficile, per noi oggi, comprendere come la valenza primaria del pellegrinaggio consistesse nella conversione personale, piuttosto che nella pratica di opere di carità. Il pellegrino non si poneva al servizio del prossimo, ma si sforzava di emendare e rinnovare sé stesso, con una lucida e profonda aderenza al significato reale dell’esistenza. Solo un uomo nuovo, rinnovato veramente in Cristo, poteva poi essere d’aiuto al suo prossimo. Quasi una particolare applicazione del comandamento del Signore: ama il prossimo tuo come te stesso. Un amore per “sé stessi” percepito secondo il suo significato piú intimo e piú integro: essere anzitutto una cosa sola con Cristo.
È questo che spiega come i pellegrini trovassero aiuto e ospitalità ovunque, come addirittura sorgessero appositi ospizi a cui potessero appoggiarsi, come la carità cristiana fosse loro rivolta piuttosto che richiesta: cosa possibile solo a condizione che un tale atteggiamento corrispondesse al sentire complessivo del popolo cristiano. Il pellegrino non era un poveretto bisognoso di assistenza, ma quasi un sant’uomo votatosi alla piú completa e profonda conversione: è da qui che scaturiva il rispetto della gente.
D’altronde, non si può spiegare diversamente il sorgere degli Ordini cavallereschi cristiani che si votavano alla cura ed alla tutela dei pellegrini che si recavano in Terra Santa. Sarebbe veramente ridicolo leggere in chiave mercantile ed utilitaristica la motivazione che spingeva molti fedeli, di cui diversi nobili e ricchi, a farsi cavalieri “difensori del Santo Sepolcro”, a vivere per anni lontano dalla propria famiglia e magari a morire in difesa dei pellegrini e dei Luoghi Santi. Solo una bruta e radicata mentalità edonistica, resa arida e vile dal progressivo allontanamento da Dio, ha potuto pensare, e può pensare, che si trattasse di una “voglia di possesso”.

Oggi sembra che si parli di “un altro mondo”, e per certi versi proprio di questo si tratta. 
La Cristianità, fino al Medioevo, pur con le inevitabili pecche che sono proprie degli uomini, ci ha lasciato un tesoro inestimabile di ricchezza spirituale: un modo di sentire e di essere che è lontanissimo da quello moderno. I nostri padri furono capaci, cristianamente, di vivere una tensione interiore ed una percezione sottile che li portavano tanto piú vicini a Dio per quanto oggi si è insensibili ad ogni richiamo religioso e sacrale, in nome di una supponenza che fa della ragione e della libertà umane i nuovi centri intorno a cui si svolge la vita moderna.

Un esempio significativo basta per illustrare tale differenza: quello del turismo.
Questo termine, con il suo significato tutto moderno, ci viene dal francese “tour” (giro) attraverso l’uso quotidiano dell’inglese “tourism” (andare in giro). Nell’accezione moderna esso sta ad indicare lo “spostarsi da un luogo ad un altro per diletto” ed è accostabile all’italiano “girovagare”, con una punta di snobismo circa certe infondate pretese culturali. Oggi si giròvaga, si “fa del turismo”, per il piacere di curiosare qua e là, senza uno scopo ben preciso o una meta da raggiungere: si va in giro per distrarsi, per evadere, per divertirsi, tutti termini che dovrebbero far riflettere sul loro vero significato, sia etimologico sia esistenziale. Senza averne percezione, oggi si vive una condizione oziosa che porta all’astrarre da sé: al lasciarsi trascinare da altro, dal diverso, dall’esotico. È una disposizione sensazionalistica che muove l’uomo a “fare” del turismo o, nella migliore delle ipotesi, una disposizione di curiosità fine a sé stessa.
Il termine “tour”, giro, esprimeva invece significati ben diversi da quelli moderni. Il “girare” era innanzi tutto una imitazione del fluire dell’esistenza, in un modo tale da evitare il suo svolgersi casuale e da fissarne l’“anda-mento” secondo una direzione ben precisa che doveva condurre ad un fine determinato: la consapevolezza del senso della vita e l’aderenza ad esso.
Un tal procedere poteva realizzarsi, a seconda degli individui, con una diversità indefinita: dalle modalità piú elementari fino a quelle piú complesse: cosí che il minimo che si potesse fare era impedire che il fluire dell’esistenza distraesse dallo scopo vero della vita. Un esempio eloquente, seppure ormai svuotato del suo significato, è quello dell’uso simbolico  del “girotondo” dei bambini, col quale si imitava il girare dell’esistenza senza lasciarsi andare alla “dispersione”: il punto intorno a cui si girava era sempre il medesimo, e unico era il luogo in cui si realizzava il “giro”, mentre i “giranti” guardavano tutti lo stesso punto, il centro, e al tempo stesso si guardavano reciprocamente, per tenersi sempre presenti l’un l’altro come esprimeva concretamente quel tenersi per mano che faceva di molti un solo cerchio. 
Tanti antichi “balli” degli adulti erano una variante dal medesimo significato.

Il “giro” compiuto lo si realizzava tramite la religione: col prendere contatto con diversi elementi “viventi” in grado di accrescere la propria aderenza al vero significato dell’esistere: il peregrinare in terra con la meta precisa del ritorno alla propria origine: il seno di Dio, la Patria celeste, il vero Regno. Ci si recava in un dato luogo innanzi tutto per trovarsi tangibilmente vicini ad un luogo sacro: era sempre un passo in avanti lungo la via che conduceva a Dio. Le motivazioni diverse da questa erano solo secondarie, e pure nel caso degli spostamenti necessitati dalle esigenze della vita ordinaria ci si preoccupava sempre di non trascurare la “visita” alla casa di Dio, la piú prossima o la piú umanamente significativa. Non v’era posto per la distrazione, e anche se spesso tutto questo non era ben presente alla consapevolezza del singolo individuo lo si faceva in maniera “normativa”, cosí da realizzare comunque un comportamento corretto, il piú possibile lontano dai richiami della piacevolezza individuale, del capriccio del momento, della curiosità inutile.
Il “giro” delle chiese era un tempo un obbligo a cui nessuno si sottraeva, soprattutto nella Settimana Santa, e il “giro” dei santuari segnava la via dei pellegrini, fino a raggiungere la meta per il percorso piú lungo. Non v’era nessuno che nel corso della propria vita non compisse almeno una volta un grande “giro”: un pellegrinaggio al santuario piú vicino; e tutti, comunque, avevano la possibilità di compiere con regolarità dei piccoli giri: ne sono esempi la Via Crucis, che si poteva realizzare anche all’interno della chiesa, la stessa deambulazione in chiesa lungo le cappelle laterali, la processione in chiesa o da una chiesa all’altra. La liturgia cattolica conserva un ricordo di questi elementi nella processione stazionale delle basiliche romane, in ognuna delle quali si celebra una data Messa nel corso dell’anno liturgico.
Era cosí profondo il senso del “girare” religiosamente, lungi dalle preoccupazioni mondane, che in diverse chiese erano rappresentati dei percorsi simbolici “sostitutivi” del pellegrinaggio. Perfino del pellegrinaggio in Terra Santa. Percorsi che avevano tutti la forma circolare, cosí che si doveva “girare” per compierli. Soprattutto per chi ne fosse impedito, il seguire tali percorsi equivaleva a realizzare un pellegrinaggio vero e proprio: come ancora oggi si fa seguendo il percorso del labirinto della cattedrale di Chartres. Lí si può cogliere quasi “con mano” il vero senso del “girare” correttamente per l’uomo. La via conduce dalla propria “statio” periferica, quella dell’uomo ordinario ai margini del “giro”, alla “statio” centrale, quella ove risiede il Principio della Vita. L’uomo che la compie si reca dalla terra al Cielo, trasformandosi da “uomo carnale” a “uomo spirituale”, realizzando un percorso che non permette distrazioni perché va seguito entro i limiti segnati dal labirinto stesso. È il simbolo evidente della via che permette di non perdersi tra le distrazioni del mondo, di non girovagare per curiosità, di non fare del turismo per il piacere personale; della via che permette di compiere il “giro” della vita sempre avendo in vista l’unica meta dell’uomo: la peregrinatio ad Dominum.

Il Giubileo cristiano nacque dalla pratica del pellegrinaggio; una pratica che non scaturiva direttamente da una qualche prescrizione della Chiesa, ma col tempo si era consolidata ad opera degli stessi fedeli, per l’esempio e la predicazione dei Martiri e dei Santi e per il manifestarsi di eventi miracolosi. Fu in séguito all’inaspettato e poderoso afflusso di pellegrini a Roma, alla fine del 1299, che il Sommo Pontefice Bonifacio VIII si decise a indire la celebrazione del 1° Giubileo, con la Bolla Antiquorum fida relatio, del 22 febbraio 1300, festa della Cattedra di S. Pietro.
Da allora la pratica del Giubileo annesse formalmente la concessione delle indulgenze da parte del Papa al pellegrinaggio a Roma. Per lucrare le indulgenze i pellegrini dovevano obbligatoriamente recarsi a Roma e lí visitare le quattro basiliche patriarcali: San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le mura, San Pietro in Vaticano e Santa Maria Maggiore.
Inizialmente l’indizione del Giubileo fu pensata come coincidente con i centenari della nascita terrena del Signore, ma ben presto esso venne celebrato ad intervalli di 25 anni o di 50 anni. 
Oltre ai Giubilei ordinari i papi indissero anche dei Giubilei “straordinari”, celebrati cioè per specifici motivi, cosí che fino ad oggi si possono contare 25 Giubilei ordinari e 95 straordinari. 
Di questi ultimi il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II ne ha indetti due: nel 1983 (1950° anniversario della Redenzione) e nel 1987 (Giubileo mariano). 
Da notare che l’appuntamento cinquantennale del Giubileo è stato mancato due volte dal 1300: nel 1800 a causa degli eventi della rivoluzione francese e delle sue nefaste conseguenze, comprese le indebite ingerenze di Napoleone; e nel 1850 a causa della definitiva sopraffazione moderna della occupazione di Roma.

Il prossimo Giubileo del 2000 è stato indetto dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II con la Bolla Incarnationis Mysterium, del 29 novembre 1998, 1a d’Avvento. La concessione delle indulgenze è regolata dal decreto della Penitenzieria Apostolica che reca la stessa data.

Recarsi a Roma, in pellegrinaggio, significa recarsi in chiesa, nella casa di Dio, presso le reliquie dei Santi Pietro e Paolo, a pregare nostro Signore che ci conceda la grazia della conversione, per l’intercessione dei Santi Apostoli e della Beata Vergine Maria, con l’aiuto della Santa Chiesa. 
Non ci si può recare a Roma per fare anche del turismo: soprattutto ove si pensi che la tentazione è grandissima, visto che Roma non è piú solo il Centro della Cristianità, ed oggi, in occasione del Giubileo, si è pure “attrezzata” per realizzare quante piú distrazioni è possibile per i pellegrini: quasi vi fosse un segreto disegno volto a rendere vane le loro preghiere e le loro pie intenzioni. 
In questa occasione, piú che mai, non valgono le comuni giustificazioni: non si può andare a Roma per pregare il mattino in chiesa e “distrarsi” la sera in discoteca, per “girare” le basiliche, prima, e poi fare le “giravolte” al luna park.
Preghiamo la Santa Madre di Dio, i Santi Apostoli e tutti i Santi perché, per loro intercessione, la misericordia di Dio Onnipotente ci assista nel passaggio di quest’anno: che sia veramente un anno di conversione e di Giubilo. 

CC


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