La scomparsa della simbologia cattolica
La chiesa del 2000 a Roma: memoriale
del Giubileo
(12/99)
In questi ultimi anni (dal 1993) è stato approntato un piano
“edilizio” per fornire Roma di 50 nuove chiese, soprattutto nelle periferie.
Il progetto è in avanzata fase di attuazione se cosí si può
dire, perché in realtà sembra proprio che neanche l’interessamento
diretto della Curia romana riesca a dotare Roma di nuove chiese: si sono
costruiti infatti tanti capannoni in cemento armato e li si sono adibiti
al culto, ma di chiese, nel vero senso della parola, quasi nessuna.
In tale contesto si è pensato bene di costruirne una in vista
del 2000: chiamata a essere il memoriale del Grande Giubileo (come
affermato da mons. Gino Amicarelli al convegno che citiamo dopo).
A questo fine, la fisima intrisa di cecità di certa parte della
gerarchia postconciliare ha concepito l’idea di una apposita commissione
mista di laici e chierici allo scopo di indire un concorso pubblico, riservato
però ad un certo numero di architetti tra i migliori del mondo.
Per amore di non si sa bene cosa, è stato deciso che l’invito al
concorso dovesse essere rivolto a sei noti architetti di nazionalità
e religioni diverse: dichiarando cosí implicitamente che la chiesa
da costruire non era una “chiesa cattolica”, ma quasi una moderna attualizzazione
del vecchio pantheon di romana e imperiale memoria.
Ora, che una chiesa debba essere necessariamente costruita da dei competenti
è cosa fuori di ogni dubbio, ma che per costruire una chiesa cattolica
ci si debba servire della “creatività” di un indú è
cosa quanto meno insensata.
Eppure la “bella pensata” è stata partorita da una mente “cattolica”!
Sappiamo bene che “cattolica” equivale a “universale”, ma eravamo convinti
che si trattasse della “universale” affermazione dell’insegnamento di Cristo,
non della pratica sincretistica in cui tutte le “religioni” sono equivalenti
e interscambiabili.
Alla fine, la insensata montagna ha finito col partorire il solito topolino…
ebreo: il dichiarato illustre architetto Richard Maier, del quale
non sappiamo niente, né ci interessa sapere, ma che dobbiamo ritenere
ne sappia piú di sinagoghe che di chiese. Invece no, tutti, laici
e chierici, a sperticarsi in lodi interminabili per una supposta chiesa
cattolica “concepita” da un moderno architetto ebreo.
Noi, che siamo notoriamente accecati dalla prevenzione “integralista”,
dobbiamo confessare che non riusciamo a comprendere come un ebreo, al pari
di un musulmano o di un indú, possa mai concepire seriamente qualcosa
di intrinsecamente legato ad una concezione del mondo e di Dio che non
gli appartiene: misteri dell’ecumenismo postconciliare!
Tranne che non si debba pensare che, in fondo, ai cattolici moderni,
soprattutto chierici, non importi un granché della verità
cristiana, essendo irresistibilmente attratti dall’indifferentismo moderno:
ad onore e gloria della vanità del mondo e del compiacimento ignorante
delle masse mondializzate e uniformizzate in vista dell’avvento dell’Anticristo.
E cosa ha partorito la gestazione dell’ebreo Mayer?
Diciamo subito che non sappiamo se questo signore è un ebreo
tanto per dire o un praticante la sua religione, e ricordiamo anche che
il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Tralasciamo il fatto che si tratta in fondo del solito capannone, arricchito
da qualche voluta esterna in “tutto cemento”, tanto per “dare nell’occhio”
di chi guarda “dal di fuori”. Tralasciamo anche che per concepire una cosa
del genere, piú o meno, sarebbe bastato un bravo capo mastro con
una buona pratica e qualche soldo per acquistare una rivista specializzata
da cui copiare. E consideriamo invece una strana coincidenza.
Come si sa, un tempo le chiese cattoliche erano “orientate”, cioè
erano costruite lungo un asse ovest-est, con ad ovest l’ingresso e ad est
l’altare: come richiesto dall’insegnamento di Nostro Signore e degli Apostoli
e dalla tradizione liturgica cristiana. Da qualche secolo, sopraggiunta
una certa ignoranza delle cose della religione, le chiese sono state costruite
anche “come capitava”. Ma ecco che oggi, nel 2000, la chiesa di Roma che
sarà il “memoriale del Grande Giubileo” invece di essere “orientata”
è “occidentata”. No, non è costruita “come capita”: è
posta volutamente lungo l’asse ovest-est, ma con l’ingresso ad est e la
parte che una volta ospitava l’altare e l’àbside ad ovest. Diciamo
cosí perché in questa chiesa moderna, come in tutte le altre
al pari di essa, non vi è piú l’altare, né l’àbside,
bensí un proscenio nel quale il prete dà spettacolo appoggiandosi
ad una tavola che per uno strano piacere di distinzone lessicale si chiama
“mensa”.
Ebbene, l’“occidentamento” di questa moderna chiesa, bisogna darne
atto, è coerente con i dati religiosi dell’architetto Maier (o con
quelli che si debba supporre siano i suoi), anche se non sappiamo dire
se la cosa è stata voluta o “accidentale”. Fatto è che l’ingresso
ad est col Sancta Sanctorum ad ovest era una caratteristica
del Tempio di Gerusalemme: ampiamente descritto in I Re (5-7) e
in Cronache (1-5) (cfr. anche Ezechiele, 40-43).
Ora ci sembra proprio che questa volta si sia davvero esagerato con
la mania dell’ “archeologite liturgica”: non bastava piú rifarsi
a tutti i costi ai primi tempi della Chiesa (sempre capziosamente interpretati
ad uso e consumo dei modernisti), bisognava andare piú indietro.
Non è che per far piacere ai “fratelli maggiori” si voglia loro
“ricostruire il Tempio”?
Ovviamente scherziamo, perché è piú che verosimile
che a parecchia gente “di chiesa” non importi piú di tanto né
del Tempio di Gerusalemme, né delle antiche Basiliche patriarcali.
Mentre sembrerebbe che lo stesso architetto ebreo non abbia la minima cognizione
dell’antico Tempio fatto edificare da Salomone alla maggior gloria
di Dio.
Per rinfrescare la memoria a qualcuno, ricordiamo che quando l’altare
era posto ad ovest anziché ad est (come nel caso di alcune basiliche
costruite sulle tombe dei Martiri: vedi San Pietro) il sacerdote officiante,
insieme ai fedeli, si volgeva sempre ad Dominum (cioè a est)
per pregare il Signore; mentre la stessa collocazione “occidentale” dell’altare,
qui significante anche la tomba del Martire su cui era eretto, si collegava
al simbolismo della morte del sole, ad occidente. D’altronde, anche nel
Tempio di Gerusalemme la disposizione inversa del Sancta Sanctorum corrispondeva
alla applicazione di un corretto principio simbolico: qui il Signore giungeva
sempre da est, per la porta del Tempio, ma non si manifestava ai fedeli,
bensí in fondo al Tempio nel Sancta Sanctorum, in segreto,
dove non era ammesso che il solo Sommo Sacerdote. Quando il sacerdote invece
sacrificava nella sala del tempio ed invocava il Signore si volgeva, insieme
al popolo, sempre ad est: da dove il Signore è venuto, viene e verrà.
Peraltro, la diversa disposizione simbolica del “luogo della manifestazione
del Signore”, che nella chiesa cattolica è ad est e nel Tempio era
ad ovest, è perfettamente coerente con le rispettive “teologie”.
Nel Tempio di Gerusalemme non si aveva manifestazione tangibile di
Dio, se non nel Sancta Sanctorum precluso ai fedeli; cosí
che il rapporto fra questi e il divino era strettamente legato allo “spuntare
del sole”: per il fedele simbolo complessivo della venuta e della presenza
del Signore. La “presenza reale”, invece, rimaneva in ombra, lontana dalla
percezione sensibile del fedele, e il luogo di questa presenza si collocava
logicamente nello “spazio in ombra”: ad occidente.
Nella chiesa cristiana, invece, la “presenza reale” e la “venuta” del
Signore sono entrambe manifeste ai fedeli, cosí che il luogo è
uno solo: ad est, ad oriente.
È questo uno degli elementi che compongono la differenza tra
l’Antica Legge e la Nuova Legge: il Signore Gesú è venuto
a rinnovare la verità antica e ci ha dotati di una nuova teologia
e di una nuova liturgia.
Un altro indizio “oscuro” lo troviamo nella pretesa “architetturistica”
che pretenderebbe di inondare di luce quella che un tempo era la navata.
Questa pretesa moderna di riempire di luce l’interno della chiesa è
in palese contrasto con il significato simbolico della stessa chiesa e
della liturgia che in essa si celebra.
La chiesa è un luogo sacro: uno spazio “a parte” rispetto a
tutto lo spazio profano; è una sorta di recinto separato dal resto
del mondo e appositamente predisposto per la manifestazione del Signore
e per permettere ai fedeli di renderGli il culto dovuto, insieme alle schiere
celesti del mondo invisibile. Si tratta in fondo dello stesso concetto
in base al quale veniva separato il Sancta Sanctorum, qui applicato
all’intero edificio sacro. Questo spazio a sé stante viene addirittura
opportunamente qualificato con appositi rituali, che ne fanno un luogo
incontaminato: al centro del quale si consacra poi l’altare che è
il luogo privilegiato su cui si realizza la presenza reale di Gesú
Cristo, e che, per certi versi, è lo stesso Cristo che si fa oblazione.
Questo spazio si configura cosí come lo spazio del Signore:
la Casa di Dio, in cui l’uomo accede con timore e con rispetto per offrire
la dovuta adorazione a Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Lo spazio dell’uomo, lo spazio umano, resta fuori da questo “recinto
sacro”, come ne restano fuori tutti gli altri elementi che appartengono
alla conduzione ordinaria della vita su questa “valle di lacrime”.
In questo “luogo terribile”, come lo chiama la liturgia
al momento della sua consacrazione, non v’è posto neanche per la
normale luce solare: non si tratta infatti di uno spazio aperto, come era
un tempo per il “fanum” pagano. Esso ha le stesse caratteristiche
del luogo in cui avvenne la nascita di Nostro Signore. Un spazio chiuso
e separato, un spazio oscuro rispetto alla luce del mondo, una “grotta”,
temporalmente collocata, peraltro, nel momento piú oscuro del tempo:
la mezzanotte del giorno piú corto dell’anno.
Iddio si manifesta sempre in mezzo alle tenebre piú fitte: è
questo che insegnano gli innumerevoli richiami delle sacre Scritture. Il
prologo del Vangelo di san Giovanni è addirittura
quasi “prescrittivo” in questo senso:
la luce degli uomini è la vita che è nel Verbo (in
ipso vita erat, et vita erat lux hominum),
e questa luce “lumina” nelle tenebre (et lux in tenebris lucet).
La luce del sole è il simbolo efficace della vita umana che
Dio ci dona (“Dominum et vivificantem”), ma la presenza di Dio,
con la sua luce propria, non è percepibile agli occhi degli uomini
e il Sancta Sanctorum è interdetto ai loro occhi.
È l’uomo stesso, nella sua realtà vitale e carnale, ad
essere la tenebra: ed in questa tenebra penetra la luce di Dio, la sua
Grazia, e illumina le tenebre con una luce invisibile: dal di dentro, non
dal di fuori. La stessa luce che illumina la Gerusalemme Celeste, in cui
non v’è alcun bisogno della luce del sole o della luna (Ap
21, 23).
La chiesa cattolica è uno spazio sacro in cui convergono tutti
i significati simbolici del rapporto luce-tenebre: è questo che
spiega la penombra delle chiese, l’uso delle candele per “fare luce” (il
cui prototipo è la candela pasquale: il Corpo dell’Agnello) e l’accuratezza
con cui un tempo si realizzavano i “varchi” attraverso i quali filtrava
la luce esterna del sole.
Il rapporto che vi era tra la posizione dell’edificio sacro, il movimento
del sole e le finestre attraverso le quali questo penetrava nell’interno
(ridotte peraltro al minimo nelle cattedrali gotiche), era tale da riuscire
a “riqualificare” i raggi solari, che in tal modo penetravano in chiesa
non in maniera indiscriminata, a modo degli uomini, ma in maniera ordinata,
a modo di Dio, per servire alla maggior gloria di Dio.
Ancora oggi possiamo ammirare questo profondo significato della “riqualificazione”
della luce del mondo nelle immense vetrate delle cattedrali gotiche. Qui
lo sforzo di imitazione della Gerusalemme Celeste raggiunge vette di ineguagliata
destrezza, si tende a trasformare il lavoro umano in un “capolavoro” degno
degli Angeli e a maggior gloria di Dio: altro che architetti competenti!
Fu la lunga meditazione che spinse i monaci a realizzare l’imitazione di
ciò che riuscivano a cogliere nella contemplazione dei misteri divini.
Lo stesso principio che informava l’arte sacra delle icone orientali, con
le quali si rivestivano poi le pareti della chiesa.
Si cercò di limitare l’incidenza della “pietra cieca” riducendo
al minimo le pareti piene e sostituendole con sottili pilastri; e, ad imitazione
delle pareti di “diaspro cristallino” (Ap 21, 11), si riempirono
gli spazi con vetrate trasparenti, dai colori brillanti e scuri, attraverso
le quali la luce del sole perdeva ogni connotazione terrena ed entrava
nell’edificio “rinnovata” dal suo penetrare per le scene della storia sacra
raffigurate nelle vetrate. Cosí rinnovati, i raggi del sole diventavano
messaggeri della Parola divina.
Oggi sarebbe il caso di riflettere opportunamente sull’abbandono di
questi richiami simbolici e sul moderno imperversare delle “chiese aperte”,
ove è palese la sempre maggiore invadenza della “sensibilità”
umana che soddisfa sé stessa, ormai dimentica della sensibilità
verso Dio.
Tornando alla nuova chiesa del Giubileo, colpisce ancora un altro elemento
“oscuro”. In questa chiesa, per il suo “occidentamento” e per espressa
concezione dell’architetto, la luce “solare” entra prevalentemente da nord
e da ovest, mentre il sud è oscurato da una parete chiusa e all’est
vi è qualche apertura di complemento.
Ora, non v’è dubbio che dal nord non può provenire alcuna
luce, né dall’ovest. L’ovest è il punto in cui la luce muore,
non nasce; e il nord è il punto dove stazionano le tenebre, invisibili
eppur presenti: è questo il motivo per cui il diacono canta il
Vangelo rivolgendosi al nord, per contrastare e sconfiggere le tenebre
con la luce della vibrazione vitale del Verbo: la parola di nostro Signore
Gesú Cristo, al quale si rende lode alla fine del canto: Laus
tibi Christe.
In tal modo questa chiesa è chiaramente “illuminata” dalle tenebre,
se possibile, e, in ogni caso, è palesamente esposta all’influenza
di esse piuttosto che a quella proveniente da “Oriente”.
C’è da chiedersi in che percentuale si combinino, ai giorni nostri,
il disprezzo per la simbologia cristiana e l’ignoranza di essa e della
religione; e che senso può ormai avere l’esistenza di una apposita
commissione di prelati preposta alla custodia dell’“arte sacra”.
Dobbiamo confessare, a questo punto, che ai fedeli romani di Tor
Tre Teste (zona parrocchiale in cui ha sede la detta chiesa) è
andata ancora bene: perché se il concorso, per esempio, l’avesse
vinto un indú probabilmente avremmo adesso una chiesa ornata con
gli abbracci simbolici della Shakti di Shiva avvinta alla di lui impassibilità.
Per chi pensasse che noi si esageri (cosa che teniamo sempre presente
per evitarla), riportiamo qualche frase pronunciata al convegno “Materia
e strutture per il nuovo millennio”, tenutosi al Politecnico di Milano,
il 25 febbraio 1997, perché certuni, laici e chierici, si potessero
esercitare nell’elogio di Maier e della scelta della Gerarchia. Un certo
Glauco Gresleri, che pare sia uno importante, intrattenendosi sul tema
“Architettura e liturgia”, ha voluto precisare che la scelta di Maier era
indice «del “salto” definitivo con cui la Chiesa Universale passa
definitivamente dalla posizione della controriforma a quella della riforma,
dalla mens sacra alla mens sancta, dalla liturgia lode di Dio e azione
di grazie, alla liturgia della comunicazione. Dalla chiesa casa di Dio
alla chiesa domus ecclesiae».
Pensiamo che ogni commento sia inutile, e precisiamo solo che l’intervento
di questo tizio, tra gli applausi dei prelati presenti, fu un insieme di
corbellerie e di aria fritta arricchito da falsificazioni storico-teologiche
e da forzature interpretative tipiche della mentalità moderna: cosí
profondamente convinta che non sia stato Dio a creare gli uomini, ma gli
uomini a creare Iddio.
Che il Signore ci salvi dalla conduzione dei ciechi, e salvi la Chiesa
dagli errori dei pastori moderni.
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