TIMIDI  TENTATIVI  DI  AGGIUSTAMENTO  LITURGICO

IL  CONVEGNO  DI  FONTGOMBAULT

La riforma liturgica continua a preoccupare molti cattolici



 
 
 
 
I partecipanti
Gli interventi

In maniera alquanto riservata, nel luglio dello scorso anno, presso l’abbazia di Notre-Dame a Fontgombault, in Francia, si è svolto un incontro patrocinato dal Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, S. Em. Rev.ma il card. Joseph Ratzinger. 
Diciamo riservata perché erano in molti a non sapere dell’iniziativa, come per esempio il card. Castrillon Hoyos, che pure è il Presidente della Commissione Ecclesia Dei, o i sacerdoti della Fraternità San Pietro, tranne il loro Superiore Generale, l’abbé Devillers, che pure sono particolarmente interessati. Tra l’altro, tra i partecipanti mancavano i rappresentanti internazionali dei fedeli tradizionalisti legati alla stessa Ecclesia Dei: nessuno di “Una Voce Internazionale” ne sapeva niente.

Certo ci sarà stato qualche buon motivo per permettere che sorgessero già le prime polemiche proprio sul tipo di organizzazione scelta per un argomento cosí importante.
Si doveva discutere di liturgia: La situazione della liturgia antica nel contesto della riforma della riforma (La situazione della Messa di San Pio V nel quadro della riforma della riforma), e già sul titolo si conoscevano piú le illazioni che le informazioni. Lo stesso dicasi per i partecipanti e per gli interventi previsti. 

Qui in calce riportiamo il titolo del convegno e l’elenco degli interventi, come sono stati definiti per la presentazione degli Atti (cfr. La Nef, n° 120, ottobre 2001).
Alla riunione hanno partecipato diversi prelati, molti padri benedettini, e alcuni laici interessati alla questione della liturgia (in calce riportiamo l’elenco degli intervenuti).

L’elemento centrale dell’incontro era “la riforma della riforma”. Espressione già usata anni fa dal card. Ratzinger per indicare uno stato di necessità scaturito dalla pratica della nuova liturgia. 

Fin dal suo nascere, quest’ultima ha posto parecchi problemi, sia per il suo palese allontanamento dalla liturgia tradizionale della Chiesa, sia per la diffusa pratica della “creatività” liturgica, voluta dai liturgisti innovatori, sancita dal Messale di Paolo VI e fondata sui documenti del concilio Vaticano II. La corretta rispondenza tra l’applicazione della nuova liturgia e la volontà dei Padri conciliari è stata anch’essa oggetto di mille controversie, tanto che a piú di trent’anni di distanza ancora si parla della cattiva interpretazione dei testi conciliari. È ormai piú che evidente che tutto questo è accaduto sia per la distorta e interessata comprensione dei documenti del concilio, sia per gli spazi lasciati aperti dalla formulazione di questi stessi documenti, i quali, per la loro equivocità sono stati la causa prima del disordine.

Tuttavia, se a piú di trent’anni dal concilio e dall’invenzione della nuova liturgia della Chiesa si parla ancora dei problemi sorti dalla loro applicazione è inevitabile concluderne che debbano esserci delle cause ben profonde che hanno determinato questo stato di cose. 
Purtroppo, quando si parla di questi problemi si ha la tendenza a prendere in esame soprattutto gli effetti, minimizzando o trascurando le cause, per la difficoltà e l’imbarazzo che comporta il loro approfondimento. 
Il concorso della equivocità dei documenti conciliari e della loro cattiva interpretazione non può ritenersi fondato su circostanze fortuite concomitanti , e nemmeno ci si può limitare ad incolpare la fretta con cui sono stati eleborati certi documenti di capitale importanza, compreso il nuovo Messale di Paolo VI. Devono esserci, e ci sono, dei fattori oggettivi che hanno permesso l’instaurarsi di una situazione i cui frutti sono la progressiva perdita della fede, la confusione dottrinale dei chierici e la sempre minore incidenza del Magistero.
Tratteremo nel prossimo numero questi fattori oggettivi, limitandoci per adesso a considerare quanto è stato detto a Fontgombault.

Il motivo dominante di queste “giornate liturgiche” consisteva nell’auspicio che si giunga al piú presto alla nascita di un nuovo “movimento liturgico”, il quale, dopo studi approfonditi e un ragionevole lasso di tempo perché certi concetti finiscano con l’affermarsi su larga scala, possa sfociare in una “riforma delle riforma”.
Tale motivo dominante è da mettere in stretta relazione con quanto affermato dal cardinale Ratzinger circa la necessità di un cambio di mentalità.  Dopo aver passato in rassegna i principali aspetti fuorvianti che hanno condotto alla stravolgimento della teologia cattolica sul Sacrificio della Messa, il cardinale  considera che: «questo sicuramente accade in larga misura perché la nostra immagine di Dio è offuscata e si è accostata al deismo». In effetti il cardinale, in questa occasione come in altre, ha presentato una serie di problemi interni alla Chiesa cattolica, che hanno tutti la loro matrice nell’avvenuto mutamento della concezione teologica della Fede e della Chiesa. Certo, il cardinale lo dice alla sua maniera, ma in pratica egli continua a sostenere che il mondo cattolico di oggi non crede piú come credeva il mondo cattolico di ieri; e questo, non solo in relazione al sentire e alla consapevolezza dei fedeli, ma soprattutto in relazione al sentire e alla consapevolezza dei teologi e dei liturgisti. Non è colpa del concilio, dice il cardinale, poiché le formulazioni del concilio sono corrette, è la loro interpretazione che è scorretta, poiché tesa a conciliare l’inconciliabile: la dottrina di Cristo, il Figlio di Dio, con la sapienza umana contemporanea, interamente basata su un antropocentrismo che non riesce piú nemmeno a concepire l’esistenza di Dio. E riferendosi al significato del Sacrificio della S. Messa, oggi stravolto in maniera tale da far pensare ad una sua totale relativizzazione, il cardinale si chiede: «Come ritrovare il senso di questa cosa immensa che è al centro del messaggio della croce e della resurrezione?» E risponde: «In ultima analisi, non certo per mezzo di teorie e dotte riflessioni, ma solo con la conversione, con un cambiamento radicale della vita. A tanto possono aprire certamente la via alcuni elementi di discernimento, e vorrei proporre qui delle indicazioni in questo senso, in tre fasi».

È lungo questo filo conduttore della necessità di un cambiamento radicale che si sono svolti i vari interventi. Ed è proprio su questo punto che sorgono molti piú problemi di quanti ne esistano sulla mutazione teologica attuale.

Innanzi tutto, non è possibile considerare la necessità di un cambiamento radicale, senza prendere prima in esame la portata delle mutazioni venutesi ad affermare in questi ultimi trent’anni. Qui non si tratta di accadimenti, ma di un processo complessivo che tocca intimamente il modo di sentire e di essere dell’uomo di oggi e, in particolare, dell’uomo religioso e dell’uomo di religione.
I preti e i vescovi non appartengono ad un immaginario mondo parallelo dal quale vengono tratti per essere inseriti in una realtà diversa dal loro intimo sentire: anch’essi sono figli del secolo. E ciò che è accaduto in questi ultimi trent’anni ha la sua radice proprio in questa intima relazione che vi è tra il mondo moderno e gli uomini di questo mondo che hanno deciso di abbracciare la vita ecclesiatica. Il cardinale, infatti, parla di «cambiamento radicale della vita», non di aggiustamento di questo o di quel malinteso.
In altri termini, il processo di sfaldamento della dottrina cattolica non ha la sua radice negli errori di qualche o di tanti uomini di chiesa, ma prende le mosse da una avvenuta mutazione del tipo d’uomo che oggi abbraccia la vita ecclesiastica.
Lo spirito del mondo ha pervaso quasi tutti gli uomini di chiesa: è il mondo che è penetrato nel Tempio, stravolgendone i riti e la comprensione della dottrina. Parlare quindi di “cambiamento radicale” implica due sole previe possibilità: o si caccia il mondo fuori dal Tempio o si muta il modo d’essere del mondo.
E bisogna confessare che delle due, la seconda possibilità è quasi una contraddizione in termini.

Comunque, se questo può essere il fine ultimo da perseguire, è anche possibile considerare che, nel contempo, possano operarsi dei cambiamenti intermedi in grado di rimediare in parte ai disastri piú evidenti. 
Sarebbe però erroneo impegnarsi in questi ultimi senza aver chiaro il fine da raggiungere.
Lo stesso dicasi per la specifica questione delle liturgia. Mirare al raddrizzamento della liturgia attuale è cosa lodevole, ma sarebbe illusorio intravedere tale radrizzamento prescindendo dalla necessità di rettificare prima la concezione dottrinale che ha condotto ad essa.

In realtà, bisogna riconoscere che, dai diversi interventi che si sono avuti in queste giornate liturgiche di Fontgombault, traspare una certa preoccupazione di questo tipo. Quando si parla di un “nuovo movimento liturgico” avente lo scopo di condurre lentamente ad un cambiamento, non si fa altro che confessare la preoccupazione che ci si trovi di fronte ad un lavoro immenso, che deve incidere in profondità. 
Ciò che stupisce, però, è il fatto che tale lavoro lo si intenda limitato all’aspetto liturgico.
Nessuno mette in dubbio che la liturgia della Chiesa, e primariamente la celebrazione del Santo Sacrificio della Messa, sia il centro del culto cristiano e il motore che muove tutta la vita della Chiesa, ma sarebbe illusorio pensare che una nuova messa a punto della liturgia possa, di per sé, condurre ad un cambio di mentalità. Accade già oggi: molti preti dell’Ecclesia Dei che celebrano secondo la liturgia tridentina, non per questo sono impregnati dello spirito del mondo meno dei loro colleghi che non credono piú nella Transustanziazione.

Il centro del problema resta sempre lo stesso: non è la liturgia che è stata cambiata col concilio e col post-concilio, ma la teologia, la dottrina. 
E se questo non è avvenuto in maniera espressa sulla base dei documenti conciliari, come sostiene il cardinale Ratzinger, è tuttavia avvenuto di fatto, tanto da piegare facilmente gli stessi documenti conciliari alla mutata dottrina. 
E se questo è stato possibile è perché il concilio ha rappresentato non una svolta, un punto di partenza, ma una conclusione, un punto di arrivo. 
Prima ancora che il concilio offrisse i suoi mutamenti e desse i suoi frutti, in seno al corpo dei chierici erano presenti tutti quegli elementi che si sono condensati in tali mutamenti e in tali frutti. E questi elementi, in maniera indisturbata, hanno continuato a sussistere e a svilupparsi, in maniera tale che oggi non si parla piú di errori evidenti e inaccettabili, da rifiutare e da condannare, bensí di studi da intraprendere per condurre ad un confronto serrato che miri alla “conversione”.
Come se fino ad oggi si fosse semplicemente trattato della fisiologica incomprensione di qualche studente di teologia.
Beninteso, con questo non si vuole considerare vano il tentativo di agire col fine di giungere a dei raddrizzamenti che, a partire dalla liturgia, possano toccare anche l’àmbito della dottrina, ma prendere in considerazione l’idea che a questo scopo si possa giungere con lo strumento di un “nuovo movimento liturgico”, sembra cosa poco fondata sulla reale condizione con cui oggi si vive la Fede e si pensa la Chiesa.
Il vecchio movimento liturgico dei primi del secolo scorso non nacque dalla necessità sentita da alcuni chierici di “ammodernare” la liturgia, ma dal profondo convincimento di tanti chierici che i secoli dei “lumi” e le loro ideologie avessero ragione e fossero dalla parte della verità . E se anche si volesse ammettere che questo convincimento non fosse una cosa reale nella mente di tanti chierici, alla luce dell’esperienza bisogna ammettere che lo era nel profondo del loro ànimo: inavvertito e tuttavia ugualmente reale.
Un “nuovo movimento liturgico” non può vantare oggi un “retroterra” comparabile al primo, anzi, si può affermare senza tema di smentite, che il “retroterra” attuale è sempre lo stesso di prima, per di piú in uno stadio di definitiva affermazione, senza che ci siano piú papi, o vescovi, o semplici chierici capaci di evidenziarne  fattivamente il carattere di falsità e di rifiuto delle verità di fede. 
Che speranze di successo avrebbe un “nuovo movimento liturgico” che “operasse” in un contesto ove i presupposti della dottrina cattolica sono andati perduti o stravolti?
Se, mettiamo il caso, si giungesse alla costituzione di questo “nuovo movimento liturgico” ed esso potesse contare un grande séguito in una diocesi, per esempio,  quali potrebbero essere i risvolti pratici di una tale acquisizione? 
Il vescovo, per esempio, potrebbe avere simpatie per questa nuova “realtà ecclesiale” e permettere la celebrazione della liturgia sulla base delle indicazioni proposte. 
Ma come accadrebbe una cosa del genere? 
Certamente allo stesso modo con cui oggi accade che si permettono delle celebrazioni liturgiche di tipo “pagano”, com’è il caso di certi “movimenti spirituali” segnati da supposte “ispirazioni”. 
Oppure: il vescovo potrebbe non condividere le iniziative del “movimento”, condannandone gli scopi e i mezzi, bollando come “integralisti” tutti i suoi componenti: al “movimento” non rimarrebbe che chiudersi in un ghetto e incominciare a prendere in seria considerazione la contestazione del vescovo. 
Quasi quello che già accade oggi con l’Ecclesia Dei, che pure è iniziativa papale, per non parlare degli anatemi rivolti ai fedeli vicini alla Fraternità San Pio X. 
Ed allora si dovrebbe abbandonare ogni tentativo locale, in attesa che si possa giungere ad una iniziativa generale nei confronti della Curia romana.
Ammettiamo che si giunga fino a tanto, e, per brevità, ammettiamo che si riesca a trovare eco favorevole presso la Curia romana. 
Questa produrrà allora qualche documento appropriato e lo inoltrerà ai vari Ordinari. 
Quale il risultato? Se non quello che è già oggi sotto gli occhi di tutti, e cioè che la Curia romana non ha piú alcuna giurisdizione effettiva su nessuna delle materie di competenza delle diverse Congregazioni?
Se una delle scusanti per il concilio e per i suoi documenti è quella della loro cattiva interpretazione, come si può pensare che un “nuovo movimento liturgico” che abbia in vista un qualche raddrizzamento possa trovare reale credito presso gli stessi vescovi che sono convinti della erroneità del pre-concilio? Ed allora si dovrebbe giungere a qualcosa come un nuovo concilio, magari un nuovo concilio stavolta dogmatico, in grado di porre un punto fermo una volta per tutte, cosí da stabilire un nuovo punto di partenza, stavolta realmente ancorato alla vera Tradizione della Chiesa. 
Ed ecco che si torna al punto di prima: dove sarebbe il “substrato” necessario in grado di giustificare, non ancora i cambiamenti necessari, ma addirittura la stessa convocazione di un concilio siffatto?
Se poi a queste riflessioni teoriche si volesse aggiungere qualche riflessione pratica, come, per esempio, il trascorrere del tempo, si comprende facilmente quanto sia improbabile il perseguimento della suddetta possibilità. Un nuovo “movimento liturgico”, per crescere e diventare incisivo, se possibile, avrebbe bisogno, quanto meno, di alcuni lustri. Ora, nel giro di trent’anni, i chierici sono riusciti a produrre tanti di quei guasti che lo stesso Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede è costretto a parlare, in ogni occasione, col suo linguaggio edulcorato e molto diplomatico, di errori dottrinali latenti. Quale potrà essere allora la condizione futura, col trascorrere, per esempio, di altri trent’anni?
Già se lo chiedeva Nostro Signore: ci sarà ancora la fede?
Certo che si tratta di una visione pessimistica, ma lo stato attuale delle cose non lascia àdito a visioni altrimenti ottimistiche.

Un esempio delle enormi difficoltà che potrebbe incontrare la costituzione di un “nuovo movimento liturgico”, lo abbiamo nello svolgimento dei contatti intercorsi tra la Santa Sede e la Fraternità san Pio X.
Quando sembrava che a Roma si fosse disposti a liberalizzare  l’uso del Messale di san Pio V, ecco che alcuni voli aerei conducevano in Vaticano certi prelati, che si considerano devoti figli della Santa Madre Chiesa, i quali, per il bene della Sposa di Cristo, ponevano dei veti insormontabili, avendo in vista, a loro dire, la salvezza delle loro ànime e di quelle dei loro fedeli. E Roma, di fronte a tanto decantato peso spirituale, ci ripensava, e negava la possibilità di usare universalmente il Messale tradizionale, per evitare la perdita della bussola dei fedeli, si è detto. 
Ma se si pone mente al tipo di bussola di cui si tratta, ci si rende conto che, nella realtà, molti vescovi hanno intuito che la semplice possibilità che ogni celebrante possa utilizzare la liturgia millenaria della Chiesa potrebbe condurre al ridimensionamento degli errori del concilio e del postconcilio, cosí da determinare la possibile nascita e la successiva crescita di un “movimento di opinione” in grado di incidere nella realtà della conduzione di molte diocesi e della stessa Curia romana. 

Ed allora, ecco che si presenta imperativamente un quesito che chiede con forza una risposta esplicativa. Davvero la Curia romana aveva in mente di liberalizzare l’uso del Messale di San Pio V ipotizzando che questo atto potesse costituire un bene per i fedeli?
O piuttosto non si trattava del convincimento che tale uso potesse essere equiparato a quello delle diverse liturgie nazionali e locali in auge da trent’anni? 
La cosa piú verosimile è che la Curia romana guardi alla liturgia tradizionale come ad una qualsiasi forma liturgica possibile, poiché, fermi i mutamenti imposti tramite il concilio, il modo in cui si celebra la liturgia è cosa del tutto secondaria, che può e deve mutare col mutare dei tempi, dei luoghi e degli uomini. 
Insomma una sorta di relativismo liturgico in cui le preoccupazioni principali attengono alla soddisfazione degli uomini piuttosto che alla soddisfazione di Dio: e questo, se non si vuole ammettere l’erroneo convincimento, è un fatto che serpeggia e permea in maniera pericolosamente inavvertita tutti gli atti della pastorale moderna e anche di buona parte del magistero.
È in questa condizione di spirito che si muove l’idea di un “nuovo movimento liturgico”, pur potendo riconoscere agli uomini che la sollecitano le migliori disposizioni d’ànimo. 
È come se, in un contesto di ribaldi, un gruppo di galantuomini pensasse di agire per condurre tutti quelli sulla retta via. Lodevole intenzione, ammirabile disposizione, ma illusoria aspettativa. Tranne che non si voglia prendere ad esempio il caso dei santi che sono riusciti a compiere l’impossibile grazie all’assistenza dello Spirito Santo. Ma, con tutta evidenza, non si può ammettere che a Fontgombault, con tutto il rispetto, si sia trattato di un consesso di santi.

Passando poi agli specifici interventi, è possibile riscontrare, qua e là, la conferma che ormai la confusione è di casa un po’ dappertutto. Beninteso, nessuna supponenza circa il possesso esclusivo del corretto discernimento, ma è inevitabile soffermarsi su certe considerazioni proposte da alcuni monaci che studiano teologia e liturgia presso i Pontifici Istituti romani.
Come non sentire rispetto, considerazione, ammirazione e gratitudine, per dei giovani che, in questi nostri tempi tenebrosi, si sono votati alla continua preghiera per il bene delle ànime dei fedeli? È questo un sentimento che si deve confessare a tutte lettere, con la piú profonda sincerità. 
Ma questo non deve impedire che non si debba guardare con attenzione a ciò che questi stessi rispettabili religiosi ci propongono. 
E proprio al fine di evitare inopportune “personalizzazioni”, ci limiteremo a dei riferimenti generali, tanto piú che gli “atti” di un convegno del genere finiscono col superare le espressioni individuali, per presentarsi come proposizioni generali la cui paternità ha un’importanza del tutto secondaria.

Quando si cerca di spiegare che la liturgia deve essere caratterizzata da una maggiore semplicità, intelligibilità, significato manifesto delle formule, partecipazione attiva, ritorno alle fonti, aspetto comunitario, arricchimento biblico, ecc., è indispensabile chiarire se tutte queste cose non siano state presenti in duemila anni di liturgia antica o, se si vuole, in cinquecento anni di liturgia post-tridentina. Diversamente si finisce col fare proprie le posizioni dei modernisti, i quali non perseguivano certo questi scopi, ma hanno utilizzato questi argomenti senza fondamento per giungere allo stravolgimento della liturgia e della dottrina. 
Vero è che l’argomentare dei modernisti aveva pure una certa giustificazione pratica, ma la mancanza di semplicità nella liturgia antica, la sua inintelligibilità, il celato significato delle sue formule, la mancanza di partecipazione attiva, il suo allontanarsi dalle fonti, il suo mancato aspetto comunitario, la sua debolezza biblica, ecc., erano tutte osservazioni che trovavano giustificazione solo nella condizione oggettiva dei nuovi pensatori post-illuministi, della nuova intellighenzia nata dalla speculazione antireligiosa, della nascente classe dei preti impegnati. 

Non si è mai trattato della vera condizione della liturgia, né tampoco di esigenze sentite dai fedeli. L’una e gli altri, per secoli, hanno sempre mantenuto un rapporto cognitivo ed affettivo che ha prodotto migliaia di santi e un numero enorme di vocazioni.
La liturgia antica è divenuta difficile e difettosa solo quando gli uomini che dovevano comprenderla, laici e chierici, sono diventati duri di comprendonio e impermeabili alla religione.
Ora, se è possibile ammettere che il millenario rito latino avesse bisogno di qualche ritocco, per penetrare piú proficuamente nelle menti viziate  e nei cuori induriti degli uomini moderni, questo non significa che si debba prendere in prestito dai modernisti un armamentario critico senza solide basi giustificative.

Possiamo subito fare un esempio della cattiva volontà che ha finito con l’esprimersi attraverso la complessa operazione della “riforma liturgica”. Ammesso e non concesso che possa considerarsi seria l’osservazione di inintelligibilità della lingua latina, perché non si è súbito incominciato con l’adozione degli stessi testi tradotti correttamente nelle lingue volgari? Il fatto è che la vera intenzione era quella di cambiare i testi, non di renderli piú comprensibili, cosa che ne costituiva solo la scusa; e cambiare i testi significava ripresentare la teologia sottesa alla liturgia, non secondo le sopraggiunte “categorie” mentali e intellettive, ma secondo le moderne concezioni di Dio e della religione, cioè secondo delle concezioni che considerano Dio e la religione come degli accessori. E questo lavoro potevano farlo solo dei preti, ma dei preti che avessero profondamente subito quel processo di “inculturazione” nel moderno da considerare essi stessi la religione come un prodotto germinante dal genio meramente umano, semmai arricchito da quella “sensibilità” religiosa che ha trasformato la religione in religiosità.

Peraltro, quando si parla della tanto dibattuta questione del latino, ci si dimentica sempre di ricordare che la lingua liturgica non ha solo la funzione di rendere l’universalità e l’unità della Ecclesia, ma ha soprattutto la funzione di stabilire un testo che abbia connotazioni di “fissità”, di “stabilità”, di “inamovibilità”, di “intangibilità”: tutte aggettivazioni che “devono” essere tipiche della liturgia, non tanto perché essa stessa sia tale, ma perché essa parla del primario rapporto che vi è costantemente tra il Signore e la Sua Sposa, entrambi informati essenzialmente da tali aggettivazioni. 
Tanto è vero questo, che l’uso del volgare nella liturgia ha condotto, dopo appena soli trent’anni, al proliferare delle “chiese” e alla diversificazione di Nostro Signore: per cui lí dove si pretende di adorare “Our Lord” spesso Lo si intende in maniera diversa di come accade lí ove si pretende di adorare “Unser Herrgott”.
Solo dopo viene la rottura dell’universalità e dell’unità della Chiesa, fino a ritenere che la centralità del papato e della sua Curia siano elementi anacronistici e di disturbo.

Quando poi si cerca di spiegare che gli elementi che compongono l’insieme della liturgia: l’architettura delle chiese, i colori e i paramenti liturgici, le suppellettili, gli ornamenti, le luci, i gesti, debbano esprimere l’irruzione del divino nell’umano, ci si dimentica di ricordare che molti di questi elementi trovano la loro prima giustificazione in Dio, non nell’uomo. Diversamente si corre il rischio di avallare la lettura psicologica che oggi va tanto di moda e che ha inevitabilmente finito col sottomettere le esigenze di Dio alle piacevolezze degli uomini. 
Se l’altare ad Oriente e il prete e il popolo rivolti all’Oriente forniscono ai fedeli il senso della “rottura” dell’ordinarietà, questo non accade perché la sensibilità dell’uomo percepisce tale rottura per un accorto giuoco prospettico, ma primariamente perché l’Oriente è di Dio, ed essendo questo non potrebbe non colpire la sensibilità dell’uomo. 

E le suppellettili, per esempio, oggetto di asprissime controversie, per cui oggi sono tantissimi i preti che, ragionando come gli atei, considerano che sia uno spreco l’uso dell’oro per costruire o rivestire il calice? 
Perché non spiegare, oggi con maggior forza di quanto non si facesse un tempo, che l’uso dell’oro è un atto dovuto nei confronti di Dio, poiché l’oro è di Dio?

Ogni anno, per la Festa dell’Epifania, anche col Novus Ordo, si legge il Vangelo dei Magi che vennero dall’Oriente per adorare il Signore Gesú appena nato: … et procidéntes adoravérunt eum. Et apértis thesáuris suis obtulérunt ei múnera, áurum, thus, et myrrham (… e prostratisi, lo adorarono. E aperti i loro tesori gli offrirono in dono: oro, incenso e mirra). 
Tutti spiegano che si tratta di una vicenda poco chiara, ma dal significato evidente: i pagani riconoscono in Gesú il Re di Israele, anticipando l’accoglimento che i gentili riserveranno al Vangelo di Gesú: e si prostreranno e lo adoreranno. 
I Magi dell’Oriente, non sono solo i pagani che riconoscono il Figlio di Dio, ma sono i sapienti che vengono da lontano, da quel lontano Oriente da cui era venuto lo stesso Abramo, quello stesso Oriente ove si colloca il Paradiso terrestre, quello stesso Oriente da cui verrà Nostro Signore, e vengono a rendere testimonianza della Epifania di Dio, di fronte al quale si prostrano, adorandolo, e rendendogli pubblicamente, ritualmente, ciò che è suo: l’oro, l’incenso e la mirra.
L’oro, in quanto simbolo della sovranità e della maestà del Signore
l’incenso, in quanto simbolo del suo sacerdozio eterno
la mirra, in quanto simbolo della sua incorruttibile eternità
E questi simboli non vennero scelti dai Magi per impressionare i pastori che, stupefatti, assistettero alla manifestazione di Dio in terra, ma vennero appositamente offerti a Lui per adorarlo con ciò che gli è proprio: adorandolo, essi resero al Signore ciò che sapevano fosse suo. 

Usare l’oro per costruire o rivestire la pisside e il calice è cosa che appartiene al dovere di ogni fedele, perché si renda a Dio quanto è a Lui dovuto; e lo stesso dicasi per l’incenso.
Pensare che l’oro si possa usare per la sua valenza “preziosa” è cosa che certamente discende da quanto abbiamo detto, ma non bisogna dimenticare che l’oro è sempre stato “prezioso” innanzi tutto per questa sua valenza divina. 
La coincidenza tra l’uomo che “sente “ prezioso l’oro e lo riserva a Dio, e la “preziosità” intrinseca dell’oro in quanto elemento precipuo di Dio, è un’altra prova che il “sentire” dell’uomo religioso non attiene alle sue sensazioni o alla sua “sensibilità” psichica, quanto piuttosto alla intrinseca valenza degli elementi della religione, ivi compresi tutti quegli elementi che compongono l’insieme della liturgia.
 

Per quanto attiene poi alla “irruzione” del divino nell’umano, in maniera generale, è di primaria importanza far notare come questa “irruzione” esiga un contesto appropriato, esattamente come il Signore esige un cuore puro e un ànimo contrito per far discendere la sua grazia. 
Il contesto che la Chiesa, ammaestrata dagli Apostoli e assistita dallo SpiritoSanto, ha sempre ritenuto essere il piú appropriato è lo “spazio sacro”, cioè un àmbito terreno che viene staccato dall’ordinarietà e “consacrato” a Dio, un pezzo di mondo “sacrato”, separato dal resto del mondo, ove i fedeli si raccolgono per rendere a Dio le lodi dovutegli, secondo norme e forme stabilite appositamente dalla Chiesa per insegnamento e ispirazione divine.

Questo “spazio sacro” la Chiesa lo ha sempre ricordato come “terribile”: Terríbilis est locus iste: hic domus Dei est, et porta coeli: et vocábitur aula Dei (È terribile, questo luogo: qui è la casa di Dio e la porta del cielo: e sarà chiamata reggia di Dio). Cosí recitava l’intròito della S. Messa della dedicazione di una chiesa, che oggi, ovviamente, è stato cambiato. 
E anche qui: la chiesa non è uno “spazio sacro” sulla base della riverenza che manifesta il fedele quando accede in essa, magari spinto da una qualche “sensibilità”, ma lo è sulla base del fatto che in questo “spazio sacro” Dio si manifesta, si rende presente e vi àbita stabilmente: è in questo “spazio sacro” che mantiene il suo posto “centrale” Nostro Signore, sotto le apparenze dell’Ostia consacrata conservata nel tabernacolo.
Altro che luogo dell’assemblea dei fedeli: questo è primariamente il “luogo terribile” dove Dio ha dimora su questa terra. 
Ed è allora per questo che in tale “spazio sacro”, nel quale si è “realmente” al cospetto di Dio, nessun uomo, foss’anche il Papa o un santo, può permettersi di agire secondo la sua “sensibilità”, ma è invece “obbligato” ad agire secondo le esigenze di Dio. 
Se poi si vuole parlare dell’architettura delle chiese, del comportamento che in chiesa devono tenere i fedeli, i preti e i vescovi, della disposizione dell’altare, dell’accesso al presbiterio, ecc., la prima cosa da tener presente è la natura sacrale del “luogo consacrato”, ove tutto dev’essere disposto e mosso sulla base del fatto che trattasi della “Casa di Dio”. Anche in questo caso, quindi, è indispensabile tenere presente il vero significato del “sacro”, per evitare che si possa giungere a paragonare, per esempio, la tradizionale “consacrazione” della chiesa e dell’altare, con le novelle cerimonie di “inaugurazione” dei moderni luoghi di culto.

Quando si cerca di spiegare che la liturgia tradizionale ha il diritto di conservare legittimamente il suo posto nella liturgia della Chiesa cattolica, non basta dimostrare che nella Chiesa sono state sempre presenti liturgie diverse, tutte legittimamente riconosciute e lodate da Roma. Occorre spiegare che ogni liturgia, per essere veramente tale, deve fondare la sua esistenza nella Tradizione, come è sempre stato e come dev’essere, perché diversamente non si tratterebbe di “liturgia”, ma di una mera “cerimonia”. 
Ora, da qualche anno, quando si parla del mantenimento della liturgia tradizionale nella Chiesa, è invalsa la cattiva abitudine di considerare la nuova liturgia come una “tradizione” della Chiesa latina, anzi, visto che la nuova liturgia è quella celebrata dal Papa, si concede di considerarla come la tradizione piú importante. 

In effetti, come le stesse giornate di Fontgombault dimostrano, questa supposta tradizione non è tale per diversi motivi.
Innanzi tutto perché non rappresenta qualcosa che è stato “trasmesso”: tutti concordano sul fatto che essa è stata inventata ex novo: sia coloro che la disprezzano, sia coloro che la apprezzano, e tra questi ultimi si riconosce perfino che la sua invenzione è stata maldestra e deleteria. 
Secondo, poi, fin da quando è entrata in vigore, questa nuova liturgia non ha mai avuto un carattere di universalità: traduzioni, inculturazione, creatività hanno determinato l’esistenza di una miriade di liturgie. 
In terzo luogo, essa non ha mai presentato il carattere della stabilità: perfino la liturgia usata dal Papa, nelle diverse occasioni, si è distinta per i suoi continui cambiamenti. 
In quarto luogo, essa non ha avuto il tempo per affinarsi in modo tale da rigettare tutti quegli elementi che ancora oggi sono legati alla cosiddetta “sperimentazione”
Infine, col passare degli anni, essa è stata sottoposta sempre piú a continue e circostanziate critiche, a riprova del fatto che, anche dopo trent’anni, essa non è riuscita ad affermarsi, né in termini di efficacia, né in termini di rispondenza con le esigenze dei fedeli.
Come può porsi sullo stesso piano la tradizione liturgica della Chiesa, da un lato, e, dall’altro, quest’insieme di elementi accomodati e raccogliticci che si è dimostrato essere la nuova liturgia?
Scendere fino a concedere che la nuova liturgia possa considerarsi una “tradizione”, significa, non solo sminuire e compromettere la tradizione liturgica della Chiesa, cosí da distruggere perfino ogni futura possibilità di raddrizzamento, ma convenire che il termine “tradizione” comporti l’idea di qualcosa che sia stata ripetuta convenientemente per un certo tempo da un certo numero di persone, cosí da innescare quel disastroso processo di demolizione che tocca, non solo la liturgia tradizionale della Chiesa, ma le devozioni popolari, il culto dei santi, la speculazione teologica e, finalmente, la dottrina della Fede.

Da quest’ultima considerazione possiamo allora dedurre come sia pericoloso parlare di “riforma della riforma”, allorché si sia finito con l’accettare, anche in parte, il complessivo andamento attuale della liturgia e della teologia. 
In pratica, questa espressione, che a prima vista potrebbe far pensare ad un raddrizzamento  delle mancanze tipiche della nuova liturgia, sottindente la possibilità che si possa giungere ad una ulteriore “liturgia rinnovata”, nella quale dovrebbero trovare posto tutti quegli elementi della liturgia tradizionale che il Novus Ordo aveva inteso scartare e che oggi potrebbero invece essere considerati come accettabili; senza tuttavia toccare tutti quegli elementi che il Novus Ordo ha ritenuto di dover adottare avendo in vista una Chiesa rinnovata, una teologia rinnovata, una liturgia rinnovata. 

A contrastare questa nostra considerazione, si ergono i ripetuti richiami che molti hanno fatto e fanno circa la corretta interpretazione dei testi conciliari e delle disposizioni delle Congregazioni romane. In pratica, per ovviare alle storture prodotte dalla nuova liturgia o, se si vuole, nella nuova liturgia, si vorrebbero richiamare continuamente le migliori interpretazioni dei testi relativi. In linea di principio, una cosa del genere è possibile, anzi di questo dovrebbe trattarsi se ci trovassimo in una condizione di “normalità”, ma in linea di fatto le cose stanno diversamente.

In uno degli interventi di Fontgombault, il prof. De Mattei, storico e Presidente del Centro Culturale Lepanto di Roma, ha presentato una attenta e interessante analisi delle cause che hanno condotto alla nuova teologia, alla nuova liturgia e alle loro deleterie conseguenze. 
Tra l’altro, egli ha fatto notare che: 
«Attraverso la Riforma liturgica, la teologia secolarista ha ricercato nella prassi la prova della sua verità. Ora, la verità che risulta da questa prassi non è costituita da un avvicinamento tra la Chiesa e il mondo, ma, al contrario, da una estraneità sempre maggiore tra la Chiesa e il mondo, estraneità che ha raggiunto il suo culmine nella crisi della fede ormai ammessa da tutti. […] Oggi, il paradigma della modernità è stato sostituito da quello post-moderno del “caos”, o della «complessità», il cui fondamento è la negazione del principio di identità-causalità in tutti gli aspetti del reale. Subordinando sé stessa a questo progetto culturale, la nuova teologia progressista si propone lo “smantellamento” di ciò che ha “costruito” nel corso di questi ultimi trent’anni, a cominciare dalla Riforma liturgica che oggi ritiene costruita secondo un modello “astratto” e “buracratico”. Cosí, allo schema “monoculturale moderno” del nuovo Ordo Missae si oppone l’“inculturazione” postmoderna della liturgia, lasciata alla “creatività” delle chiese locali.» 
«La Lex credendi espressa dal Novus Ordo appare, in questo senso, come la revisione della fede cattolica operata sulla base del punto di vista antropologico e secolarista della nuova teologia; una teologia, occorre sottolinearlo, che non si limita a riproporre i temi modernisti, ma li fa suoi in chiave marxista, e cioè secondo un pensiero che si presenta come una “filosofia della prassi” radicale e definitiva. Il che significa che un giudizio globale sulla Riforma, soprattutto a trent’anni di distanza dalla sua realizzazione, non può basarsi solo su un’analisi teorica del Nuovo Rito promulgato da Paolo VI, ma deve necessariamente tenere conto della «prassi liturgica» seguita alla sua istituzione. Oggi, la Riforma liturgica non può piú essere considerata staticamente, sulla base dei documenti che l’hanno determinata, ma dev’essere vista nel suo aspetto dinamico, avendo cura di esaminare una molteplicità di elementi che, benché non fossero previsti nel Novus Ordo, sono diventati parte integrante di quella che può essere definita come la prassi liturgica contemporanea.»
Questa lunga citazione ci è sembrata opportuna perché centra il vero problema che occorre affrontare quando di parla della necessità e della possibilità di raddrizzamento teologico e liturgico.
È incontestabile, infatti, che la nuova liturgia e la nuova teologia non sono esclusivamente connessi ai testi magisteriali che le definiscono, ma sono principalmente il risultato pratico delle continue esperienze dei teologi e dei liturgisti. Insomma, il processo che si è venuto affermando e che si è ormai consolidato, è costituito da una forma di costruzione teologica e liturgica continuamente e mutevolmente veniente “dal basso”: in cui la funzione del magistero è stata relegata entro i limiti della ratificazione e della smussatura degli spigoli piú pungenti. 
Questo significa che il ricorso alla migliore lettura dei testi conciliari e magisteriali si rivela essere un semplice esercizio accademico, lodevole, certo, ma inefficace. 
L’unico modo per stabilire la corretta rispondenza tra i dettati dei testi e la loro applicazione è costituito dall’esercizio dell’autorità; esercizio che dovrebbe essere svolto dal Papa o, se si vuole, da un organismo appositamente predisposto dal Papa o anche dai vescovi. Solo che, per espressa volontà del concilio e del magistero attuale, una cosa del genere non è possibile: è stato deciso che non può piú ritenersi accettabile una simile giurisdizione.

In conclusione, la possibile “riforma della riforma” attuabile attraverso la nascita e lo sviluppo di un “nuovo movimento litrugico”, se non fissa a priori i corretti termini teologici, corre il rischio di sfociare in una ulteriore “corrente” teologico-liturgica che andrebbe ad assommarsi a quelle già esistenti, con la pratica conseguenza che i veri problemi, se non aggravati, rimarrebbero comunque irrisolti.

CC


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I PARTECIPANTI

S. Em. il Card. Josef Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
S. Ecc. Mons. André Mutien Léonard, vescovo di Namur 
S. Ecc. Mons. Eric Aumontier, vescovo di Versailles 
Rev.mo P. Dom Antoine Forgeot, OSB, Abate di Notre-Dame, Fontgombault 
Rev.mo P. Dom Eric de Lesquen, OSB, Abate di Notre-Dame, Randol 
Rev.mo P. Dom Gérard Calvet, OSB, Abate di Sainte Madeleine, Le Barroux
Rev.mo P. Dom Hervé Courau OSB, Abate di Triors 
Rev. P. Gilles Morin, RSV, Superiore della provincia francese dei Religiosi di San Vincenzo di Paola
Abbé Arnaud Devillers, Superiore Generale della Fraternità San Pietro
Frate Carlos Urrutigoity, Superiore della Society of St. John 
Mons. Camille Perl, Segretario della Commissione Ecclesia Dei 
Mons. Josef Clemens, Segretario di S. Em. il Card. Ratzinger 
Rev. P. Dom Marc Doat, SB, Priore di Gausson 
Rev. P. Assian Folsom, OSB, Priore del convento San Benedetto da Norcia, Roma 
Abbé Jean Pierre, Superiore della Fraternità St. Thomas Becker 
Rev. P. Serge Thomas Bonino, OP, direttore de «La Revue Thomiste», di Tolosa 
Dom Jean-Denis Chalufour, OSB, monaco di Fontgombault 
Abbé Francois Clement, (Losanna) 
Abbé Sven Conrad, della Fraternità San Pietro, studente in liturgia a Roma 
Abbé Alain Contat, professore di teologia a Roma 
Dom Daniel Field, OSB, monaco di Randol 
Abbé Olivier Gunst Horn, di Bourges 
Abbe Serge Jaunet, di Bourges 
Abbé Stefan Koster, segretario del TAED 
Abbé Dariusz Olewinski, di Vienna 
Rev. P. Charbel Pazat de Lys, OSB, monaco di Le Barroux 
Canonico André Rose, di Namur 
Abbé Francois Scrive, di Beaunais 
Abbé Guillaume Seguin, di Parigi 
Sig. Miguel Ayuoso Torres, professore di filosofia del diritto, presidente dello SPEIRO 
Sig. Stratford Caldecott, fondatore del «Center for Faith and Culture» (Oxford) 
Sig. Christophe Geffroy, direttore de La Nef 
Prof. Dominique Lambert, professore di filosofia 
Prof. Roberto de Mattei, professore di storia, presidente del «Centro Culturale Lepanto», Roma
Sig. Philippe Maxence, redattore capo de l’«Homme Nouveau» 
Sig. Loic Mérian, presidente del C.I.E.L. 
Sig. Paul Milcarek, professore di università 
Prof. Dr. Robert Spaemann, filosofo, già presidente di “Pro Missa Tridentina”

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SULLA  QUESTIONE  LITURGICA
Giornate liturgiche di Fontgombault
22-24 luglio 2001

PRESENTAZIONE
      Rev.mo don Hervé Courau, OSB, Abate di Triors 
LE FIGURE DI MARIA E DI MARTA
      omelia di S. Em. Rev.ma il card. Joseph Ratzinger
«ASCOLTA, FIGLIO MIO…»
      Rev.mo don Antoine Forgeot, OSB, Abate di Notre-Dame, Fontgombault
TEOLOGIA DELLA LITURGIA
      S. Em. Rev.ma il card. Joseph Ratzinger
IL VESCOVO A SERVIZIO DELLA LITURGIA
      S. Ecc. Mons. André-M. Léonard, Vescovo di Namur, Belgio
LITURGIA E TRINITÀ: VERSO UN'ANTROPOLOGIA DELLA LITURGIA,
      Prof. Stratford Caldecott, fondatore del “Center for Faith and Culture” (Oxford - GB) 
ATTUALIZZAZIONE DEI PRINCIPI ANTROPOLOGICI
      Rev. don François Clément, di Losanna
RITO ROMANO O RITI ROMANI?
      Rev. Padre Cassian Folsom, OSB, Priore del convento San Benedetto da Norcia, Roma
PER UNA LEGITTIMA DIVERSITÀ
      Rev. don Daniel Field, OSB, dell’abbazia Notre-Dame, Randol
PROBLEMI DELLA RIFORMA LITURGICA
      Rev. canonico André Rose, di Namur, Belgio
PER UN NUOVO MOVIMENTO LITURGICO
      Rev. P. don Charbel Pazat de Lys, OSB, dell’abbazia Sainte Madeleine, Le Barroux
LA «RIFORMA DELLA RIFORMA» E IL RITO ROMANO ANTICO
      Prof. Robert Spaeman, di Stuttgart, già Presidente di “Pro Missa Tridentina”
«PROBLEMATIZZAZIONE» DELLA NUOVA LITURGIA
      Prof. Miguel Ayuso Torres, Presidente dello SPEIRO, Madrid
CONSIDERAZIONI SULLA RIFORMA LITURGICA
      Prof. Roberto de Mattei, Presidente del “Centro Culturale Lepanto”, Roma
BILANCIO E PROSPETTIVE
      S. Em. Rev.ma il Card. Joseph Ratzinger

CONCLUSIONE

Gli Atti di queste giornate liturgiche sono disponibili, in francese, presso l’
Association Petrus a Stella, Abbaye Notre-Dame - 36220 Fontgombault - Francia 
Volume di 200 pp., 90 FF piú 30 FF di spedizione (14 + 5 Euro)

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(aprile 2002)


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