LA NUOVA
"INSTITUTIO GENERALIS MISSALIS ROMANI"
primo passo verso la "riforma della riforma" ?
Il 28 luglio 2000, nel cuore delle celebrazioni
giubilari, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti
ha reso pubblica la nuova redazione della Institutio Generalis,
mediante la quale si introduce una rinnovata editio typica
(la terza in ordine di tempo dall’entrata in vigore della riforma di Paolo
VI) del Missale Romanum ‘ex decreto Sacrosancti Oecumenici
Concilii Vaticani II instauratum, auctoritate Pauli PP. VI promulgatum,
Ioannis Pauli PP. II cura recognitum’.
È risaputo come, fra i vari atti
del Magistero in materia liturgica, la “Institutio Generalis Missalis
Romani” (in seguito IGMR) costituisca un riferimento imprescindibile
per l’interpretazione e la comprensione del carattere dei “ritus
et preces” (riti e preghiere) relativi al principale atto di culto
della Fede Cattolica, in quanto in esso è possibile rinvenire una
esposizione sintetica - e tuttavia sufficientemente esauriente - dei contenuti
teologico-dottrinali sottesi al rito della Messa, oltre ad una definizione
delle direttive rubricali essenziali in ordine a quello che si ritiene
debba essere il modo canonico di celebrazione della Liturgia Romana
postconciliare.
Se è dunque dalla lettura di questo documento che è
principalmente possibile capire cosa “ufficialmente” sia oggi il Rito Romano
nella Chiesa Cattolica e cosa, conseguentemente, sia destinato a divenire
nei prossimi anni, si comprende bene quale importanza rivesta un’adeguata
indagine del testo - soprattutto quanto al raffronto con la versione che
l’ha preceduto - al fine di fare il punto sullo stato della “questione
liturgica”, da qualche tempo balzata con forza
all’attenzione dei cattolici in seguito ad alcune dichiarazioni di S. Em.
il Cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (1),
oltre che alla crescente insofferenza manifestatasi in sempre più
consistenti e qualificati settori del mondo cattolico, a fronte di quella
che molti non esitano a definire “deriva rituale” postconciliare.
Prima però di passare ad una sintetica
e certamente sommaria analisi dell’ampio documento (ben 114 cartelle),
pare utile premettere una notazione di carattere, per così dire,
“estrinseco” al testo ed afferente le circostanze che ne hanno accompagnato
la diffusione: inviati in anteprima alle Conferenze Episcopali di tutto
il mondo e successivamente fatti stampare nella sola versione originale
latina, a tutt’oggi, ovvero a distanza di un anno e mezzo dalla loro prima
divulgazione, i nuovi Praenotanda non risultano ancora essere
stati seguiti dalla pubblicazione della edizione riveduta del Messale Romano,
di cui costituiscono appunto l’introduzione. In
merito è da rilevarsi come il prolungato differimento della presentazione
del Messale, già abbastanza strano in se stesso, si riferisca ad
un atto che, come risulta dall’incipit della stessa IGMR,
“esiste” ufficialmente sin dal 20 aprile 2000, giorno in cui la editio
typica emendata dello stesso Messale è stata regolarmente
promulgata dalla competente Congregazione per il Culto Divino in seguito
all’approvazione da parte del Santo Padre avvenuta in data 11 gennaio 2000
(2). Tale singolare circostanza, sul cui
significato nessuna spiegazione è stata fornita da parte vaticana,
deve in ogni caso segnalarsi in questa sede, prescindendo dalle possibili
illazioni che possano farsi in merito, stante la sua diretta incidenza
ai fini dell’analisi di un documento quale l’IGMR, del quale inevitabilmente
pregiudica in modo significativo una valutazione esaustiva, in ragione
dell’indissolubile rapporto che intercorre tra lo stesso e l’edizione riveduta
del Messale postconciliare.
Fatta questa necessaria premessa, cerchiamo
di offrire una visione di sintesi del documento, per scendere successivamente
nello specifico di alcune previsioni, cercando in tal modo di metterne
quanto meglio possibile a fuoco la fisionomia.
Sguardo critico d’insieme
Da un punto di vista strutturale, la novellata
“Institutio Generalis Missalis Romani” è ripartita
in nove capitoli (uno in più rispetto all’edizione precedente, ossia
quello relativo alle “Aptationibus quae Episcopis eorumque conferentiis
competunt”), mentre l’organizzazione dell’intera materia nei complessivi
339 paragrafi, cui fa seguito un ricco apparato esplicativo di note,
denota un tentativo dei redattori di celare, dietro un ostentato senso
di armonia ed equilibrio - in qualche modo rafforzato anche da una certa
ricercatezza sul piano linguistico e lessicale - la natura palesemente
“emergenziale” del documento, la quale tuttavia trapela, come avremo modo
di vedere, sia dall’intonazione generale che da molte delle previsioni
concrete in esso rinvenibili.
Sul piano dei contenuti, una prima lettura
evidenzia come gli interventi modificativi sulla precedente edizione si
dispieghino per oltre tre quarti dell’estensione del testo,
sostanziandosi in una serie di correzioni, integrazioni e soprattutto riformulazioni
che rivelano - ictu oculi - un intenso lavorio di analisi
- quasi un vero e proprio “passaggio al setaccio” delle singole parti
della sequenza rituale - ordinato per lo più a una ragionata revisione
di molte determinazioni concrete della previgente versione, il cui disposto,
in ragione di una certa genericità nella formulazione, non risultava
sufficientemente delineato, dando in tal modo adito a vistosi margini di
flessibilità “interpretativa” potenzialmente lesivi dell’unità
rituale.
Si direbbe quindi che, fermo restando l’impianto
di base, gli estensori abbiano inteso incidere sensibilmente, da un punto
di vista quantitativo, sull’edizione del ‘75, ritoccando in modo non superficiale
il complesso delle previsioni e in ogni caso riordinando una materia che,
se per un verso andava armonizzata, almeno nelle
intenzioni dichiarate, con il voluminoso apparato magisteriale mediante
cui è stata demolita negli ultimi venticinque anni la Liturgia Romana
Tradizionale ed innalzato ab imis l’ambiguo edificio della
liturgia moderna (3), per l’altro si presentava
ormai matura per una “rilettura critica”, che tenesse conto di quanto emerso
a livello di prassi liturgica in oltre un quarto di secolo di applicazione
della riforma.
In questo senso dunque, all’origine della
complessa operazione voluta dalla Congregazione per il Culto Divino, vi
sarebbe un duplice ordine di motivazioni: da un
lato una manifestata esigenza di maggiore aderenza della struttura rituale
allo “spirito” della riforma e ai suoi capisaldi - siccome esplicitati
nei documenti magisteriali ad essa successivi (4)
-, dall’altro una volontà verosimilmente di tipo “correttivo” rispetto
a interpretazioni del nuovo rito evidentemente ritenute abusive e in parte
imputabili ad alcune “imperfezioni” di tipo “genetico” proprie della nuova
liturgia.
Se questo è vero, ci troviamo allora
subito di fronte a due acquisizioni abbastanza interessanti: la prima consiste
nel riconoscimento che il caos liturgico registratosi nell’effettività
della recezione della liturgia riformata non è un’invenzione dei
tradizionalisti, ma una realtà innegabile e appariscente al punto
tale da meritare una vera e propria reazione di carattere “organico” da
parte della massima Autorità competente in materia; la seconda è
l’ammissione, indiretta ma non per questo meno esplicita, dell’esistenza
di veri e propri “difetti di progettazione” nel modello rituale partorito
dalle menti illuminate dei “padri” della riforma.
A questo punto però vi sarebbe sin
da subito da chiedersi se l’impresa, ancorché audace negli obiettivi,
- in quanto condotta sulla premessa di fondo secondo cui i “problemi” del
nuovo rito scaturirebbero solo da presunte imperfezioni tecnico-normative,
attinenti in modo esclusivo al momento attuativo di un’“idea-forza” che
permarrebbe in se stessa valida - non sia metodologicamente nata morta,
in ciò riflettendosi lo stato di grave “smarrimento”, logico prima
ancora che culturale, di cui pare essere vittima l’Autorità alla
quale è affidato l’alto compito di preservare l’integrità
del Culto Divino e, conseguentemente, della stessa Fede Cattolica.
Vediamo di spiegarci meglio.
L’IGMR, in quanto atto generale di grande importanza strategica, riceverà
sicuramente interpretazioni di segno diverso e assai contrastanti a seconda
dei vari orientamenti dei recensori che si eserciteranno a commentarla:
è purtroppo questo il destino di molti dei documenti del Magistero
recente, il cui linguaggio pare scientificamente studiato in modo tale
da consentire a ciascuno di scorgere ciò che meglio si adatta alle
proprie personalissime convinzioni e desideri. Tuttavia, tra le pur molte
possibili letture prospettabili, ciò che emerge in maniera assai
chiara a un secondo e più approfondito livello di analisi dell’IGMR
(e che sarà davvero difficile negare anche da chi si studierà
di inserire quest’atto in un movimento di fisiologica “crescita” delle
ragioni del nuovo rito), è il suo carattere di documento espressivo
della “crisi” profonda e nient’affatto contingente che attanaglia la cattolicità,
crisi che proprio nel culto divino trova il suo punto di massima emergenza.
Infatti, ad una lettura che si sforzi di coglierne tra le righe l’autentica
natura, la nuova Institutio Generalis si rivela un intervento
magisteriale “generato” dal constatato dissesto della liturgia cattolica,
dissesto di cui essa non solo costituisce una presa d’atto come di circostanza
non più giudicabile episodica o passeggera, ma che soprattutto questa
stessa Institutio accetta di considerare quale “fatto patologico”
rispetto al quale si pone ormai come improcrastinabile l’elaborazione di
una strategia “terapeutica”.
Tra gli elementi a conferma
di quest’asserto, almeno tre risultano a nostro avviso decisivi: in primo
luogo vi è la relativa vicinanza cronologica rispetto alla precedente
edizione, appena venticinque anni - un’inezia considerando gli abituali
tempi ecclesiastici e soprattutto quella che fu l’inamovibilità
secolare del Rito Tradizionale (5) -; in secondo
luogo vi è l’incisività dell’intervento modificativo sul
testo previgente, il quale, pur non giungendo alla radicalità di
uno stravolgimento dell’impianto fondante della IGMR del ‘75, depone in
modo inequivoco nel senso di una sostanziale “non tenuta” della riforma
all’esito della prima fase della sua vigenza; da
ultimo, e massimamente, vi è il tenore stesso delle disposizioni
specifiche presenti nell’attuale edizione, molte delle quali manifestano
una evidente relazione con alcune delle prassi più macroscopicamente
abusive cui abbiamo dovuto assistere negli ultimi anni (6),
assumendo ora una forma apertamente “censoria”, ora una formulazione precettiva
“in positivo”, che tuttavia tradisce una schietta dipendenza da problematiche
legate all’attualità della celebrazione piuttosto che a un progetto
di ampio respiro.
Le cose cominciano dunque
a farsi più chiare: abbiamo infatti una serie di elementi univoci
e convergenti, i quali attestano come, molto più che da una necessità
di adeguamento della liturgia riformata al magistero liturgico successivo
alla riforma (il quale, sia detto per inciso, si è mosso lungo una
linea ricognitiva dei principi conciliari, dei quali ha per lo più
tentato di mitigare le possibili estremizzazioni, sforzandosi di fornirne
per quanto possibile una “lettura” pienamente ortodossa (7)),
l’intervento della Gerarchia sia stato piuttosto sollecitato da uno stato
di permanente instabilità del nuovo rito (ci si perdoni il gioco
di parole), evidentemente legato alla grave problematicità applicativa
che ne ha caratterizzato il pur breve corso.
Ma, alla luce di tutto ciò, qual
è la qualità della risposta che l’Autorità ha ritenuto
di fornire ai complessi quesiti postigli dalla prassi? Quale il livello
al quale è stata affrontata la problematica che investe il rito
cattolico? Ci troviamo di fronte ad un atto in grado di investire la sostanza
della questione liturgica oppure a un ulteriore documento di carattere
interlocutorio, destinato in ragione della sua accidentalità a non
produrre effetti pratici significativi?
La valutazione, pur presentandosi in linea
di massima negativa, deve essere necessariamente articolata.
In effetti, dall’analisi dell’ampio
documento si evince l’indubbia esistenza di una presa di posizione “nuova”
da parte della Gerarchia, la quale appare però condizionata da quello
che potrebbe definirsi una sorta di “blocco psicologico” che le impedisce
di andare alla radice dei problemi: la “ricetta” proposta dalla Congregazione
per il Culto Divino viene di conseguenza a collocarsi a un livello prevalentemente
“rubricale”, appalesandosi pertanto inevitabilmente parziale, superficiale,
insufficiente e assolutamente inadeguata a fronteggiare una crisi la cui
entità, toccando la stessa essenza del culto cattolico, origina
ben altrove che da mere imperfezioni o imprecisioni normative, presentando
di fatto un’impermeabilità a soluzioni che limitino la loro operatività
ad un piano meramente “tecnico”.
Nel merito, deve riconoscersi che, al di
là delle numerose puntualizzazioni specifiche, in un senso più
generale in questa nuova edizione si avverte una “disposizione” diversa
da parte degli estensori, la quale adombra un approccio improntato
a un relativo recupero del patrimonio tradizionale del Rito Romano quanto
al modo di concepire l’atto di culto, inaugurando sul piano degli indirizzi
una tendenza di tipo restrittivo in certo senso in opposizione a quella
prevalente nel primo periodo postconciliare.
Questo “nuovo spirito”, da un punto di vista
effettuale, prende forma in una maggiore precisione del lessico teologico,
cui fa peraltro da pendant, sul piano delle determinazioni
concrete, un significativo irrigidimento rubricale
(8), quasi un tentativo di cristallizzare, mediante
la fissazione di alcuni punti fermi, la fluidità interpretativa
che ha caratterizzato quello che, considerando il tenore del documento,
potrebbe forse ormai ritenersi una sorta di “primo tempo” della riforma.
Considerata da questo punto di vista la
nuova edizione della IGMR può giudicarsi come effettivamente migliorativa,
dando corpo ad una mini-svolta tutta “interna” al rito riformato, del quale,
pur senza metterne in discussione la “filosofia” di fondo, intende attenuare
la valenza “sperimentale” con l’obiettivo di temperarne taluni eccessi
legati alla sua flessibilità e così pervenire ad una situazione
di maggiore unitarietà e stabilità.
È naturale allora che si accenni
un cauto tentativo di risacralizzazione della liturgia; che vengano contratti
gli spazi, all’origine assai ampi, lasciati al “protagonismo” degli “attori
liturgici”; che se ne comprima conseguentemente entro limiti più
angusti la creatività, evidenziando con maggiore chiarezza quanto
di intangibile ed immutabile debba indefettibilmente preservarsi nella
serie liturgica.
Non stupisce, nel contempo, che ci si richiami al rispetto della specificità
dei singoli ruoli gerarchicamente ordinati, evidenziando la diversità
ontologica sussistente tra sacerdozio ministeriale e battesimale (9),
che si individui nel vescovo una sorta di “supremo garante” dell’ordine
liturgico della diocesi (10), come pure che l’adattamento
liturgico legato all’inculturazione del rito, pur confermato in via di
principio (11), si preveda come esercitabile in
modo più circoscritto e in ogni caso subordinatamente ad un controllo
più penetrante dell’Autorità gerarchicamente sovraordinata
(a seconda dei casi: il Vescovo diocesano nei casi espressamente previsti
ovvero, per interventi più profondi, le Conferenze dei Vescovi sotto
il controllo della Sede Apostolica).
In questo contesto si inseriscono e vanno adeguatamente valorizzati
anche taluni importanti richiami alla Tradizione del Rito Romano, esemplificativamente
rappresentati dal riferimento al canto gregoriano, al quale viene restituito,
in ossequio al disposto conciliare (12), il posto
d’onore che gli spetta in quanto forma musicale propria del rito latino
(13).
Tutto positivo, dunque? Purtroppo no.
Nel piano del documento infatti c’è
un aspetto - ed è quello essenziale - il quale, come si è
accennato, permane assolutamente immutato rispetto alla precedente edizione,
compromettendo a nostro avviso tutte le potenzialità dell’opera
di revisione: ci riferiamo al “nuovo dogma” rappresentato dalla riforma
liturgica e dal suo correlato apparato teologico, dogma ormai intangibile
di cui la Gerarchia appare come prigioniera, costituendo esso il prodotto
più coerente di quello “spirito del Concilio”, ossia della “cripto-eresia”,
che da ormai trentacinque anni devasta il corpo ecclesiale, “spirito” che
è all’origine delle contraddizioni e delle deviazioni post-conciliari
e di cui quest’atto cerca di rintuzzare, con una terapia ingenuamente “sintomatica”,
i precipitati più devastanti in campo liturgico.
È proprio questo atteggiamento che,
ci si consenta di dirlo senza infingimento, appare a dir poco sconcertante
ove si ponga mente al fatto che esso proviene da coloro che dovrebbero
distinguersi per essere i massimi “cooperatores veritatis”;
nonostante, per certi versi, esso sia umanamente comprensibile, in
quanto una simile ulteriore ammissione “di colpa” comporterebbe di fatto
la messa in stato d’accusa di un’intera stagione della storia recente della
Chiesa, emblematicamente rappresentata proprio dalla nuova liturgia; per
tacere del legittimo sospetto che verrebbe a gravare sugli stessi documenti
conciliari, ai quali potrebbe essere verosimilmente imputata quella
doppiezza che ha fornito validi appigli testuali a tanti arbitrii non solo
liturgici.
Che l’intera opera di revisione dell’Institutio
si
sia infatti potuta concepire senza neppur minimamente preoccuparsi, proprio
in considerazione delle gravi distorsioni applicative prodottesi, di effettuare
una previa riflessione su quella che fu la “ratio” della riforma (optando
irragionevolemente per un immediato passaggio al piano dispositivo
e privilegiando quindi un’azione “a valle” non sostenuta da alcuna
riconsiderazione “a monte” della “mens” sottesa al nuovo rito, la quale
ne verificasse ad ogni livello la perdurante validità a distanza
di cinque lustri dall’introduzione), costituisce una scelta di metodo
inammissibile sia sul piano logico che su quello della analisi della materialità
dei fatti.
È del tutto evidente infatti come, a garanzia della credibilità
dell’intera operazione, si richiedesse da parte dei revisori di provvedere
in limine a sgombrare il campo dal dubbio - ormai molto più
che tale - che il nodo problematico sia costituito “dalla riforma”
in quanto tale, ossia da ciò che ne rappresenta l’indole profonda,
costituita da un sovvertimento di fatto della centralità dell’elemento
divino a vantaggio di una preponderanza dell’elemento umano, icasticamente
significata da quel rovesciamento nell’orientamento dell’altare a tutta
vista indicativo di un modo affatto nuovo e diverso d’intendere la lex
orandi.
A questo “dovere logico” di porre sul tappeto
la questione del possibile nesso tra la crisi del rito e l’essenza della
liturgia rinnovata, si cumulava poi l’ulteriore obbligo di ragionare
sulle circostanze storiche in cui si è manifestata la crisi liturgica,
traendone le debite conclusioni.
La questione del rito, come nessuno può negare senza far torto
alla verità, si è posta come problema nella cattolicità
successivamente all’imposizione “d’autorità” di una liturgia completamente
rimodellata (14): tutti sappiamo come, per effetto
di questa riforma, si sia voluta attuare ad ogni costo una vera e propria
“rivoluzione copernicana” del culto cattolico - quasi una sua “ricentratura”
- nell’ambito della quale sono stati ridefiniti “a tavolino” valori, ruoli
e priorità in base ad un ben preciso disegno “ideologico”, malcelata-mente
dissimulato dietro mai ben chiarite irrefragabili “motivazioni pastorali”.
Ebbene, non vi è dubbio - e di ciò
doveva necessariamente tenersi conto prima di operare qualsivoglia tipo
di intervento - che è questo nuovo rito, schiettamente moderno,
che ancora oggi, cioè dopo oltre trent’anni di operatività
ad
experimentum, séguita ad evidenziare gravissimi aspetti
disfunzionali ed altrettanto gravissime “sofferenze” non solo sul piano
dottrinale, ma anche su quello pastorale, mancando così proprio
a quell’obiettivo in funzione del quale si è preteso di giustificarne
l’introduzione (15).
Se è così, non può ritenersi in alcun modo accettabile
che a Roma si continui a non essere neppure sfiorati dal sospetto che qualcosa
non funzioni “al fondo” della riforma, come pure deve giudicarsi assolutamente
inopportuna la scelta di introdurre ritocchi di facciata, seppur quantitativamente
significativi, senza che prima si sia provveduto ad un “controllo” dell’assetto
portante del nuovo edificio rituale.
Eppure questo è esattamente ciò che è avvenuto.
Ricondotta infatti semplicisticamente (o
forse sarebbe meglio dire con maggiore comodità) la patologia del
rito attualmente celebrato alla mera inadeguatezza, ovvero al difetto di
funzionamento di qualche previsione rubricale - quando non, ancor più
banalmente, all’inottemperanza di celebranti estrosi ed assemblee riottose
alle disposizioni del legislatore liturgico -, si ripropone
intatto il nucleo centrale della precedente IGMR, ossia quella parte “proemiale”
che costituisce la sede in cui sono specificate le coordinate teologiche
entro cui trovano collocazione e giustificazione le determinazioni formali
del rito (16).
Ne esce pertanto pienamente confermato, e quindi “promosso” a pieni
voti, il quadro teologico già alla base del documento del ‘75, caratterizzato
dall’affievolimento, giunto fin quasi all’obliterazione, dell’essenza sacrificale
della Messa Cattolica (17) - (e conseguentemente
della correlata sua finalità satisfattoria) - ormai ridotta a poco
più che una pallida reminiscenza, quasi una sorta di ossequio formale
ad un passato lontano ed ormai da rimuovere.
Ad esso corrisponde, coerentemente, la decisa riaffermazione di una
“nuova nozione” di Messa (o forse sarebbe più giusto dire,
coerentemente ai presupposti dottrinali dei riformatori, di “Eucaristia”,
ossia “Rendimento di Grazie” elevato a Dio) come luogo della perpetuazione
memoriale del “Mistero della Salvezza”, compiuto nel segno sacramentale,
nel quale si “attualizzano” gli eventi salvifici della vita del Cristo:
Morte, Resurrezione ed Ascensione al Cielo, “resi presenti” nel convito
pasquale (18).
In tale orizzonte concettuale, è del tutto evidente come
i “Divini Misteri” - nella nuova accezione che viene attribuita a questa
espressione - siano “naturalmente” destinati a manifestarsi nell’assemblea
e per l’assemblea (19), vera protagonista dell’atto
di culto, in quanto immagine esemplare di quella Chiesa “Mistero”, di cui
il Cristo, rappresentato nella sacra sinassi dal sacerdote-presidente,
è Capo (20).
Quanto tutto ciò sia lontano dalle
limpide definizioni del Tridentino sul Santo Sacrificio della Messa, quale
pericolo rappresenti per la Fede Cattolica, per
il Sacerdozio e per la Chiesa tutta quest’ibridazione protestantica della
liturgia cattolica, è stato sin troppe volte ed assai autorevolemente
evidenziato perché si debba ulteriormente ripeterlo in questa sede
(21).
Ci sia consentita però una pur breve considerazione, condotta
da profani della materia ed alla luce del solo buon senso, ma alla quale
ci pare importante brevemente riferirci al fine di comprovare la tesi che
ci sforziamo qui di sostenere.
È noto come l’introduzione del nuovo
rito, che costituisce uno dei “prodotti” dell’abbraccio mortale tra Chiesa
Cattolica e modernità, spasmodicamente perseguito dal Concilio Vaticano
II ed attuatosi nella pratica attraverso l’utilizzo dell’espediente ecumenico,
abbia segnato il tramonto dell’idea della perennità del culto divino
a favore di una visione “storicistica” della liturgia, chiamata ad “adattarsi”
alla differente percezione del sacro propria di ogni gruppo umano storicamente
dato.
Se dunque, teologicamente, l’assioma base è quello secondo cui
il Rito della Messa cessa di essere “forma perfetta”, tendenzialmente immutabile,
della adorazione tributata all’infinita Maestà Divina ed attuata
attraverso l’offerta sacrificale incruenta della Vittima a Dio gradita
per la remissione dei peccati - per le mani del ministro agente “in
persona Christi” -, per divenire invece, come sostenuto dalla teologia
moderna, il “luogo” della recezione del Mistero, “nel segno”, da parte
dell’assemblea, è evidente come ne discenda quale ovvio corollario
che debba essere la stessa assemblea - o, al limite, il singolo - a determinare,
entro gli ampi limiti di un canovaccio rituale che metta al sicuro
la valenza comunitario-ecclesiale della celebrazione, le modalità
da essa ritenute più idonee affinché l’evento salvifico sacramentalemente
presente sia accolto nella fede quanto più fruttuosamente possibile.
In questo senso può dunque affermarsi
che la riforma liturgica, con il tendenziale spostamento del baricentro
rituale dal Divino all’umano che la contraddistingue - e che fa della Messa
preponderantemente la celebrazione dell’assemblea dei salvati, la quale
si “appropria” del Mistero e nel contempo eleva la propria lode a Dio -,
abdichi alla concezione del sacro quale sempre è stata intesa nella
Tradizione sia occidentale che orientale e rechi in sé, come connotato
d’origine che ne condiziona profondamente il modo di essere, un’idea assolutamente
innovativa di “uso del sacro”, la quale rende in qualche modo incoercibile
la fruizione del sacro stesso in un senso univoco e autoritativamente definito
e ultimativo.
Se dunque è la stessa “costituzione intrinseca” del nuovo rito
a renderlo “fisiologicamente” refrattario ad una regolamentazione serrata,
l’intervento della Congregazione per il Culto Divino non può non
apparire un’arma spuntata, in quanto è chiaro come nel descritto
sistema concettuale i documenti liturgici non possano giammai essere più
che delle “istruzioni per l’uso” dalla precettività tenue, permanendo
in ogni caso la struttura rituale uno “spazio aperto”, suscettibile di
recepire quanto una sensibilità liturgica, supposta variabile nello
spazio come nel tempo, elaborerà nel perenne “divenire” del rapportarsi
dell’uomo a Dio.
Peraltro questo passaggio da una liturgia
“essenziale” a una liturgia “esistenziale”, con le conseguenze che comporta,
- una fra le quali è quella di un nuovo ruolo del magistero liturgico,
chiamato in qualche maniera a normare, previa valutazione nel merito, le
innovazioni emergenti dalla prassi e ritenute coerenti al disegno complessivo
del rito, - risulta tristemente confermato proprio dalla nuova IGMR.
Questa infatti, pur imbrigliando il rito entro una griglia rubricale
più fitta, viene ad accogliere simultaneamente le “nuove sensibilità”,
sviluppatesi nel “farsi” della liturgia degli ultimi trent’anni, e parimenti
le regolamenta: si spiega così la “legalizzazione” di alcune tra
le prassi più distorte - si pensi alla Comunione sulla mano - scaturite
dalla pratica delle celebrazioni di molte diocesi.
La ricerca, dunque, di un’impossibile quadratura
del cerchio, finisce paradossalmente per far sì che, nel mentre
ci si impegna in un’operazione di recupero di un “minimum”
di senso del sacro, si attui di fatto una radicalizzazione ulteriore, ancorché
normativizzata, di quell’indole desacralizzante - sinteticamente esprimibile
come umanizzazione dell’evento liturgico e distrazione dello sguardo dal
Divino - che rappresenta l’identità profonda e la cifra di fondo
della nuova liturgia.
È questa in ultima analisi la ragione
per la quale questo tentativo di “irregimentare” il rito non potrà
pervenire ad alcun risultato utile: se esso infatti da una parte non tocca
nessuno dei problemi “reali” che affliggono la liturgia cattolica, dall’altra,
inserendo elementi di “rigidità” in evidente discrasia con i principi
base della riforma, contribuirà a generare al suo interno ulteriori
motivi di tensione, accrescendo il disorientamento.
Le ragioni del prevedibile insuccesso dell’operazione
non attengono tuttavia solo al piano teorico, dovendosi l’impatto di questo
atto magisteriale misurare anche su quella che è la situazione della
Chiesa in questo particolare momento storico.
Se infatti è prevedibile una positiva accoglienza della nuova
IMGR da parte di quei settori del clero e del laicato impegnati nell’impresa
- forse impossibile - di ricercare una continuità tra Vetus e Novus
Ordo per sanare una frattura che pare aver prodotto una liturgia artificiale
e insanabilmente inido-nea in se stessa ad esprimere la genuina Fede cattolica,
agli occhi di chi si è abbeverato - e si tratta ormai della maggioranza
del clero e degli “operatori liturgici” - alle teologie neomoderniste alla
base del nuovo rito, questo documento apparirà solo come la fastidiosa
reviviscenza del vituperato rubricismo preconciliare e, in generale, di
un modo “sacrale” di intendere la liturgia duro a morire.
A ciò dovrà poi aggiungersi l’erosione nella Chiesa del
principio di autorità il quale, combinato a quel processo di atomizzazione
ecclesiale che ha reso le diocesi delle entità quasi autoreferenti,
non lascia presagire una recezione “facile” delle direttive impartite dalla
Congregazione per il Culto Divino, soprattutto da parte di quel clero (nel
cui novero sono da includere anche molti vescovi) formatosi nel clima del
primo postconcilio e naturalmente insofferente a ogni forma di esercizio
del potere magisteriale, sbrigativamente bollato come vischiosità
dell’odiato centralismo romano.
Le innovazioni salienti
Venendo ad un’analisi di dettaglio delle
varie sezioni del documento che ci consenta di cogliere i riferimenti testuali
di quanto sinora siamo venuti affermando, premettiamo innanzitutto, ad
evitare interpretazioni erronee su quella che è la nostra valutazione
del documento, che in essa ci si riferirà esclusivamente a quelle
previsioni che in qualche modo segnano una discontinuità rispetto
alla precedente versione dell’IGMR, evitando di soffermarsi su quanto,
riproposto tal quale rispetto al testo precedente,
soggiace al giudizio critico complessivo sul Novus Ordo Missae già
in precedenza espresso da queste colonne: è il caso, solo per fare
degli esempi, delle disposizioni relative alla comunione sub utraque
specie (22) oppure alla norme che presiedono
alla concelebrazione.
Venendo dunque ad un esame puntuale
dei contenuti (e tralasciando il proemio che, in quanto fulcro dottrinale
del documento, si presenta affatto privo di significative varianti), di
un certo interesse nel primo capitolo - intitolato “De celebrationis
eucharisticae momento et dignitate” - sono alcune sottolineature
teologiche relative alla essenziale funzione della Terza Persona della
SS. Trinità nell’azione liturgica, talora non perfettamente tratteggiata
nella precedente edizione, alle quali fa immediatamente
riscontro un’accurata individuazione della specificità del compito
liturgico appartenente al ministro ordinato (23),
la cui unicità sostanziale viene ulteriormente rafforzata anche
laddove il documento (Cap.III - De officiis et ministeriis in Missa),
dopo aver precisato la fisionomia delle singole figure chiamate a coadiuvare
il presbitero, si occupa della distribuzione dei diversi compiti nel corso
della celebrazione (24).
Sempre con riferimento al primo capitolo
(25), un accenno merita pure la perentoria ingiunzione,
rivolta a sacerdoti e comunità, a non effettuare manomissioni della
liturgia che travalichino i limiti espressamente previsti dall’IGMR: pur
ribadendosi quindi la linea dell’inculturazione (26),
giustificata in funzione delle solite finalità pastorali, si cerca
per quanto possibile di arginarne i possibili straripamenti, anche mediante
l’utilizzo di un sistema di controlli teoricamente perfezionato (ma, ci
si chiede, saranno questi suscettibili di “funzionare” nella pratica?)
Si tratta in effetti di una norma “sensibile”, in quanto espressione
di sintesi appunto di quella differente temperie che permea il documento
e di cui abbiamo fatto cenno sopra, la quale peraltro si specifica in una
lunga serie di disposizioni attraverso cui il legislatore liturgico, lungo
l’intero corpo del testo, ha “sanzionato” alcune fra le più
vistose aberrazioni prodottesi e talora consolidatesi negli anni recenti,
in tal modo implicitamente riconoscendo, come sopra detto,
la grave situazione di sbandamento liturgico.
Tra le tante, sembra giusto fare un accenno
alla disposizione con cui si censura l’arbitrio e la propensione personale
in ordine ai gesti e agli atteggiamenti nello svolgimento della liturgia
(27); alle norme con cui si prevede l’infungibilità
del Kyrie e l’assoluta incommutabilità del Gloria
e
dell’Agnus Dei, come pure al divieto di sostituire a proprio
libito le letture quotidianamente proposte dal Lezionario (28);
all’esortazione ad evitare ogni frettolosità nella declamazione
della Parola di Dio, come pure a valorizzare gli
spazi di silenzio e di meditazione (29); all’invito
alla sobrietà e alla concisione nella formulazione delle intenzioni
dell’orazione universale (30); al divieto per
l’assemblea di “associarsi” (?!?) al celebrante-presidente nella pronuncia
del canone (31); all’ingiunzione a mantenere il
proprio posto, esteso anche al celebrante-presidente, durante il ritus
pacis (32); alla raccomandazione, rivolta
al presbitero, di non protrarre più del dovuto, attribuendogli
in tal modo la giusta importanza, il gesto della fractio panis,
il cui compimento viene (?!?) a lui espressamente riservato (33);
da ultimo, all’incredibile divieto, rivolto al sacerdote “ritardatario”,
di inserirsi nella concelebrazione già avviata (34);
si potrebbe proseguire, ma preferiamo non addentrarci ulteriormente per
non tediare oltre il dovuto il lettore.
I successivi capitoli capitolo II, III e
IV tracciano lo schema del rito delineandone i vari momenti e, più
che segnalarsi per la presenza di elementi di novità, denotano una
particolare accuratezza nella descrizione precettiva delle singole fasi
della celebrazione, in tal modo operando quel sensibile “restringimento”
della discrezionalità liturgica, di cui abbiamo fatto menzione nella
prima parte di questa riflessione.
Due particolari meritano comunque un riferimento specifico: intendiamo
riferirci a un certo recupero della sacralità del gesto, ottenuto
attraverso un’accresciuta importanza accordata agli atteggiamenti di riverenza
da tributare all’altare e al crocifisso all’inizio e alla conclusione della
celebrazione (35), nonché all’Evangeliario
al momento della lettura dell’Evangelo (36), come
pure alla parziale restaurazione di un certo clima di “adorazione” (termine
assai sgradito ai novatori) durante la parte “sacrificale”
della Messa, ossia quella ricompresa tra il Sanctus e la
dossologia finale che precede il Pater (37).
Da ricordare ancora, per quanto concerne la cosiddetta “Liturgia della
Parola”, una certa qual “riscoperta” della funzione “magisteriale”
dell’omelia (38), messa in ombra nella precedente
edizione dall’affacciarsi di una certa sensibilità protestantica
nell’approccio alla Sacra Scrittura.
Brutta caduta invece, oltre che in stridente contraddizione con il
tono complessivo del documento, quella già in precedenza menzionata
e relativa alla distribuzione della Comunione: dopo aver contemplato
infatti la possibilità per i fedeli di comunicarsi in ginocchio
(39), si concede al vescovo diocesano di stabilire
quale debba essere il modo per i fedeli di ricevere le Specie Eucaristiche,
“legalizzando” così la prassi sacrilega della Comunione sulla mano.
Importante è infine, dal V e VI capitolo,
la parte del documento dedicata alla disposizione delle chiese, all’ornato
e alla suppellettile liturgica, in ordine alle quali mette conto evidenziare
almeno tre elementi.
Di particolare rilevanza, con riferimento all’accennato tentativo di
risacralizzazione del culto, è la rinnovata centralità attribuita alla
croce effigiata dell’altare, la cui presenza viene indefettibilmente richiesta
durante tutto il corso della celebrazione (40):
si tratta di una “novità” importante, in quanto rappresenta, pur
nella conferma come “regola” (ma non come obbligo) della celebrazione versus
populum, un volontà di “ri-orientamento” del culto, con
cui viene ripristinata un’antichissima tradizione di
derivazione patristica, se non addirittura apostolica, accomunante
l’Occidente e l’Oriente cristiano (41).
Circa la disposizione dell’altare, poi, dopo aver specificato come
nelle Chiese di nuova costruzione sussista l’obbligo di erigere un
unico altare “a parete seiunctum” (42),
di un certo peso è la precisazione secondo cui, per le chiese antiche,
l’erezione di un nuovo altare da collocarsi davanti a quello “tridentino”
è da prendersi in considerazione solo nell’ipotesi in cui la
situazione spaziale dell’altare antico renda impossibile o eccessivamente
difficile la “partecipazione” del popolo (43):
si tratta di una previsione che, se applicata, dovrebbe contribuire
alla messa al bando della illogica ed incomprensibile consuetudine della
duplicazione degli altari nei presbiterii, affermatasi come regola in tutte
le chiese edificate posteriormente al Concilio.
Per concludere questa breve e assolutamente inesaustiva rassegna delle
novità dell’IGMR, un riferimento al luogo di conservazione del Santissimo:
che si prevede debba essere decentrato in una cappella laterale comunque
in comunicazione con il corpo chiesa per quanto
riguarda gli edifici di culto di nuova edificazione (44),
privilegiandosi al contrario per le chiese antiche la collocazione delle
Sacre Specie nel tabernacolo dell’altare maggiore “tridentino” (45).
Conclusioni
Nessuna “innovazione”, dunque, che investa
la sostanza come pure, di massima, la forma del rito postconciliare: siamo
piuttosto di fronte ad un documento di carattere prevalentemente “tecnico”,
in sé privo di significative implicazioni teologiche rispetto all’impostazione
della precedente edizione e nel quale non è dato riscontrare segnali
di una decisiva inversione di tendenza, che muova in direzione di un recupero
della teologia liturgica tradizionale capace di ricondurre il rito latino
pienamente nell’alveo dell’ortodossia cattolica.
Allo stato attuale, purtroppo, ciò che può ravvisarsi,
assieme ad una lucida consapevolezza del problema da parte della Gerarchia,
è solo la presenza di tenui avvisaglie del riaffacciarsi di una
concezione della liturgia come “azione sacra”, possibile seme di un’auspicabile
“controrivoluzione” liturgica, ancora tuttavia ben di là da venire.
Tutto ciò naturalmente non basta, anche se forse, guardando
con disincantato realismo la realtà della Chiesa attuale, è
il massimo che politicamente ci si possa attendere da una Gerarchia avvitata,
a trent’anni dal Vaticano II, nell’insolubile contraddizione che sta segnando
il secondo postconcilio: come non rinnegare il Concilio del disastro e
insieme rimediare al disastro del Concilio.
Appuntamento dunque rinviato per quell’auspicata
“riforma della riforma” (46), in grado di apportare
cambiamenti sostanziali nello stato della liturgia cattolica.
L’occasione è forse rimandata al manifestarsi di un ulteriore
acuirsi della crisi ecclesiale e in ogni caso a quando, anche a Roma, ci
si accorgerà della necessità, per rimettere in ordine quanto
è in disordine, di pensare il futuro del rito romano, e del cattolicesimo
in generale, guardando “indietro”, alla liturgia “perenne” gregoriano-piana
e alla insuperata sintesi offerta dal pensiero teologico tradizionale:
è da qui che occorre ripartire perché, riconsegnata la liturgia
al suo unico e vero “Protagonista”, i cattolici, distolti finalmente gli
occhi dall’ombelico del loro contingente, tornino, esortati dalla loro
Madre e Maestra, a levarli nuovamente verso il Cielo.
Niketas
NOTE
1 - Vedi, da ultimo, l’interessante intervento
del Cardinal Joseph Ratzinger pronunciato al Convegno “La Teologia della
Liturgia”, tenutosi presso l’Abbazia di Fontgombault il 22 luglio 2001.
(torna su)
2 - Così recita infatti testualmente
l’intestazione del documento: Institutio Generalis Missalis Romani.
Quam Summus Pontifex Ioannes Paulus II die 11 mensis ianuarii 2000 novam
editionem Missalis Romani benigne approbavit, Congregatio de Culto Divino
et Disciplina Sacramentorum die 20 mensis aprilis promulgavit, typicam
declaravit et typis mandari curavit. (torna su)
3 - Ci si riferisce all’Ordo lectionum
missae, seconda edizione tipica del 1981, al Codex iuris
canonici del 1983, all’Ordo dedicationis ecclesiae et altaris
del 1977, al Caeremoniale episcoporum del 1984, al De
benedictionibus del 1984, al De ordinatione episcopi, presbyterorum
et diaconorum del 1990, all’Ordo celebrandi matrimonium
del 1990, alla Circolare sulla preparazione della Pasqua del 1988, alla
Lettera Apostolica Vicesimus quintus annus del 1988, all’Istruzione
sulla inculturazione e la liturgia romana del 1994 e, da ultimo, all’Istruzione
interdicasteriale sulla collaborazione dei laici nel ministero dei
presbiteri del 1998. (torna su)
4 - Sul punto il par. 23 della nuova IGMR recita:
Quo
insuper celebratio praescriptis et spiritui sacrae Liturgiae plenius respondeat,
eiusque efficacitas pastoralis augeatur, in hac Institutione generali et
in Ordine Missae, aliquae accommodationes et aptationes exponuntur.
(torna su)
5 - Si consideri inoltre che tale periodo è
stato scandito dalla pubblicazione di ben cinque istruzioni applicative
della costituzione conciliare Sacrosantum Concilium, testo
quest’ultimo col quale la nuova edizione dell’IGMR cerca un aggancio forte,
quasi a volerne apparire una diretta emanazione. (torna
su)
6 - Caratterizza infatti quest’edizione dell’Institutio
Generalis - circostanza che rappresenta un’assoluta novità
in un documento di questo genere - un gran numero di disposizioni precettive
formulate in forma negativa, individuanti specifiche prassi abusive, sulle
quali si prescrive in forma categorica l’intervento in senso correttivo.
Sul punto, a mero titolo esemplificativo, vedi i paragrafi nn. 24, 42,
53, 71, 82, 83, 206. (torna su)
7 - Sul punto vedi, per tutti, la Lettera Enciclica
Dominicae
Coenae di S.S. Giovanni Paolo II, interamente dedicata alla tematica
liturgica . (torna su)
8 - Si rifletta sulla circostanza che nella
Missa sine diacono, la quale costituisce il canone di riferimento per tutte
le possibili varianti nella celebrazione, si rinvengono riformulazioni
praticamente in ogni paragrafo, per lo più finalizzate ad offrire
dettagliata descrizione degli atteggiamenti da tenersi da parte sia del
presbitero e dei suoi collaboratori che della stessa assemblea dei fedeli.
Si tratta peraltro di una linea di tendenza riscontrabile lungo tutto il
corso del documento. In particolare su questo punto cfr. parr. 120 e ss.
(torna su)
9 - Particolarmente significativo, sul
punto, il par. 93. (torna su)
10 - Crf. par. 22. (torna su)
11 - Crf. parr. 386 e ss. (torna
su)
12 - Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. de sacra
Liturgia, Sacrosanctum Concilium, n. 116. (torna
su)
13 - L’Institutio, con paragrafo
di nuova introduzione, così dichiara al principio del n. 41: Principem
locum obtineat, ceteris paribus, cantus gregorianus, utpote Liturgiae Romanae
proprius. (torna su)
14 - Non potendosi, in vigenza del precedente
ordinamento liturgico, parlare di crisi del rito, ma al più di un
appannamento nella conoscenza dei tesori dottrinali e pastorali custoditi
nel Messale di San Pio V, inconveniente questo perfettamente ovviabile
mediate un’attenta ri-formazione catechetica dei fedeli. (torna
su)
15 - Secondo dati ufficiosi, e tuttavia fortemente
verosimili, la percentuale di coloro che in Italia assolvono il precetto
domenicale sarebbe calata, dal 75% della popolazione nel 1960 ad appena
il 5% nel 2000. (torna su)
16 - Cfr. parr. 1-15. (torna
su)
17 - Se ne ritrova traccia, oltre che nella
parte introduttiva del documento, nei parr. nn. 27, 93
e 296. (torna su)
18 - Si tratta di un vero e proprio leit
motiv del documento. Per un esempio, tra i tanti, cfr. par. 22.
(torna su)
19 - Il par. n. 254 ribadisce, infatti, la
considerazione sfavorevole già in precedenza manifestata nei confronti
della Missa sine populo. (torna su)
20 - Se questo è l’assunto teologico
portante, da un punto di vista strutturale è riproposto intatto
l’ambiguo e fuorviante parallelismo tra la “Mensa della Parola” e “Mensa
del Pane e del Vino”, di cui in entrambi i momenti si ammette, seppur con
differente pregnanza, una presenza “reale” del Signore nell’assemblea liturgica.
(torna su)
21 - Si rimanda, sul punto, alle illuminanti
e sempre valide considerazioni espresse nel celebre Breve esame critico
del Novus Ordo Missae presentato a Paolo VI dai cardinali
Bacci ed Ottaviani (disponibile presso la Segreteria della nostra Associazione).
(torna su)
22 - Cfr. parr. 199 e ss. e parr. 281 e ss.
Si noti anche qui, peraltro, l’espansione in materia delle competenze del
Vescovo, chiamato a definire le norme relative alla distribuzione della
Comunione sub utraque specie, come pure a moderare la disciplina
della concelebrazione nelle chiese ed oratori della diocesi. (torna
su)
23 - Cfr. parr. 16 e ss. Rilevante è
pure la precisazione di cui al par.78 lett. c) relativa all’epiclesi. (torna
su)
24 - Cfr. cap. III, parr. 91 e ss. (torna
su)
25 - Cfr. par. 24. (torna
su)
26 - Per una esposizione sintetica della disciplina
dell’inculturazione contenuta nell’IGMR, v. Cap. IX, parr. 388 e ss. (torna
su)
27 - Cfr. par. 42. (torna
su)
28 - Cfr. par. 53. (torna
su)
29 - Cfr. par. 56. (torna
su)
30 - Cfr. par. 71. (torna
su)
31 - Cfr. par. 147. (torna
su)
32 - Cfr. par. 82. (torna
su)
33 - Cfr. par. 83. (torna
su)
34 - Cfr. par. 206. (torna
su)
35 - Cfr. parr. 122 e 173. (torna
su)
36 - Cfr. parr. 133 e 175. Interessanti
anche le disposizioni di cui ai parr. 274 e 275. (torna
su)
37 - Cfr. par. 43. (torna
su)
38 - Cfr. par. 66. (torna
su)
39 - Cfr. par. 160. (torna
su)
40 - Cfr. par. 308. (torna
su)
41 - Così il Damasceno nel De
fide orthodoxa: “Noi non prestiamo venerazione volgendoci verso
Oriente superficialmente o a caso (…). Il Signore, quando era in
croce, guardava verso Occidente e così noi prestiamo venerazione
volgendo lo sguardo verso di lui. Mentre era assunto in alto fu portato
verso Oriente, e così gli apostoli lo venerarono: e così
egli verrà nel modo con cui fu visto andare in cielo, come il Signore
stesso disse: «Come la folgore viene da oriente e brilla fino
ad occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo».
E quindi noi aspettandolo prestiamo venerazione verso Oriente. Questa è
la tradizione non scritta degli apostoli: infatti molte cose essi ci hanno
tramandato senza scriverle”. (torna su)
42 - Cfr. parr. 299 e 303. (torna
su)
43 - Cfr. par. 303. (torna
su)
44 - Cfr. par 314. (torna
su)
45 - Cfr. par. 315. (torna
su)
46 - L’espressione, di cui ci siamo appropriati
per il titolo di questa riflessione, appartiene al Card. Joseph Ratzinger,
che l’ha di recente ancora utilizzata in un’intervista rilasciata al quotidiano
cattolico francese “La Croix”. (torna su)
(aprile 2002)
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